ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
  • HOME
  • REDAZIONE
  • LA VIE EN ROSE
  • FILM USCITI AL CINEMA
  • EUROCINEMA
  • CINEMA DAL MONDO
  • INTO THE PIT
  • VINTAGE COLLECTION
  • REVIVAL 60/70/80
  • ITALIA: TERZA VISIONE
  • AMERICA OGGI
  • ANIMAZIONE
  • TORINO FILM FESTIVAL
    • TORINO 31
    • TORINO 32
    • TORINO 33
    • TORINO 34-36-37
  • LOCARNO
    • LOCARNO 66-67-68
    • LOCARNO 69
    • LOCARNO 72-74-75
  • CANNES
    • CANNES 66
    • CANNES 67
    • CANNES 68
    • CANNES 69
  • VENEZIA
  • ALTRI FESTIVAL
  • SEZIONI VARIE
    • FILM IN TELEVISIONE
    • EXTRA
    • INTERVISTE
    • NEWS
    • ENGLISH/FRANÇAIS
  • SPECIAL WERNER HERZOG
  • SPECIAL ROMAN POLANSKI
  • ARCHIVIO DEI FILM RECENSITI
  • CONTATTI

THE GUILTY – Elogio del fuori campo

4/12/2018

0 Comments

 
Foto
​Tutto in una stanza. Anzi due. 80 minuti di film, 80 minuti di vita. In tempo reale. Un ufficiale di polizia, Asger Holm, relegato a un noioso turno d’ufficio alle chiamate d’emergenza. L’ora di tornare a casa ormai vicina. Il telefono che squilla. Una cuffietta con un piccolo microfono incorporato. Una donna rapita che chiede soccorso, parlando in codice per non farsi scoprire dal suo aguzzino. Il destino nelle mani di chi non può muoversi da quelle pareti stinte. Lo spettatore inchiodato insieme a Holm. Un caotico intreccio di chiamate, conversazioni, comunicazioni spezzate a metà. La tensione, l’angoscia, il sudore dell’attesa. Due bambini in pericolo, un uomo che ha perso la testa. Forse. O forse invece una realtà molto diversa dalle apparenze. La macchina da presa pressoché immobile. Senz’aria. Intuire cosa stia accadendo, senza poterlo vedere. Pathos e batticuore. Dai titoli di testa ai titoli di coda.
​
The Guilty, candidato all’Oscar per la Danimarca e debutto nel lungometraggio del regista classe 1988 Gustav Möller, è stato presentato in anteprima nazionale in concorso al Torino Film Festival, dove ha messo d’accordo tutti, critici e spettatori, portandosi a casa il premio della giuria per la miglior sceneggiatura, il premio come miglior attore al protagonista Jakob Cedergren (ex-aequo con l’ottimo Rainer Bock del noir tedesco Atlas) e il premio del pubblico (pari merito con il bellissimo Nos Batailles di Guillaume Senez). Riconoscimenti meritati, per un’opera che riesce a ridefinire il concetto cinematografico del non-visto, ponendo in essere il trionfo assoluto del fuori campo, inteso come insieme di eventi che si svolgono lontano dall’occhio diretto dell’avventore. 
La Settima Arte, sin dalle sue origini, si è sempre imposta come valvola di sfogo con cui mostrare, raccontare, fotografare la/una realtà. Intorno ad essa, però, non ha mai smesso di seguire un percorso parallelo atto a cavalcare l’immaginazione del fruitore, attraverso una serie infinita di indizi, suggerimenti, tracce, orme e suggestioni abili a costruire nella mente la visualizzazione anche di ciò che l’obiettivo lascia ai margini, invisibile ma presente, indicato ma nascosto, palpitante ma silente. In questo senso, The Guilty supera brillantemente le convenzioni, tramutandoci in specchi riflettenti di una narrazione, quella che si svolge fuori dal campo visivo, inquietante e coinvolgente. 
Nell’arco della sua limitata durata il lavoro di Möller, tratto dalla registrazione audio di una vera chiamata di soccorso arrivata al 911, ci ingloba in un universo tanto ristretto quanto illimitato. Tutto il film si dipana tra poche fredde mura, ma i fatti decisivi deflagrano fuori, per le strade, in un altrove che costruiamo con la mente senza poterlo vedere, senza poterlo decodificare, senza poterci entrare. Noi siamo imprigionati lì con Asger Holm e i suoi colleghi (presenti ma ridotti a figurine di sfondo); siamo topi in una scatola, a mordere la tensione indossando e togliendo convulsamente quella cuffia, a comporre un numero dopo l’altro per unire le tessere di un cruciverba dalla difficile soluzione, a sentir fermare il fiato negli attimi in cui ogni illusione vincente pare perduta. 
​
Girata in pochi giorni, con l’ausilio di sole 3 telecamere, la pellicola danese ricorda in parte alcuni recenti one man show (ad esempio Locke di Steven Knight), ribaltando però il senso del discorso: qui non è il personaggio a lottare per la vita. Egli invece si trova suo malgrado responsabile della vita di qualcun altro; è un oracolo senza fede, reo di colpe non ancora espiate e lasciate anch’esse fuori campo. Nel tentativo di salvare questa donna sconosciuta c’è la sua redenzione, un tentativo di ritrovare la pace interiore smarrita, una missione pregna di umanità ed empatia ma anche di amor proprio. Il nostro giudizio nei suoi confronti peraltro non esiste, perché non ce n’è il tempo: i secondi scorrono veloci, la fibrillazione sale, la frustrazione pugnala, la speranza fluttua. 
The Guilty è un oggetto filmico che sorprende e appassiona, va dritto per la sua strada e non conosce deviazioni o comodi sentieri alternativi. Ci si ambienta per pochi istanti, poi squilla il telefono e una voce rotta di donna chiede aiuto. Da quell’istante si entra in una bolla e non se esce più. La finzione si nasconde, il realismo stringe le sue ali. Fuori da quelle due stanze c’è il dramma. Fuori dalla sala cinematografica non esiste nulla. Almeno per 80 minuti. Si chiudono le porte, il treno scatta, inizia la sua corsa e non si ferma. Fino all’ultimo sbuffo. Fino all’ultimo respiro.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Eurocinema, Torino Film Festival

Scheda tecnica

Titolo originale: Den Skyldige
Regia: Gustav Möller
Sceneggiatura: Emil Nygaard Albertsen, Gustav Möller
Fotografia: Jasper J. Spanning
Attori: Jakob Cedergren, Jessica Dinnage, Omar Shargawi, Johan Olsen
Anno: 2018
Durata: 85’

0 Comments

ELLE - Un cuore in cenere

3/1/2017

0 Comments

 
Foto
La cenere è ciò che rimane dopo la fiamma, materia generata dalla combustione, ma incombustibile, fredda per sua stessa natura. Complice o semplicemente spettatrice di un massacro, una bambina diventa l’emblema della ferocia umana, lo sguardo smarrito e vuoto, ricoperta dalla cenere; per l’opinione pubblica sarà per sempre la “bambina cenere”.
L’innocenza, la purezza contaminata e deflagrata da quella materia che non si scalderà mai, che per sempre rimarrà priva di calore; è la forma della metafora dell’assenza di legami e del vivere una vita algida, in cui i sentimenti sono elementi accessori, di contorno, un vuoto che non necessita di essere colmato.
Dal buio emergono sussulti e grida, all’occhio non è concesso vedere, ma tra il fragore dell’infrangersi di ceramiche e vetri, l’amore si confonde con la ferocia umana. Il primo sguardo offerto allo spettatore dalla mdp è distante, si apre nell’oscurità, è statico, fermo e gelido, distaccato; in un’altra stanza due corpi lottano, avvinghiati l’uno all’altra, nella brutalità di un rapporto sessuale che nasce dalla violenza.
Michèle (Isabelle Huppert) è granitica, la morte le ruota intorno senza mai scalfirla, l’accompagna in una danza che, a passo cadenzato e sinuoso, scivola tra gli interspazi dei rapporti affettivi vacui e privi di qualsiasi fiamma, in un lavoro di sottrazione anaffettiva. Nulla tocca l’anima e nel passaggio tra le immagini qualcosa rimane sulla pelle, una sensazione di gelo. È una deambulazione, nel flusso vitale, lenta e siderale, acuita dalla messa in scena di Paul Verhoeven, dalle angolazioni scelte per inquadrare l’azione, ora oblique e in diagonale, là dove il suo sguardo si insinua tra le dinamiche più intime, quasi con un atteggiamento velatamente voyeuristico, ora bidimensionali, nello sforzo volontario di gelare e fermare l’immagine in un istante glaciale, quando le parole e i gesti di Michèle si fanno più rigidi, crudi e inaspettati.
La matrice di tutto è la violenza. Tutto nasce dalla relazione tra amore e brutalità, in continua lotta tra loro, confondendosi nel rapporto genitoriale, dapprima come figlia e poi come madre, ed in tutte le relazioni sociali, continuamente minate sin dalle loro fondamenta. Si instaurano una serie di rapporti che rasentano quello tra vittima e carnefice, in cui però le due figure si alternano in continuazione; George Bataille spiega: “abitualmente il carnefice non usa il linguaggio di quella violenza da lui esercitata nel nome di un potere costituito, ma usa il linguaggio del potere, che apparentemente lo scusa, lo legittima e gli offre una giustificazione elevata” (1).

1) George Bataille, L’Erotisme, Editions de Minuit, 1957, pp. 209-210

Il potere esercitato da Michèle è legato agli affetti, quelli più prossimi e cari, diretto alle relazioni profonde; è un esercizio di sottile ed acuta violenza, con il padre, con la madre e non ne rimane escluso nemmeno il figlio, grazie a un imprinting feroce e a quell’infanzia legata a un “linguaggio che sconfessa la relazione tra colui che parla e coloro a cui il discorso è diretto” (2).
Elle, è lei, slegata da qualsiasi appartenenza sentimentale, concentrata su se stessa, in un monologo costante; più indentificabile con il Je che con la terza persona, ma di certo, come questa, distaccata ed al centro di un ragionamento laterale, sempre e necessariamente solitario, rinchiusa nel suo solipsismo esistenziale. Come la tarantola, nella scena di apertura del Quarto uomo, che si muove indisturbata sul crocifisso, anche Elle è la lacerazione tra gli assiomi sociali e le regole religiose, minando il tessuto della famiglia borghese; Lei, tanto amata e protetta dalle persone più prossime, quanto umiliata e colpevolizzata dalla società che la circonda.
Ancora una volta Paul Verhoeven si mostra caustico e duro nel dipingere rapporti familiari e sociali, come lo era stato anche con la famiglia del suo sperimentale Steekspel, tra le sue ultime opere, tratteggiando, con sapienti pennellate, un affresco cinico e grottesco che sfocia, a tratti, nella commedia, secondo l’uso comune a un certo cinema francese, come quello chabroliano. L’accanimento, in maniera del tutto ingiustificata, contro il parafanghi dell’auto dell’ex-marito, il cameriere che arriva con la bottiglia di champagne nel momento sbagliato, ma anche alcune sfumature tra l’ironia e la sensualità sopra le righe, ricordano allo spettatore quanto il registro linguistico verhoeviano sia intriso di sarcasmo deflagrante.
Dopo Basic Instinct, il regista olandese torna a soffermarsi sulla glacialità femminile, in un ritratto di donna sicura di se, desiderante e non priva di una passionalità intrinseca e contraddittoria. I rapporti che Michèle/Elle intesse con l’altro sesso, ma non solo, hanno una venatura che sfocia a tratti nella malattia. Il suo desiderio è anarchico, si accende davanti al proibito, il piacere deve essere soddisfatto da quelle pulsioni in cui Eros si combina con Thanatos, “al punto che la distruzione, il negativo nella distruzione, si presenta necessariamente come il contrario di una costruzione o di una unificazione sottoposta al principio di piacere” (3).

2) ibidem
3) Gilles Deleuze, Il freddo e il crudele, pag 33, SE, Milano, 2007

Il senso di morte e di (auto)distruzione, come componente imprescindibile, è manifestazione della libertà del cinema di Paul Verhoeven, declinata in tutte le sue varianti, talmente estremizzata da divenire vitale, scardinando qualsiasi allegoria predeterminata e allontanandosi dai territori moraleggianti, marcati e salvaguardati dalle regole sociali.
Così la vittima e il carnefice scambiano i propri ruoli, in un sottile gioco erotico di sensuale provocazione, in una sfida in cui l’aggressività detta le regole ed è la matrice fondamentale del rapporto di Michèle con il mondo. L’uomo nero, dapprima boia, diventa oggetto del desiderio di Elle e poi succube del suo gioco, in una vendetta dai contorni indefiniti e indefinibili, in bilico tra un amplesso cercato e la spiazzante distruzione del concetto di coppia.
Si rincorre il tentativo di uccidere il desiderio, in quello che vorrebbe essere un delitto perfetto, con l’irriverenza tipica del linguaggio filmico adottato dal regista, seguendo coordinate a volte prive di spiegazione e di logica, destabilizzando lo sguardo dello spettatore attraverso un’ambiguità di fondo e repentini, quanto inattesi, cambio di registro. Elle tenta di uccidere il suo violentatore, nei suoi sogni/incubi e nella realtà; quelle forbici che nel Quarto Uomo erano la metafora della castrazione del piacere, qui sono l’allegoria di un’ossimorica morte vitale, che non è fine, come nell’hitchcockiano Dial M for Murder, ma principio di un sadomasochistico rapporto a due con il proprio carnefice.
La filmica verhoeveniana è una materia polimorfa, un fluido magmatico di pulsioni, sessuali e vitali, perché nulla è più vitale della morte, un assunto che, nel suo essere contraddittorio, da solo riesce nell’intento di rendere la vita più vera. Il regista gioca con l’equivocità e la plurivocità di significati e significanti, sovvertendo le metriche di fruizione dello sguardo, forse per puro divertimento o forse perché semplicemente non c’è nulla di più sovversivo e sedizioso della vita stessa.

Mariangela Sansone

​Sezioni di riferimento: Eurocinema, Cannes 69, Torino 34, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Elle
Regia: Paul Verhoeven
Sceneggiatura: David Birke
Attori: Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling
Anno: 2016
Durata: 130’
Fotografia: Stéphane Fontaine
Musica: Anne Dudley​
​Uscita italiana: 23 marzo 2017

0 Comments

ANANKE - Cronache dal mondo del dopo

17/4/2016

0 Comments

 
Immagine
​Come nel bellissimo e misconosciuto Fine Agosto all'Hotel Ozon di Jan Schmidt, il mondo del dopo riflette le sue cicatrici in una natura arida, selvaggia, resa ancor più tale in questo caso dal formato Super-16, che sgrana le inquadrature e sfuma i contorni degli spazi, minimizzando l'impatto degli scorci che diversamente potrebbero apparire lussureggianti. 
Fra le fronde del bosco “buio e silenzioso” in cui si rifugiano i due sopravvissuti di Ananke aleggia infatti un perenne senso di morte, che non è soltanto il riflesso di un mondo sconfitto dalla pandemia che spinge al suicidio ogni uomo che tenti di stabilire un contatto con il suo prossimo: è una sorta di condizione esistenziale, la solitudine “dura e necessaria” che la protagonista evoca nelle sue lettere-monologo a una madre di cui non ha più notizia.
​
Le lusinghe con un possibile genere fantasy, però, si fermano qui, e spianano la strada a un dramma umano che cerca, nel rigore a tratti un po' forzato delle sue inquadrature, una possibilità espressiva in grado di riflettere ed elaborare il vuoto interiore di un'umanità che ha esteriorizzato la sua incapacità di stare al mondo. Per questo le azioni appaiono una vuota coazione a ripetere gesti essenziali: muoversi, mangiare, dormire. L'obiettivo è la mera occupazione di uno spazio d'adozione, dopo aver perso quello d'origine, e allora Ananke lascia parlare il resto, le mura fatiscenti, la natura che potrebbe apparire soverchiante ma si ritrova invece contorno, dimessa e muta partecipe della solitudine.
L'intento è quello di un cinema semplice nelle sue forme, aperto a una possibile fruibilità anche universale, che possa così fare a meno del dialogo: sebbene non sia un film propriamente muto, le poche parole pronunciate dai protagonisti in un francese un po' fittizio (l'orecchio allenato può percepire non trattarsi di due madrelingua) restituiscono un senso di alterità, di un superfluo, orientato nei casi migliori – come le già evidenziate lettere alla madre – a un orizzonte altro rispetto alle quattro mura o gli spazi circostanti la casa-rifugio.
In tutto questo, i possibili punti di fuga sono rappresentati dagli elementi vivificatori, l'eponima capretta Ananke (da cui i due personaggi traggono il latte utile a sopravvivere) o la bambina che la donna porta in grembo. Ma entrambi sono anche elementi di risonanza del dramma, catalizzatori di possibilità che i due protagonisti sembrano quasi sfuggire: il che porta naturalmente a chiedersi se di fuga per la vita realmente si tratti per i personaggi, o piuttosto di un crogiolarsi in una vuotezza dell'anima anche un po' cercata. Una sorta di terapia che diventa però immersione nel proprio ventre oscuro. Come quelle lettere inviate a una madre che in fondo si teme (si sospetta?) già morta. O quella bambina data infine alla vita e subito abbandonata, per timore di instaurare un legame che potrebbe essere foriero di altra morte, e che riapre così il gioco di disperazione alla base della storia. 
La risposta sta nell'elaborazione finale, affidata a un lirico e vibrante dettaglio degli occhi della donna, bagnati dalle ultime lacrime.

Davide Di Giorgio

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Regia: Claudio Romano
Sceneggiatura: Claudio Romano, Elisabetta L'innocente
Attori: Marco Casolino, Solidea Ruggiero
Fotografia: Juri Fantigrossi
Montaggio: Ilenia Zincone
Durata: 69’
Anno: 2015

0 Comments

LA ISLA MINIMA - Un killer tra le paludi

8/4/2016

0 Comments

 
Immagine
In una Spagna da poco uscita dal franchismo (siamo nel 1980) due detective della squadra omicidi di Madrid, Pedro (Raúl Arévalo) e Juan (Javier Gutiérrez), arrivano in un villaggio andaluso, sperduto tra le paludi del Guadalquivir, per indagare sulla sparizione di una coppia di sorelle, avvenuta nel corso di una festa paesana. Le forze dell'ordine del posto, che ancora godono e abusano del potere conferito loro dalla dittatura, brancolano nel buio e si dimostrano del tutto incapaci di affrontare un'inchiesta di tale portata.
​Gli investigatori si scontrato da subito con la mentalità gretta dei locali, poliziotti compresi, che anziché fornire informazioni si dilungano in considerazioni poco edificanti riguardo il comportamento, considerato oltremodo libertino, di Estrella e Carmen, le giovani scomparse. Quando però i corpi mutilati e stuprati delle sorelle vengono rinvenuti in un canale, Pedro e Juan comprendono di aver a che fare con un feroce assassino e pian piano, dal muro di omertà che avvolge il paese, emergono voci che riportano preziose testimonianze nonché elementi inediti da esaminare. Le due ragazze sono infatti soltanto le ultime vittime di una lista di povere donne svanite nel nulla. Lungo polverose strade sterrate, tra acquitrini, paludi e case abbandonate, scatta allora una serrata caccia all'uomo per stanare un serial killer che non conosce pietà.
​
Il regista spagnolo Alberto Rodríguez, ne La isla mínima anche co-sceneggiatore, confeziona un noir politico originale e ben girato, con una spettacolare fotografia (a cura di Alex Catalán) che immortala i paesaggi mozzafiato delle paludi della foce del Guadalquivir. Il merito di Rodriguez va comunque ben oltre i pregi stilistici dell'opera, perché La isla mínima non è solo un thriller ricco di colpi di scena dalla sceneggiatura puntuale, ma rappresenta un'analisi storica della Spagna post-franchista. La neonata democrazia spagnola fatica a scrollarsi di dosso la violenza e la corruzione del vecchio regime, dove militari incapaci, trafficanti di droga, rappresentati dello Stato venduti al miglior offerente la fanno ancora da padroni. 
In una società con scarsissima considerazione della donna, in cui le rivendicazioni per i diritti civili stentano a prendere piede, la relazione tra il nuovo che avanza e il passato che non vuole dissolversi si riflette nel rapporto tra Pedro e Juan. Il giovane Pedro è un uomo razionale e taciturno, che nutre un profondo odio per i fascisti e per tutti coloro che hanno tratto benefici dalla dittatura.
​Il suo distacco contrasta con l'atteggiamento gioviale di Juan, che attacca bottone con gli abitanti del villaggio, ama la buona cucina e le belle ragazze. Ma sotto un'indole bonaria si nasconde in realtà il “Corvo”, un membro della polizia segreta, torturatore e assassino. Juan diventa così la perfetta incarnazione del marcio di un sistema ormai sul viale del tramonto (anche il detective è malato e sta morendo), ma che non rinuncia a un ultimo colpo di coda. Emblematico in questo senso è il consiglio che un giudice dà a Pedro: “Tra poco sarà padre, dovrebbe fare attenzione a quello che fa”.
Magistrale la prova dei due protagonisti Raúl Arévalo e Javier Gutiérrez, novella coppia di investigatori del panorama cinematografico. Impossibile non cercare somiglianze e differenze con Matthew McConaughey e Woody Harrelson, superbi interpreti della prima stagione di True Detective. Anche perché le paludi del profondo sud della Spagna non sono poi tanto diverse dagli acquitrini della Louisiana. 
La pellicola ha trionfato ai Goya nel 2015, vincendo ben 10 premi, tra cui quello per il miglior film. 

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Eurocinema

​
Scheda tecnica

Titolo originale: La isla minima
Anno: 2014
Regia: Alberto Rodríguez
Sceneggiatura: Rafael Cobos, Alberto Rodríguez.
Fotografia: Alex Catalán
Montaggio: José M. G. Moyano
Musica: Julio de la Rosa
Durata: 105'
Uscita italiana: 30 novembre 2015
Interpreti principali: Raúl Arévalo, Javier Gutiérrez, Nerea Barros, Jesús Castro, Maria Varod, Antonio de la Torre

0 Comments

TELLURICA - Racconti dal cratere

1/4/2016

0 Comments

 
Picture
​Terremoto. Il momento, la sorpresa, la paura. E poi, soprattutto, il dopo: le macerie, la ricostruzione, le case in cui non si può o non si vuole più entrare; i danni, i resti, i segni destinati a rimanere indelebili, agli occhi e nel cuore; le parole, le televisioni, le radio; la solidarietà, la forza, gli affetti, le lacrime; le conseguenze, materiali e morali, collettive e individuali. 

Tellurica è un progetto realizzato da Sisma Emilia, collettivo nato poco dopo il terremoto che nel maggio del 2012 ha colpito l'Emilia Romagna. Un film composto da dieci cortometraggi, di varia lunghezza e diretti da dieci diversi autori, con i quali portare sullo schermo idee, sentimenti, metafore, rappresentazioni di alcune tra le tante dolenti sfumature che colpiscono chi è testimone diretto di eventi così terribili. 
Un lavoro bello e prezioso, quello coordinato da Matteo Merli, nel quale i diversi punti di vista sanno trovare un ottimo equilibrio e una apprezzabile coesione, allontanandosi dallo sfilacciamento stilistico che spesso accompagna i film realizzati a più mani. Un contenitore toccante ma deciso e concreto, che mette in scena i giorni e i mesi successivi al sisma emiliano facendosi però portavoce universale di sentimenti e reazioni che possono accadere ovunque e a chiunque, in simili occasioni.
Dieci cortometraggi, mediamente notevoli, alcuni ottimi, tutti accomunati dal desiderio di mostrare ciò che nei telegiornali raramente si vede; non tanto le immagini del disastro, spesso assenti eppure presenti perché lì, sullo sfondo e nelle anime dei personaggi, quanto piuttosto i postumi psicologici dell'evento, talvolta intrisi di speranza e voglia di combattere, ma in molti casi anche imbevuti di timori e ferite di difficile cicatrizzazione.

Allora, eccoli, i singoli episodi, abili a formare un insieme omogeneo e coinvolgente, a partire dal breve e bellissimo corto iniziale, 404 Time not found, in cui una coppia, in silenzio, cena guardando i TG che raccontano il terremoto avvenuto poche ore prima, e poi sempre in silenzio va a dormire, limitandosi a un dolce gioco di sguardi che spiega più di mille parole. A seguire You had to be there, che unisce il dramma emiliano con quello avvenuto a L'Aquila nel 2009, per stabilire subito il carattere non solo locale bensì globale dell'operazione filmica. 
Giungono poi Il respiro del gigante, in cui un senzatetto trova rifugio in un bosco, per poi inveire contro la Madre Terra, chiedendole e chiedendosi perché abbia “scelto” di portare proprio in quel luogo il suo ruggito mortale; Lettere dal fronte, piccola favola ad altezza di bambino, in cui il giovane protagonista immagina il terremoto e ciò che viene dopo come una guerra, da affrontare sotto assedio ma con determinazione e spirito di resistenza, chiedendo aiuto e sostegno ai propri coetanei; Happy Birthday Rovereto, brevissimo ma efficace, dove si alternano immagini di un clown triste e immobile posizionato davanti a spazi una volta pieni di vita e ora desolatamente asettici; Shell Shocks Radio, l'apice dell'opera, in cui si analizzano gli effetti del terremoto nella mente di molte persone, attraverso la triste storia di un uomo che ha il terrore di mettere ancora piede dentro la propria casa, nel timore di sentire altre scosse, e per questo vive e dorme in macchina, giorno e notte, entrando nell'abitazione solo per piccolissimi e indispensabili momenti, salvo poi scappare fuori al primo vago rumore sospetto, in una sorta di infernale paranoia che trova attimi di quiete e normalità solo ascoltando alla radio le partire di calcio della Nazionale, unico appiglio per fuggire dallo shock post-traumatico che lo perseguita.

Coesione, si diceva; in Tellurica si ha la sensazione di trovarsi dentro a un lavoro che sa essere fortemente unito, pur non mancando ampie variazioni stilistiche e narrative, come in Wang, in cui un uomo cinese ricorda e omaggia uno dei propri figli, morto nella polvere dopo aver vissuto un'esistenza breve e invisibile (la didascalia finale ci rivelerà il perché), e in 4:04, girato con la tecnica dell'animazione, in cui una donna alterna presente e passato, ricordi e commozione.
La conclusione del film è affidata a due corti ancora una volta apprezzabili: L'occasione, tratto un fatto realmente accaduto, in cui una coppia torna a casa dopo una vacanza, appoggia sul tavolo una bottiglia di buon vino, decide di non berla subito perché “è meglio aspettare l'occasione giusta”, e poi, quella stessa notte, si ritrova la stessa bottiglia infranta sul pavimento a causa del terremoto, e L'Anniversario, in cui una donna viene avvisata della sparizione del padre, lo cerca vagando in un paese dove ancora a ogni angolo si vedono i segni della tragedia, e infine lo trova, nello spiazzo dove una volta sorgeva la loro casa, silente e malinconico davanti al vuoto e all'assenza. 

Quest'ultimo episodio, in cui compare Roberto Herlitzka, ben riassume il senso di un progetto nato, cresciuto e concluso con intelligenza e abilità, durante e dopo la lavorazione (i ricavati di molte proiezioni pubbliche sono infatti stati destinati a progetti per la ricostruzione). Un film prezioso, utile a chi ha vissuto simili momenti ma anche a chi per sua fortuna non li ha vissuti mai. Prezioso per lottare, aiutare, provare a capire. O semplicemente per non dimenticare.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Eurocinema

A questo link è possibile visitare il sito del Collettivo Sisma Emilia

Per chi volesse acquistare il Dvd del film, è sufficiente scrivere al seguente indirizzo mail: info@arkadinpictures.com


Scheda tecnica

Registi: Francesco Barozzi, Carlo Battelli, Roberto Cavana, Giuseppe Ferreri, Domenico Guidetti, Marco Maselli, Mirco Marmiroli, Emanuele D'Antonio, Corrado Ravazzini, Nicola Xella.
Produzione: Collettivo Sisma Emilia
Anno: 2014
Durata: 80'

0 Comments

RAMS - L’Islanda e il suo grembo

15/3/2016

0 Comments

 
Immagine
​Toccante, umano, malinconico come i paesaggi che lo invadono e terribilmente appagante. Rams, film islandese diretto da Grímur Hákonarson, è tutto questo, ma incluso e perimetrato nelle atmosfere della commedia nera. Applaudito alla scorsa edizione del festival di Cannes, vincitore della sezione Un Certain Regard presieduta da Isabella Rossellini, il lungometraggio di Hákonarson mostra un lato rurale e profondamente radicato nella cultura islandese del nord, perché nella terra dei ghiacci e dei vulcani l’allevamento è parte integrante della vita quotidiana, anche odierna, e il rapporto di fedeltà tra uomini e pecore è strettissimo. 
L’Islanda, e il suo territorio, è qui teatro per una storia antica quanto moderna che si focalizza sul tormentato rapporto tra due vicini di casa, fratelli, che non si parlano da ormai quarant’anni. Il motivo, lungo tutta la durata del film, non verrà mai chiarificato. Gummi e Kiddi vivono fianco a fianco allevando le loro pecore. Le loro greggi, che derivano dallo stesso ceppo originario, sono considerate di assoluto pregio e vengono così, di concorso in concorso, premiate con i voti più alti. 
La festa per Kiddi, il vincitore di turno, viene però immediatamente rovinata poiché pochi giorni dopo la gara le sue pecore vengono trovate positive ad un virus letale che è in grado di mettere in pericolo tutto il bestiame della vallata. La speranza di salvare i propri animali è ulteriormente messa in pericolo dalla decisione del governo di investigare sulla malattia e sulla possibile decisione di macellare tutti i capi presenti.
Hákonarson descrive un micro mondo a lui familiare, poiché entrambi i suoi genitori vengono dalla campagna islandese e lui stesso, fino all’età di diciassette anni, ha passato gran parte delle sue estati lavorando nelle fattorie. Nel nord dell’Islanda l’allevamento delle pecore è parte integrante del quotidiano e della sopravvivenza della popolazione e raggiunge aspetti quasi sacrali, tanta è la devozione. Il virus, la malattia, è in Rams il vero motore della vicenda, perché mette in pericolo la vita di tutti, e costringe Gummi e Kiddi, sul finale, a un riavvicinamento a lungo atteso, un contatto umano inevitabile.
Il piglio registico è estremamente espressionista nel modo in cui gli esterni, le montagne, la vallate e le condizioni meteorologiche avvolgono le piccole e semplici storie dei protagonisti e della loro comunità. Gli interni, invece, sono piccoli, confortevoli e stranamente caldi. Proprio in questi ambienti si consumano scene la cui comicità del tutto nordica risolleva il tono altrimenti silenzioso dell’intera opera filmica. 
Uno dei due fratelli, Gummi, temendo di passare tutto il rigido inverno in solitudine, decide di salvare un piccolo numero di pecore da nascondere in una improbabile taverna convertita in allevamento. La frequente visita dei veterinari è fonte di gag comiche mai esagerate e sempre accordate al tono pacato e gentile che Rams possiede. Purtroppo uno dei veterinari si accorge della presenza delle bestie in taverna e riesce a chiamare i soccorsi. Gummi è così costretto a ricorrere all’aiuto del fratello Kiddi che, nonostante gli anni di freddezza e distacco, per l’amore della propria terra e delle proprie tradizioni si dimostra immediatamente pronto all’azione e a una rocambolesca fuga.
Da qui in poi l’opera filmica di Hákonarson si stravolge e diventa una tragedia che ha luogo nel ventre della natura islandese. Gummi, Kiddi e il loro gregge cercano rifugio al di là delle colline, un luogo praticamente irraggiungibile a causa di una tormenta che imperversa su di loro e che ne rallenta il passo. I dialoghi cessano e lo spettatore è letteralmente avvolto dall’ululato del vento che si fa sempre più potente al calare della notte. Dopo poco i due fratelli perdono contatto con le pecore, unico motivo che li aveva portati sin là su, e si ritrovano perduti tra le nevi.
Trovato Gummi mezzo morto e assiderato, Kiddi decide – e qui Hákonarson realizza una sequenza magnifica – di scavare una fossa nella neve per rifugiarsi col fratello. Finalmente i due si ritrovano insieme, nel grembo della loro Islanda, un ritorno quasi uterino che suggella un film particolarissimo dal profondo impatto emotivo.
Rams ha la facoltà di catturare e imprimere sullo schermo la peculiare cultura rurale islandese in maniera intima e introspettiva, metaforizzando pericoli esterni – la veterinaria mandata dal governo per decidere la macellazione delle greggi di pecore è danese, e rappresenta in un certo qual modo l’apertura della nazione nordica all’influenza europea, delle sue culture e delle sue leggi – per mostrare una comunità e la sua inquietudine nei confronti del cambiamento.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Hrútar
Anno: 2015
Regia: Grímur Hákonarson
Sceneggiatura: Grímur Hákonarson
Fotografia: Sturla Brandth Grøvlen
Musica: Atli Örvarsson
Durata: 93’
Uscita italiana: 12 novembre 2015
Attori principali: Sigurður Sigurjónsson, Theodór Júlíusson

0 Comments

A WAR (KRIGEN) - La guerra e le sue derive morali

22/2/2016

0 Comments

 
Immagine
In corsa nella categoria Best Foreign Film agli Oscar 2016, edizione ottantottesima della celebre manifestazione a stelle e strisce, il danese A War (Krigen) è il nuovo film dell’ottimo e sempre sorprendente Tobias Lindholm. Dopo le sceneggiature di Submarino e Il Sospetto, entrambe realizzate per il connazionale Thomas Vinterberg, e la direzione del tesissimo A Hijacking, Lindholm torna alla regia di un lungometraggio; il risultato è una notevole rilettura del war movie statunitense di recente fattura, The Hurt Locker, Zero Dark Thirty e American Sniper su tutti. A War prescinde – presa di posizione forte e decisa – dal voler rappresentare lo “spettacolo” della guerra, con il fine di mettere in scena i conflitti individuali che ogni soldato porta con sé sul campo di battaglia. 
Lunghi momenti d’attesa e pochi e fulminanti sprazzi d’azione caratterizzano il film di Lindholm, un’opera che narra le vicende di un plotone danese di stanza in Afghanistan con lo scopo di preservare l’incolumità della popolazione civile. La responsabilità di tutto il reparto è sulle spalle di Claus (Pilou Asbæk), soldato tutto d’un pezzo che sta sempre vicino ai propri ragazzi ma si trova lontano, lontanissimo, da sua moglie e dai tre figli, che fanno il possibile per affrontare la vita di tutti i giorni nonostante la sua mancanza. Durante una missione che doveva essere di routine, Claus e i suoi si trovano sotto attacco e, con un uomo gravemente ferito a terra, chiamano rinforzi ottenendo un devastante attacco aereo.
Questo il punto critico che fa affondare la carriera del soldato, ma che riporta alla luce quella del padre e marito, che dovrà affrontare le conseguenze delle sue azioni davanti a un tribunale militare, per dimostrare una volta per tutte che egli aveva la piena evidenza di come Compound 6 fosse davvero un obiettivo non civile.

A War è un film diviso in due. I centoventi minuti della pellicola sono ripartiti equamente tra campo di guerra e campo processuale. Una suddivisione che crea una chiara consequenzialità tra causa ed effetto. Lindholm riesce così a rendere estremamente palese ed esplicito il fatto che le azioni militari possano avere effetti profondissimi proprio nel quotidiano; in nuce all’opera del regista danese non giace assolutamente nessuna argomentazione relativa ai crimini di guerra, quanto, e piuttosto, alle derive morali e personali che determinate scelte possono provocare.
Sul finire dello scorso anno, il Danish Film Institute ha deciso che sarebbe stato il film di Lindholm a rappresentare il cinema danese ai prossimi Oscar, scavalcando le candidature di Men and Chicken e del notevole The Look of Silence. Giudicare questa scelta, a visione conclusa, e lasciata sedimentare la pellicola nella nostra mente, appare più semplice di quanto si possa immaginare. A War è infatti un film che conferma per l’ennesima volta quanto il cinema danese e scandinavo tutto sia attento a ciò che accade oltreoceano, metabolizzando schemi e segni con lo scopo di realizzare un prodotto personale. Il film danese infatti si ispira ma tradisce il modello, annullando il possibile patto regista/spettatore, non offrendo chiarimenti e, anzi, omettendo quanto è possibile mostrare per costringerci a una negoziazione difficoltosa e incerta.
Iniziato l’iter processuale, Claus si trova a dover ripercorrere con la mente – sollecitato dal giudice e dall’avvocato dell’accusa – gli eventi che lo hanno costretto a prendere quella drammatica decisione. La memoria, non senza qualche ambiguità, lo tradisce, e noi spettatori, come lui, siamo incapaci di ricordare il punto focale della vicenda. Lindholm decide così di non ricorrere alla figura retorica chiarificatrice per eccellenza: il flashback. In questo modo la tensione verso lo scioglimento del dubbio, la sentenza finale, è un parossismo totalmente basato sulla più totale fiducia nei confronti delle verità processuali e delle testimonianze. 
La scelta di negare qualsiasi chiarificazione è, a parere di chi scrive, fondamentale per rendere A War il piccolo gioiello che è. Inoltre, la decisione di far gareggiare agli Oscar un film caratterizzato da una forma cinematografica anti-hollywoodiana potrà certamente creare qualche cortocircuito dagli esiti, si spera, inaspettati – nonostante l’ungherese Son of Saul sia l’opera da battere.
In conclusione, A War di Lindholm si presta anche a una visione e una lettura non univoca. La fruizione in sala e quella domestica saranno diametralmente opposte: la prima, basata sulla costrizione temporale immodificabile, la seconda invece con libertà allo spettatore, per quell’ “impossibile ritorno” a un punto precedente della fabula. 

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Krigen
Anno: 2015
Nazione: Danimarca
Regia: Tobias Lindholm
Sceneggiatura: Tobias Lindholm
Fotografia: Magnus Nordenhof Jønck 
Durata: 115’
Attori principali: Pilou Asbæk, Tuva Novotny, Dar Salim

0 Comments

MY NAZI LEGACY - Le colpe dei nostri padri

26/1/2016

0 Comments

 
Immagine
​Gennaio, giorno ventisettesimo del 1945; il terribile campo di concentramento di Auschwitz viene liberato per mano dell’Armata Rossa.
​Da allora questa data è il simbolo di una tragedia immane e, grazie alla risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2005, viene riconosciuta come Il Giorno della Memoria: una ricorrenza che si celebra con decenza e con spirito commemorativo, con lo scopo anche e soprattutto pedagogico di insegnare qualcosa di estremamente importante a quelle generazioni che non sono state testimoni della seconda guerra mondiale e dello sterminio ebraico, ma che hanno il dovere di evitare che ciò accada di nuovo, comprendendo che spesso gli orrori hanno origine nella normalità del quotidiano.
In una tragedia storica di questa grandezza, difficilmente la memoria – intesa come capacità mentale di accumulare, conservare e richiamare “materiali” – può essere collettivizzabile. Il vincitore ricorda e celebra come lo sconfitto? L’orfano e, viceversa, il genitore che ha perduto il figlio soldato? Il documentario che qui ci apprestiamo a presentare si pone il problema di affrontare una questione enorme: la riflessione sulla memoria individuale rispetto, e a volte in opposizione, a quella collettiva e, infine, la possibilità e l’ambiguità di un giudizio.

My Nazi Legacy, diretto da David Evans (che si è costruito una buona carriera grazie a serie televisive di notevole successo in Inghilterra) e scritto da Philippe Sands, è un’opera filmica di prepotente intelligenza che affronta il delicatissimo rapporto tra due figli e le colpe dei propri padri, Hans Frank e Otto Wächter, membri delle S.S. e fautori dello sterminio di massa di polacchi ed ebrei.
Hans Frank, anche conosciuto come “il macellaio dei polacchi”, fu un avvocato al soldo del partito nazista durante gli anni Venti e Trenta del primo Novecento. In seguito divenne consigliere personale di Hitler. Dopo l’invasione tedesca della Polonia fu comandante capo nelle nuove terre occupate. Dal 1939 al 1945 si macchiò di atroci crimini di guerra ai danni di ebrei e cittadini polacchi a causa dei quali fu poi processato a Norimberga e impiccato. Otto Wächter (Baron Otto Gustav von Wächter) fu invece un legale austriaco anche lui legato ai crimini commessi in Polonia, ma anche nella regione della Galizia. Nel 1949 riuscì ad arrivare a Roma dove, grazie a un vescovo Austriaco, e sotto le mentite spoglie di Alfredo Reinhardt, trovò rifugio nell’istituto clericale Vigna Pia, per poi morire di ittero poco tempo dopo.
David Evans decide di incontrare Niklas Frank e Horst von Wächter con lo scopo di investigare il rapporto complesso e sfaccettato che due figli di personaggi così ingombranti possono instaurare con un periodo così chiaramente condannato. Unanimità che, come si può evincere dalla visione di questo documentario, è tutt’altro che scontata. Entrambi sono consapevoli della gravità dei crimini commessi, ma il loro giudizio sembra in qualche modo influenzato dal tipo di infanzia vissuta, più dura e distaccata quella di Frank, idilliaca e pacifica quella di Wächter. I due accompagnano lo spettatore tra i luoghi di nascita, le mura domestiche e i territori di morte dove i loro avi hanno lasciato un segno indelebile. I materiali disseminati lungo la durata filmica – fotografie, lettere e, soprattutto documenti ufficiali – sono perfettamente organizzati e non sono solo atti a chiarire l’evoluzione della tragedia che l’Olocausto ha significato, ma, soprattutto nel confronto tra padri e figli, aiutano a problematizzare le evoluzioni di un rapporto, modificandone il giudizio e accrescendone l’ambiguità. 
Horst von Wächter è tra i due colui che ha più difficoltà a condannare il padre, poiché vede in lui una persona che ha tentato di difendere una parte di popolazione, quella ucraina contro l’invasione russa, dimenticando di volta in volta i misfatti e i legami con l’annientamento polacco. L’assenza del nome paterno nei documenti ufficiali, dal processo di Norimberga e una morte piuttosto pacifica certamente non aiutano a dissipare l’ambiguità con cui Horst preferisce convivere. Niklas cerca continuamente di imporre il proprio giudizio di condanna all’amico, senza però riuscirvi. 
Il baricentro di My nazi legacy, documentario che va visto piuttosto che raccontato, gravita attorno alla possibilità di un percorso soggettivo e personale rispetto a un passato tanto orribile. La condanna nostra, della macchina da presa e di Niklas trovano ostacoli ideali e sentimentali che sono però precipui per una riflessione più profonda, che lascia libertà di giudizio di fronte alla volontà da parte di Horst di non rimanere idealmente relegato nel passato, una “fuga” per alcuni inaccettabile e imperdonabile. Ma noi, sorge spontaneo, che persone saremmo e che posizione avremmo di fronte all’Olocausto se i nostri padri fossero dei nazisti?

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: My nazi legacy
Anno: 2015
Regia: David Evans
Sceneggiatura: Philippe Sands
Fotografia: Philipp Blaubach, Matt Gray, Sam Hardy
Musiche: Malcom Lindsay
Durata: 96’
Attori principali: Philippe Sands, Horst von Wächter, Niklas Frank

0 Comments

THE SECOND CLOSET - Punto di rottura

25/1/2016

0 Comments

 
Immagine
​Miki vive con la compagna Anne. La loro storia d'amore è giunta ormai al capolinea, non perché sia venuto meno il sentimento che le unisce, ma a causa dei continui soprusi che Miki è costretta a subire. L'attrazione morbosa di Anne nei confronti della partner sfocia infatti in attacchi di gelosia ed episodi di violenza, fisica e psicologica, che mirano ad annientarne la personalità e la volontà. Quest'ultima infatti sopporta in silenzio, spinta da una sorta di masochismo che le impedisce di separarsi dalla donna amata. 
Il ritmo incalzante del cortometraggio The Second Closet racconta in pochi minuti l'evolversi della relazione amorosa tra le due giovani fino alla sua dolorosa disintegrazione. Ricordi del passato, sequenze oniriche, ricatti e lividi sulla pelle si fondono in un'unica dimensione fino a che Miki torna a prendere di nuovo coscienza di sé.
​Supera così l'idealizzazione del rapporto di coppia, ne affronta il fallimento e comprende di essere rinchiusa in una gabbia. Miki però è ora in grado di compiere scelte consapevoli. E decide di lasciare Anne e riprendersi la propria vita. Trova il coraggio di aprire la porta di casa e di richiuderla dietro di sé. Un gesto banale che vale la libertà.

Il cortometraggio è stato diretto da Sara Luraschi e Stefania Minghini Azzarello. La storia si è sviluppata sulla base di numerose testimonianze raccolte dalle registe, che hanno così voluto denunciare un tema scottante che è ancora un tabù: la violenza domestica tra donne. Il film cerca di evitare gli stereotipi, analizzando invece le dinamiche che finiscono per distruggere la relazione tra Miki e Anne. The Second Closet, visibile online nella sua integrità e già proiettato in diversi festival, è stato realizzato all’interno del progetto Bleeding Love, finanziato dal programma europeo DAFNE, nato appunto con lo scopo di prevenire la violenza domestica contro lesbiche, donne bisessuali e transessuali nei Paesi dell'Unione Europea. 

A questo link è possibile vedere il film.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Second Closet
Anno: 2015, Italia
Regia: Sara Luraschi, Stefania Minghini Azzarello.
Sceneggiatura: Sara Luraschi, Stefania Minghini Azzarello.
Montaggio: Sara Luraschi 
Musica: Costanza Bortolotti
Fotografia: Andrea Zanoli
Durata: 15'
Interpreti principali: Stefania Minghini Azzarello, Nicole Guerzoni, Tony Allotta.

The Second Closet - trailer from Lab 80 film on Vimeo.

0 Comments

IL SEGRETO DEL SUO VOLTO (PHOENIX) - La rinascita della fenice

6/1/2016

0 Comments

 
Immagine
Nelly Lenz (Nina Hoss), ebrea berlinese, fa ritorno a casa alla fine della guerra. Sopravvissuta al campo di concentramento, ma con il volto orribilmente sfigurato, si sottopone a un intervento di ricostruzione facciale in una clinica specializzata, grazie all'aiuto di Lene (Nina Kunzendorf). Quest'ultima progetta un trasferimento in Israele con l'amica, che ha ereditato un'ingente somma di denaro dato che è l'unica superstite della sua famiglia.
​Diversi però sono i piani di Nelly, a cui preme soltanto ritrovare l'amatissimo marito Johnny (Ronald Zehrfeld). Perciò insiste con il chirurgo perché possa restituirle sembianze il più possibile simili al suo autentico volto e, una volta dimessa, si aggira nei locali notturni di Berlino con la speranza di rintracciare il compagno musicista. Lene, che conosce la vera natura di Johnny, tenta di ostacolare in ogni modo la ricerca dell'amica, invano.
​Una sera Nelly entra al Phoenix, un night club nel settore americano della città, e lo vede servire ai tavoli. Anche l'uomo la nota; la avvicina e le propone di mettersi in affari. Le racconta che lei assomiglia alla defunta moglie Nelly e che, con qualche accorgimento, potrà fingere di essere la consorte deceduta per richiedere l'eredità che le spetta. Se lo stratagemma andrà secondo i piani, spartiranno a metà il denaro.
​Ancora troppo innamorata, la giovane ebrea rifiuta di credere alla cattiva fede del marito e accetta l'accordo. Riesce persino a ingannarlo, nascondendo il numero che le è stato tatuato sul braccio durante la prigionia e non svelando mai le sue doti canore (prima della guerra la donna si esibiva come cantante). Johnny le fa indossare vestiti e scarpe che appartenevano alla compagna, le tinge i capelli di castano e le insegna a comportarsi con i medesimi atteggiamenti dell'ex moglie. Così la superstite Nelly Lenz nasce un'altra volta, diventando l'alter ego di se stessa. Si sottopone a un gioco straziante, che mette in discussione tutto ciò che ha vissuto in precedenza, e porta a compimento il piano di un marito avido, che ha divorziato da lei subito dopo la sua cattura da parte dei nazisti (come le ha svelato Lene).
 
Con Il segreto del suo volto (Phoenix) il tedesco Christian Petzold affronta la pagina più lacerante della storia della Germania regalando un'opera intelligente e precisa, senza mai scadere nella banalità o nel dejà-vu. Una regia pulita segue con discrezione la palingenesi di Nelly, simbolo della rinascita di un intero popolo. Petzold però mette in evidenzia un aspetto fondamentale che accompagna qualsiasi forma di cambiamento, e lo fa attraverso la protagonista (determinata ad essere la Nelly di sempre): è inconcepibile fare tabula rasa del passato e ricominciare a vivere ex novo; non si può voltare pagina e dimenticare. Il titolo originale, Phoenix, ci ricorda infatti che l'uccello mitologico risorge dalle proprie ceneri dopo la morte. E non a tutti, purtroppo, sarà comunque possibile adattarsi alla nuova esistenza, come accadrà a Lene, che scriverà all'amica: “Cara Nelly, ti ho detto che non c'è modo di tornare indietro, ma per me non c'è neanche un modo di andare avanti. Mi sento più vicina ai nostri morti che ai nostri vivi”. 
Magnifica l'interpretazione di Nina Hoss, già vista in precedenti lavori del cineasta tedesco, che raggiunge l'apice nella drammatica scena finale, quando canta Speak Low di Kurt Weill mentre Johnny suona il pianoforte. 

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Phoenix
Anno: 2014
Regia: Christian Petzold
Sceneggiatura: Christian Petzold, Harun Farocki
Fotografia: Hans Fromm
Durata: 98'
​Uscita italiana: febbraio 2015
Interpreti principali: Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Nina Kunzendorf, Michael Maertens, Imogen Kogge.

0 Comments
<<Previous
    LE NOSTRE
    ​PAGINE UFFICIALI
    Picture
    Picture

    ​EUROCINEMA

    CATEGORIE DELLA SEZIONE

    Tutti
    Aki Kaurismaki
    Ananke
    Andy Serkis
    A War (krigen)
    Benedict Cumberbatch
    Bertrand Tavernier
    Blancanieves
    Bleeder
    Blind
    Bullhead
    Chloe Pirrie
    Cinema Britannico
    Cinema Italiano
    Cinema Scandinavo
    Cinema Spagnolo
    Cinema Tedesco
    Creation
    Death Of A Superhero
    Documentari
    Dogma 95
    Elio Petri
    Elle
    Elle Fanning
    Everyday
    Felix Van Groeningen
    Fucking Amal
    Gian Maria Volonté
    Ginger & Rosa
    Ida
    Il Caso Kerenes
    Il Grande Silenzio
    Il Mondo Sul Filo
    I Misteri Del Giardino Di Compton House
    Isabelle Huppert
    Italiano Per Principianti
    Jaco Van Dormael
    Jared Leto
    Jean-louis Trintignant
    Jennifer Connelly
    Jesus Franco
    Joachim Trier
    Kati Outinen
    King Of Devil's Island
    Klaus Kinski
    La Fiammiferaia
    La Isla Minima
    La Memoria Degli Ultimi
    La Morte In Diretta
    Lars Von Trier
    Laurence Anyways
    Leviathan
    Lina Romay
    Lotte Verbeek
    Lukas Moodysson
    Mads Mikkelsen
    Marcello Mastroianni
    Mariangela Melato
    Matthias Schoenaerts
    Melvil Poupaud
    Michael Winterbottom
    Mr Nobody
    My Nazi Legacy
    Nicolas Winding Refn
    Nina Hoss
    Nothing Personal
    Ombre Nel Paradiso
    Oslo 31 Agosto
    Pablo Berger
    Paul Bettany
    Paul Verhoeven
    Pawel Pawlikowski
    Peter Greenaway
    Rainer Werner Fassbinder
    Rams
    Romy Schneider
    Royal Affair
    Sally Potter
    Sergio Corbucci
    Shell
    Soledad Miranda
    Something Must Break
    Stellan Skarsgard
    Stephen Rea
    Submarino
    Suzanne Clement
    Tellurica
    The Bothersome Man
    The Broken Circle Breakdown
    The Guilty
    Thomas Vinterberg
    Todo Modo
    Tribeca Film Festival
    Turn Me On Dammit!
    When Animals Dream
    Xavier Dolan

    Feed RSS

Powered by Create your own unique website with customizable templates.