ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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PARANORMAN - La rivincita di un nerd

2/6/2013

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Con lo splendido ParaNorman, uscito nelle sale italiane nel 2012, la Laika Entertainment si conferma come una tra le realtà più interessanti nel panorama dell’animazione contemporanea. Dopo aver collaborato in maniera marginale alla realizzazione de La sposa cadavere, co-diretto da Tim Burton e Mike Johnson, la casa produttrice con sede a Portland aveva già realizzato Coraline e la porta magica (2009), primo film in stop-motion a essere concepito e fotografato in 3D stereoscopico. Con Paranorman, la Laika mostra un deciso passo in avanti realizzando un vero e proprio colossal d’animazione in cui commedia, avventura e horror vengono amalgamati in favore di un’opera dal grande respiro, grazie soprattutto all’ottimo lavoro di concerto da parte dei due registi Sam Fell e Chris Butler.
Ambientato nella cittadina di Blithe Hollow, ParaNorman vede nel giovane Norman Babcock il suo giovane e introverso protagonista. L’undicenne trascorre le sue monotone giornate a guardare film horror e collezionare tutto ciò che possa concernere fantasmi e zombie. La sua non è, però, solo una passione; ha infatti ereditato dallo zio la capacità di comunicare con i defunti, tanto da preferire la loro compagnia a quella della propria stereotipata famiglia. Un giorno Norman scopre che un’antica maledizione si sta abbattendo sulla sua città e che lui, proprio a causa del suo dono, è l’unico in grado di fermare l’orda di zombie che metterà in pericolo gli abitanti di Blithe Hollow. La salvezza di tutti è quindi riposta nelle mani di una sgangherata combriccola di ragazzini che, con a capo Norman, cercheranno di porre rimedio a questo terribile scontro tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Magniloquente compendio di una decade indimenticabile, quegli anni Ottanta che tanto hanno offerto in termini di fantastico e horror, ParaNorman rappresenta il riuscitissimo incontro tra John Carpenter e John Hughes, tra The Fog e The Breakfast Club, senza però dimenticare altri capisaldi come i Goonies (The Goonies, Richard Donner, 1985), le atmosfere à la Scooby-Doo e Scuola di mostri (The Monster Squad, Fred Dekker, 1987). Sam Fell cita esplicitamente Carpenter e Hughes poiché questi due registi rappresentano al meglio ansie e paure di quella generazione, ovviamente declinate secondo il proprio stile: fantastico e orrorifico per il primo, sentimentale e adolescenziale per il secondo.
Norman Babcock, introverso nerd e vittima di bullismo, non solo possiede il dono – forse un po’ maledetto – di comunicare con i defunti, ma è un vero e proprio intermediario tra il mondo dei vivi e lo spazio eterotipico di quello dei morti, due “luoghi” fortemente connessi tra loro che Norman è costretto a riappacificare. A lui e al suo eterogeneo gruppo di amici spetta, infatti, il compito di neutralizzare la maledizione scagliata sulla città di Blithe Hollow da una ragazzina ingiustamente accusata di stregoneria. Anche Agata, questo il suo nome, era in grado di comunicare con i morti, e per questo fu giustiziata. Nel ripetersi degli eventi, e sotto questo temibile sortilegio, a Norman, antieroe dalle mirabili capacità, riesce il compito di non far ricadere le colpe degli antenati sulla generazione dei suoi genitori, salvando così tutti i suoi concittadini.
Ciò che più sorprende di ParaNorman, oltre agli indiscutibili pregi diegetici e alla caratterizzazione psicologica dei personaggi, è l’apparato scenografico, capace di mettere in scena una serie di scelte tecniche che potevano comprometterne l’esito finale ma che, invece, si sono rivelate delle scommesse vinte. Scene di massa, inseguimenti automobilistici, ricchezza di dialoghi e una serie di primi piani caratterizzanti hanno fatto sì che il film della coppia Fell/Butler fosse il più vicino possibile al film “dal vero”, senza perdere, però, quella artisticità propria del cinema d’animazione in stop-motion. Per raggiungere un risultato così ricco, ci sono voluti ben due anni di lavoro presso i Laika Studios di Hillsboro, in Oregon, con una equipe composta da trecentoventi persone suddivise in cinquantadue unità, e l’utilizzo di una stampante 3D a colori in modo da poter realizzare duecentocinquanta volti per soli 27 secondi di ripresa e più di trentuno mila parti facciali mobili.
In ultima istanza, nonostante sia la più grande produzione in stop-motion fino ad oggi realizzata, ParaNorman è un “piccolo” gioiello, profonda e accorata dichiarazione d’amore nei confronti del cinema degli anni Ottanta, dall’horror alla commedia sentimentale, in cui ogni elemento possiede ricchezza stilistica e profondità emotiva; un’opera irripetibile che non può, per questo, passare inosservata.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Paranorman
Regia: Chris Butler, Sam Fell
Sceneggiatura: Chris Butler
Musiche: Jon Brion
Fotografia: Tristan Oliver
Durata:92’
Anno: 2012
Uscita italiana: 11 ottobre 2012

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AKIRA - L’apocalisse nel viso di un bambino

28/5/2013

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“Ore 14.17 del 6 dicembre 1982. Un nuovo tipo di bomba venne sperimentato sul distretto di Kanto… Neo Tokyo 38 anni dopo la terza guerra mondiale (2019)”. (Akira, Katsuhiro Otomo, vol. 1)

In un futuro distopico e postapocalittico, tra le strade di una metropoli massacrata dal terzo conflitto mondiale, il Male ha il volto di un bambino. Tokyo è una città alienante ed anarchica, guidata in qualche modo da politici corrotti, appoggiati, più per interesse che per convinzione, dal braccio violento di un ordine militare assolutista, cui si contrappongono segrete organizzazioni ribelli che non disdegnano di ricorrere al terrorismo per inseguire un vago sogno di democrazia, bande di teppisti motorizzati in eterna lotta tra loro, e sette religiose che invocano il ritorno del leggendario Akira: “Questa città è un frutto troppo maturo che sta per cadere nelle nostre mani, e il vento che soffierà si chiamerà Akira”.
Una bianca figura si staglia all’improvviso sulla strada buia. Tetsuo, alla testa di una gang di motociclisti, è costretto a una brusca frenata: la sua moto sbanda e si ferma, e con essa la sua stessa vita. La figura, avvolta in una luce, si avvicina: ha il numero 26 inciso sul palmo della mano, un volto da vecchio in un corpo da bambino. Un istante, e Tetsuo viene catapultato sull’asfalto; la sua moto esplode, mentre la misteriosa figura scompare sotto gli occhi attoniti di Kaneda, il leader della banda.
Questo è l’incalzante incipit di un’opera seminale, visionaria e rivoluzionaria, che ha segnato in maniera indelebile la storia dell’animazione. Tratto dall’omonimo manga, la cui pubblicazione è iniziata nel 1982 sulla rivista Yangu Magajin, edita dalla Kodansha, l'anime è divenuto un vero e proprio cult negli anni Ottanta. Sceneggiatura e disegni sono di Katsuhiro Otomo, che si occupa anche della regia, degli storyboards e della supervisione generale del film, uscito nelle sale nel 1988.
Otomo illustra, con un disegno pulito e minuzioso, un’adolescenza sporca e violenta, trascinata tra droghe e scontri in moto, improvvisamente sconvolta dall’irruzione di capacità psicotelecinetiche, che trasformano dei disadattati borderliners di una società corrotta, in folli divinità.
Il kolossal animato, realizzato con cura maniacale unica che sfida il perfezionismo delle tavole del manga, ottenne un successo planetario, ma non mancarono le critiche, dovute soprattutto ai diversi tagli e alle consistenti e cruciali differenze narrative rispetto alla storia raccontata nel monumentale fumetto, che era ancora in corso di pubblicazione quando uscì l’opera cinematografica e che fu concluso anni dopo. Alcuni fans non gradirono lo scarsissimo spazio dedicato a personaggi cardine come Lady Miyako e il Clown, e il notevole ridimensionamento subito dalle storie di Roy, Kaori e dello stesso Akira. Ma si tratta degli inevitabili compromessi imposti dal tentativo di racchiudere in un paio d’ore di trasposizione cinematografica un’opera mastodontica in quantità, densità e qualità, come quella realizzata su carta da Otomo; saggiamente, il lavoro realizzato dal Maestro nipponico per il grande schermo è stato più una libera rielaborazione che una vera e propria riduzione dell’opera originale.
Insieme a Tetsuo: The Iron Man di Tsukamoto Shinya, Akira rappresenta l’esempio più rappresentativo del cyberpunk nipponico, caratterizzato dalla presenza di temi come la realtà postnucleare e il rapporto simbiotico fra uomo e macchina, luoghi ossessivi dell’immaginario giapponese, da Tetsuwan Atom di Osamu Tezuka fino ai robot giganti ideati da Go Nagai, o a quelli che popolano la saga di Evangelion. Il manga-movie di Otomo centrifuga miriadi di influenze, fonde elementi di 2001: Odissea nello spazio, I guerrieri della notte, Blade Runner e Il pianeta proibito, pur mantenendo una sua purezza e autonomia filmica e intellettuale. Più che un film, è una vera e propria ricerca filosofica, volta a sperimentare nuove vie di purificazione, attraverso le quali il Male e il Bene si presentano così confusi tra loro che ogni personaggio, anche il più controverso, contiene in sé le due essenze e non riesce mai a scinderle completamente. 
Ultra-nichilismo, violenza e visionarietà in una sintesi di cultura cyberpunk, fantascienza e misticismo, accompagnate dalle note di una colonna sonora memorabile affidata a Geinoh Yamashiro, il quale, tra ritmi tribali e sintetizzatori, ricorda allo spettatore che “Akira vive nei nostri cuori”. E lo schermo, ancora una volta, si illumina di luce propria.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Akira
Anno: 1988
Regia: Katsuhiro Otomo
Sceneggiatura: Katsuhiro Otomo
Fotografia: Katsuji Misawa
Musiche: Shoji Yamashiro
Durata: 124’
Uscita in Italia: Dvd maggio 2002, al cinema il 29-05-2013

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WOLF CHILDREN – La strada del domani

28/5/2013

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Dopo il passaggio al Future Film Festival Wolf Children di Mamoru Hosoda arriva anche a Firenze, in occasione della terza Rassegna di Cinema Giapponese organizzata nel capoluogo toscano dall’Associazione Culturale Tokaghe, che quest’anno ha avuto il merito di presentare in anteprima europea film di grande interesse come The Kirishima Thing e The Drudgery Train.
Mamoru Hosoda, considerato ormai come uno dei più talentuosi registi d’animazione giapponese e autore negli ultimi anni di film come La ragazza che saltava nel tempo e Summer Wars, con Wolf Children ha raggiunto un impressionante maturità artistica realizzando il suo personale capolavoro.
Hana, giovane studentessa universitaria, conosce in facoltà un ragazzo di cui ben presto s’innamora. Un giorno il giovane le rivela d’essere l’ultimo lupo mannaro del Sol Levante. Nonostante l’incredibile notizia la storia d’amore tra i due prosegue nel tempo e porta alla nascita di Ame e Yuki, che ereditano dal padre la capacità di potersi trasformare in lupi. Rimasta sola con i suoi piccoli in seguito a un tragico incidente, Hana decide di abbandonare la città e di trasferirsi in montagna per crescere i suoi figli lontana dai sospetti della gente, fino a quando i bambini non saranno grandi abbastanza per decidere quale strada seguire e quale natura – umana o animale – abbracciare.
A raccontarla così sembrerebbe una storia grottesca, bizzarra e strampalata, eppure risulta assolutamente credibile e plausibile agli occhi dei (pochi) fortunati che hanno avuto la possibilità d’ammirarla sul grande schermo, rimanendo catturati dalla peculiarità e dalla forza di questo racconto firmato dallo stesso regista che lo ha sceneggiato insieme a Satoko Okudera. Un lavoro di scrittura curato e raffinato, capace di delineare in maniera scrupolosa e minuziosa le psicologie dei vari personaggi, che assumono spessore e realismo grazie a una caratterizzazione a tutto tondo davvero strabiliante per un film d’animazione. 
Nella prima parte il regista narra una storia d’amore delicata e atipica, accompagnata da un ideale tappeto sonoro che la rende ancor più magica, esattamente come avveniva nell’indimenticabile incipit di Up impreziosito dall’ispirata partitura di Michael Giacchino. Il film subisce poi una svolta drammatica che mette al centro della storia, narrata in tutto il suo arco temporale dalla voce fuori campo della figlia Yuki, la figura di Hana, giovane madre alle prese coi problemi e le difficoltà del vivere quotidiano, accentuate dalla particolare natura dei suoi figli. Le loro buffe e repentine trasformazioni in piccoli lupi danno il via ad alcune situazioni brillanti se non addirittura esilaranti, come nella sequenza in cui la madre non sa se portare i figli ammalati all’ospedale o dal veterinario. 
Wolf Children è la storia di una famiglia unica e originale, con un personaggio femminile memorabile che racchiude in sé forza e determinazione miste a una certa fragilità nel suo ritrovarsi da sola a crescere due cuccioli di uomo-lupo. Una figura femminile che farebbe la felicità della maggior parte delle attrici in carne ed ossa, che in questi ultimi anni faticano sempre di più, specie nel cinema occidentale, a trovare ruoli importanti, complessi e stratificati da interpretare. 
Mamoru Hosoda non si sofferma esclusivamente sul personaggio di Hana ma va oltre, e tramuta il suo film in un vero e proprio romanzo di formazione, con i due piccoli nati dall’amore di una donna e di un uomo-lupo impegnati a trovare la propria strada, seguendo percorsi diversi, spesso lontani e distanti se non diametralmente opposti, per poi arrivare a scambiarsi i ruoli una volta cresciuti.
Il tratto del disegno, morbido e fluido, regala paesaggi mozzafiato che ricordano a più riprese il miglior Miyazaki, con omaggi espliciti e dichiarati come la raffigurazione della casa in montagna immersa nel verde ripresa direttamente da Il mio vicino Totoro. Non meno suggestive le soggettive delle corse tra gli alberi di Ame e Yuki in versione lupo. In Wolf Children la natura, primordiale e incontaminata, è sempre in primo piano con il suo irresistibile richiamo dapprima per la figlia di Hana, che sembra essere più selvaggia del fratello minore, il quale invece col passare degli anni scoprirà un legame profondo con le origini paterne.
Hosada utilizza lo spunto di partenza di natura fiabesca per raccontare temi universali sempre attuali e ancorati alla realtà, come la centralità degli affetti familiari, l’importanza di trovare il proprio posto nel mondo e di scoprire se stessi attraverso un cammino lastricato di determinazione e coerenza. Wolf Children è destinato a diventare in breve tempo un nuovo, fondamentale e imprescindibile tassello del cinema d’animazione giapponese che, forte di una tradizione lunga e consolidata, si conferma come uno dei più importanti - se non il più autorevole - a livello internazionale.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Okami kodomo no ame to yuki
Anno: 2012
Regia: Mamoru Hosoda
Sceneggiatura: Mamoru Hosoda - Satoko Okudera
Musiche: Takagi Masakatsu
Durata: 117’

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LA MANO - Il valore della libertà

25/4/2013

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Jîrí Trnka, pittore, illustratore e marionettista, nel 1965 realizza il suo ultimo lavoro d’animazione, il cortometraggio La mano. L’animatore cecoslovacco, che sarebbe purtroppo morto quattro anni più tardi, con questa opera tocca il punto più alto della sua creatività, grazie soprattutto alla potenza simbolica ed eversiva che appare in tutta la sua lampante lucidità. 
Apologia della libertà artistica, La mano ci mostra il destino di un vasaio-scultore che riceve da un’enorme mano l’ordine di modellare un monumento grandioso a lei dedicato. L’artista rifiuta più volte ed essa, dopo esser ricorsa a doni e soldi per corromperlo, passa alla violenza. Il vasaio non può che obbedire e, rinchiuso in una gabbia, modella una mano di marmo.
Meraviglioso esempio di animazione “a passo uno” (stop motion), La mano appartiene a un periodo particolarmente fortunato della carriera di Trnka, ovvero quello successivo a Sogno di una notte di mezza estate del 1959: circa un lustro di cortometraggi in cui il regista boemo – dopo aver tentato tutto ciò che si poteva fare con film di marionette, sperimentato tutti i generi dalle favole fino agli antichi tempi eroici – cerca, riuscendovi, di investigare la contemporaneità a lui contigua approdando ad una animazione di genere civile ed impegnata. Difatti i toni si fanno più cupi, più introspettivi, e la gravità della situazione di una nazione, quella cecoslovacca, stretta nella morsa tra occidente e oriente – tra sogni mitteleuropei pangermanici prima e influenze politico/culturali socialiste poi – entra con forza nel tessuto scrittorio da La passione del 1962 fino a La mano. 
Jîrí Trnka, attraverso il personaggio del vasaio-scultore, dà vita ad un antieroe che si fa carico del peso del proprio ruolo e, pur di perseguire la libertà contro il controllo oppressore dell’ideologia di Stato, va incontro alla morte. Se da un punto di vista tematico questo cortometraggio appare di una poeticità unica, toccante ma greve, lo stile messo in scena da Trnka non può che accrescerne il valore simbolico. Se prima di lui uno dei problemi più difficili da risolvere era quello legato all’animazione del viso, egli intuisce che il volto e la fisionomia del pupazzo da animare deve essere più simile a quello della maschera teatrale che a quello dell’attore in carne e ossa. 
Così, il protagonista de La mano si mostra come il perfetto personaggio di Trnka: occhi dipinti che suggeriscono una certa fissità e indefinitezza dello sguardo, e una bocca immobile che tocca gli apici più tragici dell’incomunicabilità; il tutto gestito con sapienza nell’uso dell’illuminazione e della messa in scena. Proprio a quest’ultima, e al montaggio, va la capacità di caratterizzare così bene sia l’artista che la mano. Incredibile, a tal proposito, la sequenza centrale del cortometraggio in cui essi, su un contrappunto jazzistico, si danno battaglia per conquistare la libertà da una parte e il potere dall’altra.
Il finale di questa opera filmica ci offre un affresco chiaro e sardonico della contraddittorietà del potere: l’artista riesce a scappare dal suo oppressore che, però, ne causa la morte. Al vasaio sono così riconosciuti dei magnifici e pomposi funerali di stato con tutti gli onori. Visione tragicomica di un’apologia al lavoro creativo e critica dissacrante, ma mai deprimente, del potere costituito, La mano di Jîrí Trnka segna l’apice della poetica del regista boemo e del cinema d’animazione cecoslovacco. Un’opera da (ri)scoprire, da godere e su cui riflettere.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Ruka
Anno: 1965
Regia: Jîrí Trnka
Sceneggiatura: Jîrí Trnka
Durata: 19’

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UNA TOMBA PER LE LUCCIOLE - Contro la guerra

22/4/2013

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In Occidente esiste da sempre un pregiudizio molto forte nei confronti dell’animazione, un genere che spesso si è portati a ritenere, in modo affrettato e superficiale, come rivolto esclusivamente ai più piccoli. 
Chi è di quest’idea farebbe bene a recuperare al più presto Una tomba per le lucciole di Isao Takahata (cofondatore dello Studio Ghibli nel 1985 insieme ad Hayao Miyazaki), titolo distribuito direttamente in homevideo dalla Yamato e soltanto adesso, finalmente, approdato anche nelle nostre sale (con il titolo modificato in La tomba delle lucciole). Il regista del Sol Levante sceglie uno stile a tratti fortemente poetico ma al contempo saldamente ancorato alla realtà, per rappresentare tutto l’orrore della guerra in quello che è senz’altro il suo capolavoro, uscito nei cinema giapponesi nel lontano 1988 in contemporanea con Il mio vicino Totoro di Miyazaki.
Il film, tratto dall'omonimo romanzo semi-autobiografico di Akiyuki Nosaka, è ambientato nella città di Kōbe agli sgoccioli della seconda guerra mondiale. Siamo nel giugno del 1945, con la popolazione giapponese sottoposta a continui ed estenuanti bombardamenti da parte dell’aviazione americana. Durante uno di questi la madre del giovane  Seita e della sua sorellina Setsuko  viene ferita mortalmente, mentre il loro padre si trova lontano, impegnato  come ufficiale nella Marina imperiale giapponese. I due giovanissimi protagonisti vengono così accolti in casa di alcuni parenti, ma ben presto devono imparare a cavarsela da soli, per cercare di sopravvivere in mezzo a mille difficoltà, alla cronica mancanza di cibo e ai bombardamenti che proseguono incessanti, incuranti delle vite umane spezzate. 
Non era certo un’impresa semplice rappresentare tutto l’orrore e la follia della guerra attraverso un lungometraggio animato. Per riuscirci Takahata ricorre a una precisa cifra stilistica che alterna un crudo realismo a momenti toccanti e poetici di grande intensità, come nella scena in cui Seita e Setsuko catturano alcune lucciole per illuminare l’antro della caverna in cui si sono rifugiati. Il regista dimostra tutta la sua maturità e maestria nel mantenersi il più possibile sobrio e asciutto nonostante il tema trattato, senza voler indurre a tutti i costi alla lacrima facile. 
In Una Tomba per le lucciole emerge la vera natura umana che in tempo di guerra viene spogliata da ipocrisie e falsità per mostrare il suo lato peggiore fatto di crudeltà, egoismo e indifferenza. Solo i bambini, anime pure e incontaminate, si salvano da questo scenario desolante, misero e meschino conservando, nonostante tutto, la loro voglia di vivere, ridere e giocare. Davvero ispirato e struggente il modo in cui Takahata porta sullo schermo il forte legame che unisce Setsuko e Seita, col primo che si dimostra fino alla fine un fratello maggiore dall’ammirevole e ostinato istinto protettivo nei confronti della sorellina. È un ragazzo costretto a crescere troppo in fretta, con una forte dignità messa a dura prova dal tragico scenario che lo circonda. 
Una Tomba per le lucciole è un film di rara bellezza, capace di sconvolgere totalmente le nostre coscienze e di ricordarci ancora una volta l’assurdità di ogni guerra e il pesante carico di morte e distruzione che si porta dietro. Un film d’animazione giustamente privo di un finale consolatorio, probabilmente non adatto ai più piccoli ma rivolto a un pubblico adulto e a ragazzi che possano comprendere il nobile messaggio contenuto in esso, per sensibilizzarli da subito alla condanna di tutte le guerre. Non è certo casuale in quest’ottica che i protagonisti della vicenda siano giovanissimi, come avviene nella stragrande maggioranza dei film prodotti in questi quasi trent’anni di attività dallo Studio Ghibli, rinomato, ammirato e stimato a livello internazionale. 
Resta dunque la soddisfazione per il fatto che finalmente il film di Takahata faccia capolino nelle nostre sale, così com’è avvenuto negli ultimi anni con diversi altri titoli targati Ghibli, ad esempio Porco Rosso, Il mio vicino Totoro, Il castello nel cielo e Kiki consegne a domicilio.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Hotaru no haka
Anno: 1988
Regia: Isao Takahata
Sceneggiatura: Isao Takahata
Fotografia: Nobuo Koyama
Musiche: Michio Mamiya
Durata: 89’
Uscita italiana: 10-11 novembre 2015

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