ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
  • HOME
  • REDAZIONE
  • LA VIE EN ROSE
  • FILM USCITI AL CINEMA
  • EUROCINEMA
  • CINEMA DAL MONDO
  • INTO THE PIT
  • VINTAGE COLLECTION
  • REVIVAL 60/70/80
  • ITALIA: TERZA VISIONE
  • AMERICA OGGI
  • ANIMAZIONE
  • TORINO FILM FESTIVAL
    • TORINO 31
    • TORINO 32
    • TORINO 33
    • TORINO 34-36-37
  • LOCARNO
    • LOCARNO 66-67-68
    • LOCARNO 69
    • LOCARNO 72-74-75
  • CANNES
    • CANNES 66
    • CANNES 67
    • CANNES 68
    • CANNES 69
  • VENEZIA
  • ALTRI FESTIVAL
  • SEZIONI VARIE
    • FILM IN TELEVISIONE
    • EXTRA
    • INTERVISTE
    • NEWS
    • ENGLISH/FRANÇAIS
  • SPECIAL WERNER HERZOG
  • SPECIAL ROMAN POLANSKI
  • ARCHIVIO DEI FILM RECENSITI
  • CONTATTI

LA CANZONE DEL MARE - Il folklore che commuove

23/12/2016

0 Commenti

 
Foto
«…vieni, bambino umano, verso le acque selvagge,
 con una fata, mano nella mano,
 perché il mondo è più triste di quanto tu possa immaginare.
»

Prodotto dalla irlandese Cartoon Saloon e diretto da Tomm Moore, anch’egli irlandese, La canzone del mare (Song of the Sea, 2014) è però un prodotto squisitamente europeo, poiché coinvolge genialità – e qui possiamo dirlo data la caratura e la profondità dell’opera in questione – giunte da tutte le parti del continente. Lussemburgo, Francia, Belgio e Danimarca, con i loro talenti, sono stati coinvolti nella creazione di un film d’animazione impeccabile che, ispirandosi al folklore a ai miti nordici, senza dimenticare la struttura e i simboli della fiaba, affascina e commuove.
La canzone del mare, secondo lavoro a firma di Moore dopo The Secret of The Krells (un seguito spirituale, poiché lo stesso immaginario caratterizza i due lavori), è una fiaba senza tempo che trova nell’universalità dei temi trattati la sua chiave di riuscita. Perdita e mancanza sono difatti alla base delle emozioni che permeano la narrazione e ne scatenano gli avvenimenti: Ben e Saoirse sono fratello e sorella e vivono col padre Brendan, guardiano del faro, sul ciglio di una scogliera. La madre, Bronach, una selkie (ovvero una creatura che vive come una foca in mare ma che può acquisire sembianze umane sulla terraferma), al momento del parto muore e lascia i tre soli ad affrontare il dolore dei sentimenti legati alla scomparsa della persona amata. Ben, inconsciamente, ritiene Saoirse responsabile della morte della madre e il loro rapporto è spesso litigioso e spigoloso.
Brendan cerca di fare del suo meglio nel ruolo di padre, ma il dolore è lontano dallo sparire e in qualche modo lo sprofonda in uno stato di malinconia immutabile. Saoirse, ancora piccolina e stranamente non in grado di parlare, una notte scopre una veste magica che la conduce in riva al mare e poi giù a capofitto nell’acqua buia, dove troverà un gruppo di foche con cui giocare. 
Il punto di crisi della narrazione è l’arrivo della madre di Brendan, che trova la bambina tutta bagnata ed indebolita in spiaggia e decide, per il bene di tutti, di portare i ragazzini in città, con l’obiettivo di far loro dimenticare ciò che li affligge.
È qui che mitologia e narrazione, simbolo e funzione fiabesca, si intrecciano: Ben racconta spesso alla sorellina la storia del grande e possente Mac Lir, Dio del mare, che dopo una grave tragedia versò così tante lacrime da creare un oceano e lì in mezzo si pietrificò per sempre, anche e soprattutto a causa della madre di lui, la Macha, che per salvare il figlio dalla disperazione decise di estirpare le emozioni dal suo cuore. Così, allo stesso modo, la nonna di Ben e Saoirse vuole strappare i due bambine dal luogo del lutto con la convinzione che la via all’atarassia sia la cura più plausibile alla sofferenza o alla tristezza.
​È il nulla che avanza, come ne La storia infinita di Wolfgang Petersen, qui rappresentato come una sterilità emotiva che, nel mondo della città moderna (la Dublino in cui abita la nonna/strega) sarebbe quasi più apprezzabile di una sincera e vera malinconia. Temi del genere sarebbero poi stati ripresi di recente della Pixar con l’interessantissimo Inside Out del 2015, in cui le emozioni sono veri personaggi che guidano e si manifestano attraverso la protagonista Riley.
La canzone del mare, grazie ai tratti gentili e raffinati di una tecnica 2D di rara bellezza – e abbellita da un pregevole lavoro sulla luce che ricorda una tipologia d’animazione legata all’uso del vetro, alla pittura e ad altri materiali – è soprattutto una fiaba in cui i due protagonisti si scambiano reciprocamente il timone in modo da affrontare personaggi come streghe, animali fantastici, dei del folklore e luoghi mitici quali la foresta, la grotta, la città e il mare aperto con lo scopo di risolvere un lutto primario, una separazione che in fondo caratterizza buona parte della letteratura infantile. 
L’età spettatoriale davanti a tanta bellezza conta poco o nulla: l’opera di Moore, infatti, commuove e non poco adulti e bambini; i lucciconi agli occhi accompagnano interi passaggi del film, poiché è una gioia poter vivere così profondamente questa magnifica animazione. 
Natale è alle porte: quale migliore occasione quindi per rifugiarsi in casa con la famiglia e regalarsi (di nuovo) questa splendida visione?

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Song of the Sea
Anno: 2014
Regia: Tomm Moore 
Sceneggiatura: Will Collins, Tomm Moore
Musica: Bruno Colais
Durata: 93’
Uscita italiana: 23 giugno 2016

0 Commenti

NAUSICAÄ DELLA VALLE DEL VENTO - Il veleno della guerra

5/10/2015

0 Commenti

 
Immagine
Verrebbe da dire meglio tardi che mai. Del resto negli ultimi anni ci siamo ormai abituati ai recuperi tardivi delle opere di Hayao Miyazaki. In tal senso Nausicaä della Valle del vento batte ogni record, arrivando nei nostri cinema – con la consueta formula dell’evento speciale destinato a rimanere in programmazione per appena tre giorni - con ben trentun anni di ritardo rispetto alla sua realizzazione.
​Secondo lungometraggio del maestro giapponese, firmato qualche anno prima della nascita dello Studio Ghibli, Nausicaä è il primo progetto personale di Miyazaki, che aveva esordito sul grande schermo nel 1979 con Lupin III - Il castello di Cagliostro dopo aver realizzato per la tv nipponica il seminale Conan ragazzo del futuro. 
​
Sono ormai trascorsi mille anni dai “sette giorni di fuoco” in cui i paesi più potenti al mondo si erano annientati l’un l’altro, ponendo fine alla civiltà umana e devastando il nostro ecosistema. Gran parte del pianeta è adesso ricoperto da una foresta velenosa causata dal terribile conflitto termonucleare, meglio conosciuta come la giungla tossica, popolata da mostruosi insetti giganti e spore letali. Nausicaä, giovane e volitiva principessa della Valle del vento – uno dei pochi luoghi ancora abitabili popolato da gente pacifica – si ritrova a dover fronteggiare l’invasione delle navi volanti di Tolmechia, un regno deciso a riportare in funzione un guerriero enorme e invincibile, una delle temibili macchine concepite dall’uomo che avevano contribuito a devastare il nostro pianeta. Nausicaä, dotata di un raro potere che le consente di comunicare con gli animali e anche con le temibili creature della giungla tossica, cerca in tutti i modi di scongiurare l’attacco dei guerrieri di Tolmechia, decisi a servirsi del soldato invincibile per distruggere la foresta velenosa. La ragazza, rispettosa del mondo che la circonda, è convinta che la soluzione non risieda certo nel ricorrere nuovamente alle armi, causa e fonte di ogni male, ma nel comprendere e cercare di vivere in armonia con le creature della giungla tossica. 
​
Tratto dall’omonimo manga firmato dallo stesso Miyazaki, o meglio a esso ispirato visto che nel 1984 ne erano stati pubblicati solo i primi capitoli, Nausicaä della Valle del vento contiene al suo interno i principali temi, ricorrenti nelle opere a venire, che caratterizzano la poetica del suo autore. La sconfinata passione per il volo (la protagonista si sposta sempre su un piccolo e agile velivolo), l’amore e il rispetto nei confronti della natura, il rifiuto secco e perentorio di ogni guerra. A tutto ciò si aggiunga che Nausicaä è la prima di una lunga serie di eroine presenti nel cinema del maestro giapponese. 
Senza avere a disposizione un budget faraonico Miyazaki tratteggia un mondo post-apocalittico cupo e grigio inserito in un contesto medievaleggiante, condannando aspramente la stupidità, l’odio e la violenza insite nella natura umana. In un simile scenario diventa sempre più evidente, nel proseguo della storia, la natura messianica e salvifica della giovane protagonista, pronta a sacrificarsi per il bene della sua gente e capace di entrare in sintonia con ogni forma vivente, nel pieno e assoluto rispetto del mondo circostante. 
Il film, divenuto ormai da tempo un classico dell’animazione a ogni latitudine, segna anche la prima collaborazione di Miyazaki con Joe Hisaishi, artefice da qui in avanti di tutte le musiche dei suoi film, che per l’occasione compone un ipnotico tappeto sonoro elettronico di grande efficacia. Un’opera densa di rimandi e significati, fonte d’ispirazione non solo per i titoli successivi dell’autore giapponese ma anche per cineasti insospettabili come James Cameron, che per portare sullo schermo l’incredibile e sbalorditiva flora del pianeta Pandora sembra essersi ispirato non poco alla vegetazione della giungla tossica, mentre per ricreare le montagne fluttuanti ha omaggiato un altro capolavoro di Miyazaki, ovvero Laputa – Il castello nel cielo. 

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Animazione, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Kaze no tani no Naushika
Anno: 1984
Regia: Hayao Miyazaki
Sceneggiatura: Hayao Miyazaki             
Musiche: Joe Hisaishi          
Durata: 116’
​Uscita al cinema: 5-6-7 ottobre 2015

0 Commenti

IL PIANETA SELVAGGIO - Conoscenza e rivoluzione

27/4/2015

0 Commenti

 
Picture
«Ero solamente un giocattolo vivo che talvolta osava ribellarsi»

Tratto dal testo Oms en série dello scrittore francese Stefan Wul, Il pianeta selvaggio è il primo lungometraggio di René Laloux, autore che si sarebbe distinto nell’ambiente dell’animazione con altri due film a sfondo fantascientifico: Les maîtres du temps e Gandahar. L’opera, in equilibrio fra un certo surrealismo e il lavoro di Hieronymus Bosch, e caratterizzata da una tecnica di animazione “limitata” e fumettistica, è frutto della collaborazione di diverse forze creative in grado di dare alla luce un film ricchissimo dal punto di vista immaginativo, evocativo e ideologico.
Diretto da Laloux e animato da Roland Topor – illustratore, pittore, scrittore ma anche attore in film quali Nosferatu di Herzog e Ratataplan di Nichetti – negli studi di Jiří Trnka a Praga, Il pianeta selvaggio è influenzato dall’ambientazione europea che l’ha prodotto: il ’68 è da poco alle spalle, i fermenti culturali ancora caldi e gravidi, ma soprattutto il contesto francese è prepotente.
La Francia ha offerto due dei testi più importanti e interessanti appartenenti al contesto distopico-fantascientifico: il già citato Oms en série e La planète des singes (Il pianeta delle scimmie) di Pierre Boulle, entrambi contrassegnati da una forte componente anti specista. È proprio questa qualità che rende Il pianeta selvaggio un’opera di spessore, che “usa” il linguaggio della fantascienza – genere che «arriva da un bordello ma vuole fare irruzione nel palazzo in cui sono riposti i più sublimi pensieri della storia degli uomini» (Stanislav Lem) – per criticare il mondo che ci circonda.
In un luogo e in un tempo posteriore alla Terra che conosciamo, ma strettamente legato alle dinamiche che regolano la difficile relazione tra indigeni e stranieri, i Draag e gli Om (con)vivono sul pianeta Ygam, inospitale per lo più e urbanizzato per una piccola parte. Le città sono abitate dai Draag, umanoidi dalle dimensioni giganti che appartengono a una razza avanzatissima tecnologicamente ma che, allo stesso tempo, conserva dei rituali meditativi che permettono di viaggiare al di fuori dei loro corpi e di trovare unione con altri esseri a loro simili. Al di fuori delle mura del tessuto abitativo troviamo gli Om, esseri umani provenienti dal pianeta Terra, per lo più costretti a vivere allo stato brado come selvaggi, avendo dimenticato le proprie origini.
Alcuni Om sono invece addomesticati e utilizzati come giocattoli dai Draag più giovani. Tra questi vi è Terr, Om dalle grandi abilità fisiche e intellettive che capisce quanto il ruolo dell’educazione sia importante nella vita dei padroni e che, dopo aver potuto usufruire delle lezioni grazie a un cerchietto mnemonico da applicare alle tempie, decide di appropriarsi di questo potente “device” per donarlo ai suoi simili. Terr/Prometeo deruba e si oppone all’ideologia dominante e oppressiva per concedere il sapere – detenuto e tesaurizzato dai Draag – agli Om e favorirne la rivoluzione.
In concorso a Cannes durante la 26ª edizione del festival assieme a film del calibro de La grande abbuffata di Marco Ferreri, Un Amleto di meno di Carmelo Bene e Aguirre, furore di Dio di Werner Herzog (Quinzaine des Réalisateurs), Il pianeta selvaggio è esempio riuscito di creatività al di fuori delle barricate, un'opera che rovescia convenzioni tecniche e ideologiche per instaurare un discorso che non offre risposte ma fa sorgere domande. Montaggio e animazione si riducono al minimo e si limitano a distinguere emotivamente il percorso di Terr e degli Om che, dimentichi del glorioso passato del loro pianeta, vivono in un futuro selvaggio e violento che non può non essere un oscuro preambolo a un luminoso futuro fatto di prosperità e conoscenza.
Visionato a poco più di quarant’anni dalla sua uscita, il pregevole lavoro di Laloux si fa ammirare per la sua libertà artistico/espressiva, che trascendendo l’impostazione tecnica gli permette di non “litigare” con i tempi cinematografici in continua evoluzione.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: La planète sauvage
Anno: 1973
Regia: René Laloux
Sceneggiatura: Stefan Wul, René Laloux, Roland Topor
Fotografia: Boris Baromykin , Lubomir Rejthar
Musica: Alain Goraguer
Durata: 72’

0 Commenti

LA STORIA DELLA PRINCIPESSA SPLENDENTE - Incanto e Magia

9/4/2015

0 Commenti

 
Immagine
Presentato lo scorso anno al Festival di Cannes e approdato nei nostri cinema come evento speciale a inizio novembre, La storia della principessa splendente è uscito finalmente in home video a fine marzo. C’è solo da augurarsi che raggiunga il pubblico che purtroppo è mancato a novembre, quando venne distribuito sul grande schermo per appena tre giorni. A differenza di Si alza il vento, l’ultimo film di Hayao Miyazaki distribuito sempre per pochi giorni da Lucky Red, il recente capolavoro di Isao Takahata non ha infatti ottenuto lo stesso riscontro di pubblico. 
Ispirato a Taketori monogatari (Il racconto di un tagliabambù), uno dei racconti giapponesi più antichi e popolari risalente al X° secolo, il film ruota attorno alla figura di Kaguya, minuscola creatura dalle sembianze di una principessa ritrovata all’interno di una canna di bambù da Okina, un anziano taglialegna. Una volta arrivato a casa la piccola creatura si trasforma improvvisamente in una neonata davanti agli occhi di Okina e di sua moglie; i due decidono quindi di tenerla e di allevarla come fosse figlia loro, scoprendo presto che Kaguya cresce con una rapidità davvero incredibile e sorprendente, tanto da essere soprannominata "Gemma di bambù" dai ragazzi del villaggio. Qualche tempo dopo Okina trova nel bosco, sempre all’interno di una canna di bambù, vesti preziose e regali insieme a una considerevole quantità d’oro, con cui si convince della natura divina della bimba. L’uomo decide quindi di farle costruire un palazzo in città e di trasferirvisi in modo da introdurla alla vita di società, affinché possa conoscere pretendenti di un certo lignaggio, degni di lei. Per Kaguya, strappata dall’amata e semplice vita di montagna, è l’inizio di un percorso difficile e doloroso in cui si imbatterà in uomini nobili e potenti ma arroganti e poveri di spirito. 

La storia della principessa splendente, progetto inseguito a lungo da Takahata, ha richiesto ben otto anni di lavorazione, con un incredibile sforzo produttivo (pari a cinque miliardi di yen) che purtroppo non è stato premiato dal pubblico, nemmeno nel paese del Sol Levante dove l’ultima opera di Miyazaki aveva registrato incassi stellari. Un destino triste e beffardo per quello che rischia seriamente di essere l’ultimo film d’animazione del cofondatore dello Studio Ghibli, che il prossimo ottobre compirà ottant’anni. 
In questo suo nuovo lavoro il maestro giapponese adotta uno stile in parte già sperimentato nel precedente My Neighbors the Yamadas, tuttora inedito in Italia sebbene siano già passati quindici anni dalla sua realizzazione. Il tratto del disegno è grezzo ed essenziale, i contorni sembrano fatti a carboncino mentre per i colori si fa ricorso agli acquerelli. Una scelta stilistica lontana dalla maggior parte dei lavori dello Studio Ghibli, in grado di conferire grande fluidità, dinamicità e plasticità alle immagini e di rendere al meglio i cambi d’umore della protagonista. A tal proposito è impossibile non citare l’incredibile scena della fuga – immaginaria – di Kaguya dal banchetto di nominazione, organizzato per festeggiare il suo ingresso in società, resa attraverso un brusco cambio del tratto di matita che diviene secco e nervoso, a sottolineare il repentino cambio di stato d’animo della giovane principessa, sconvolta e rattristata dai commenti stupidi e volgari di alcuni uomini presenti alla festa. 
L’incanto e la magia di un’antica fiaba emergono con forza dai disegni di Takahata, che descrive il passare delle stagioni con un tocco unico e sorprendente; la tavolozza cromatica, con i suoi colori intensi e luminosi ma al contempo lievi e delicati, rende al meglio l’arrivo della primavera in uno scenario puro, semplice e incontaminato che fa da sfondo ai primi anni di vita della principessa splendente, costretta poi ad abbandonare la vita di montagna per quella di città, scandita da regole rigide e complesse. 
Istruita alle buone maniere, alla calligrafia e all’arte della musica, chiusa in una sorta di gabbia dorata dal padre adottivo che sogna per lei una vita da nobildonna, Kaguya si rinchiude in se stessa, diviene sempre più silenziosa e solitaria, avvinta e sacrificata a una vita che non ha scelto. Nel frattempo la sua fama si estende, la sua bellezza diviene leggendaria e i pretendenti aumentano a dismisura, così come cresce il rimpianto e la nostalgia per la vita di un tempo, passata in compagnia dei ragazzi della montagna. Solo il meraviglioso spettacolo della natura, elemento da sempre ricorrente e caro allo Studio Ghibli, sinonimo di vita, gioia e serenità, nel suo mutare, fiorire e sbocciare può mitigare la tristezza della principessa, che si ritrova suo malgrado a essere circondata e desiderata da uomini ottusi, subdoli e lascivi. Un mondo a lei estraneo, lontano dal suo animo puro, nobile e dolente, che anela a una felicità perduta e ormai lontana. 
Nel finale, poetico e fiabesco, si raggiungono vette sublimi esaltate dalle note soavi composte dal maestro Joe Hisaishi, che alla sua prima collaborazione con Takahata realizza una partitura incantevole e ispiratissima. Immagini evocative, di una bellezza abbacinante, per un epilogo lirico e straziante come raramente capita di vedere di questi tempi.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Kaguyahime no monogatar
Anno: 2013
Regia: Isao Takahata
Sceneggiatura: Isao Takahata, Riko Sakaguchi
Musiche: Joe Hisaishi
Durata: 137’
Uscita italiana: 3 novembre 2014

0 Commenti

PRINCIPESSA MONONOKE - Il mondo sanguina

9/5/2014

0 Commenti

 
Immagine
A diciassette anni di distanza dal clamoroso successo in patria (il maggior incasso di tutti i tempi, superato soltanto da Titanic pochi mesi più tardi), Lucky Red porta in Italia uno dei capolavori indiscussi di Hayao Miyazaki, con un nuovo doppiaggio e un adattamento dei dialoghi più fedele rispetto alla versione attualmente in circolazione, quella distribuita in home video solamente nel 2002. Ed è nuovamente magia: anche a costo di ripeterci, perché ogni qual volta ci si ritrova al cospetto di un film del grande regista giapponese l’oggettività e il raziocinio vengono inevitabilmente meno.
Ma a nessuno verrà mai in mente di accusarci di essere eccessivamente di parte, non se parliamo di Miyazaki, almeno; e Principessa Mononoke non fa eccezione, risultando ancora oggi tra i massimi risultati raggiunti dal suo autore, ma anche un film sotto alcuni aspetti anomalo, e persino spiazzante: perché mai fino a quel momento il sangue e la violenza erano stati messi in scena in maniera così esplicita, al punto che in alcune sequenze sembra quasi di trovarsi davanti a qualcosa di inadatto per un pubblico infantile, certamente meno avvezzo alla visione di arti mozzati e teste decapitate, neanche fossimo in un film horror. O di guerra.
La guerra, appunto: tema centrale dell’opera, seppure filtrata attraverso una sensibilità del tutto particolare. Principessa Mononoke è innanzitutto la storia del conflitto, eterno, tra l’uomo e la natura, tra il giusto e lo sbagliato, tra il Bene e il Male. Fin qui, tutto semplice. Oppure no? Miyazaki è Uomo e Artista dalla visione cristallina e purissima, da sempre in grado di esprimere una sua personalissima idea del mondo tramite una poetica bellissima e immediatamente riconoscibile, semplice eppure mai banale. E con questo film sembra aver elevato il livello del proprio discorso fino a un punto di non ritorno, sfocando la distanza tra gli opposti e lavorando sulle contraddizioni.
Opera magniloquente e straordinariamente evocativa, Principessa Mononoke mette in scena un universo nel quale ogni suo singolo elemento è in guerra: l’uomo è in guerra contro la natura, deturpandola e piegandola alle proprie esigenze; ma anche le vittime della sua mano, gli animali, sono in perenne conflitto tra di loro, andando a delineare i contorni di un disastro dal quale nessuno rischia di uscirne vincitore. Perché la guerra è per gli stupidi, come sottolinea giustamente l’ultima frase del film, e la Storia è qui a testimoniarlo.
Anche se il contesto è quello di un fantasy, con gli animali che parlano e le creature magiche della foresta, non per questo la potenza evocativa rischia di risentirne. Profondamente shintoista nello spirito, e quindi ricco di richiami a volte incomprensibili per lo spettatore occidentale, ma anche così colmo di magia e poesia da abbagliare gli occhi e il cuore, Principessa Mononoke è un film dolente e disperato, più che consapevole di cosa sia l’Orrore ma non per questo pessimista o disfattista; senza mai dare risposte facili e senza scadere nel manicheismo più scontato, al punto che, aspetto non secondario, nel film viene a mancare quasi completamente la figura del cattivo classico, dal momento che le psicologie di tutti i personaggi sono cangianti e sfaccettate, perché anche la realtà delle cose lo è.
Non è un caso, forse, che venga quasi spontaneo effettuare un parallelismo a posteriori tra questo e l’ultimo, magnifico Si alza il vento: ovvero tra il film più arrabbiato di Miyazaki e il suo commiato al cinema, che è anche il suo capolavoro. Due opere apparentemente agli opposti, dal momento che il secondo è privo di qualsiasi connotazione fantastica, eppure legate tra loro dal rifiuto totale e senza compromessi nei riguardi della guerra.
Il Miyazaki di Principessa Mononoke è un Uomo che sente ancora di dover dire la propria, mostrando la brutalità per quella che è senza per questo rinunciare alla poesia; quello di Si alza il vento, invece, lascia il testimone alle nuove generazioni e non permette alla rabbia di fare capolino, perché è tempo di vivere, innanzitutto e sopra ogni cosa.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Animazione / Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Hayao Miyazaki
Sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Montaggio: Takeshi Seyama
Musiche: Joe Hisaishi
Fotografia: Atsushi Okui
Anno: 1997
Durata: 128’
Uscita Italiana: 08/05/2014

0 Commenti

LA TELA ANIMATA - L'amore incompiuto

23/12/2013

0 Commenti

 
Immagine
Spesso, purtroppo, ci sono film che ci sfuggono, che per un motivo o per l'altro passano colpevolmente inosservati. Poi, però, accade che un po' per caso ci imbattiamo in una di queste opere semisconosciute che, una volta viste, godute e amate ci fanno riflettere su quante cose belle ci perdiamo quotidianamente: dal cinema alla letteratura, dalla musica alla pittura.
La tela animata, quarto lungometraggio dell'animatore francese Jean-François Laguionie, appartiene a questa categoria a causa della sua impossibilità a lottare contro i grandi colossi dell'animazione mondiale soprattutto, come è facile immaginare, in virtù del loro marketing spietato. Così molti lavori di pregio europei passano, se sono fortunati, qualche giorno in sala, oppure vengono destinati senza chance al mercato home video, come è tristemente accaduto per La tela animata, un film che avrebbe meritato certamente sorte migliore nel nostro Paese.
Lontano dagli estetismi autoriali degli esordi – il bellissimo e consigliatissimo Gwen, le livre de sable del 1985, una metafisica opera post-apocalittica che vinse il Grand Prix della critica al Festival International du Film d'Animation d'Annecy – e più maturo dei successivi Le Château des singes e The Island of Black Mór, l'ultimo lungometraggio di Laguionie appare come il perfetto trait d'union tra necessità spettacolari e velleità artistiche.
I titoli di testa, inscritti in una cornice ricca e dorata, ci accompagnano in un mondo decisamente originale e colorato, ma anche misterioso: un castello, giardini fioriti e una foresta minacciosa che un pittore, per motivi sconosciuti, ha lasciato incompiuti. In questo universo convivono tre tipologie di personaggi: i Compiuti che sono perfettamente completi e colorati, gli Incompiuti che non sono ancora ultimati e gli Schizzi, idee non più che abbozzate. Affermando la propria superiorità, i Completi cercano di conquistare il potere cacciando e schiavizzando gli altri abitanti del quadro. Il perfetto Ramo, però, è innamorato della incompiuta Claire e, convinto che solo il pittore potrà ripristinare l'armonia, decide di andare alla sua ricerca. Assieme a Lola (anch'ella, come Claire, incompiuta), ad uno schizzo e a Magenta (che si unirà a loro dopo aver abbandonato un dipinto a sfondo bellico), Ramo riesce ad uscire dalla tela e giungere nello studio dell'artista. Man mano che la trama scorre, però, i misteri attorno all'abbandono di quest'ultimo si infittiscono.
Laguionie mette in gioco una moltitudine di occasioni visive che omaggiano il mondo della pittura, facendo vivere questa altrimenti statica arte grazie alle infinite possibilità del mezzo cinematografico. La tela animata è un'opera realizzata in tecnica mista, ricorrendo all'uso di 3D, 2D e immagini dal vero, che cita la bidimensionalità pittorica pur utilizzando metodologie di rappresentazione moderne. Questo palpitante ed emozionante tributo diviene efficace intrattenimento nel momento in cui l'idea portante dell'intero film – la fuoriuscita dalla tela da parte dell'allegra combriccola di protagonisti – genera un'avventurosa serie di eventi che ha del fantastico.
Gli Incompiuti e gli Schizzi, infatti, non solo avranno la possibilità di migliorare il loro avvenire, ma riusciranno anche a capire tramite Lola perché il pittore, figura intangibile e divina, non ha voluto o potuto portare a termine i loro tratti e distrutto molte delle sue opere. Un quesito la cui risposta sarà tanto necessaria quanto semplice.
La tela animata, pur partendo da una vexata quaestio del cinema tutto, ovvero la frustrante impossibilità di amare una persona appartenente ad un ceto sociale differente, gode di una lucidità e di una coerenza sorprendenti. Laguionie trova finalmente il punto d'equilibrio perfetto tra la poetica intangibile dell'esordio e i buoni ma non sorprendenti lavori successivi; un esempio di animazione trasversale che può realmente stimolare gli adulti e formare i più piccoli.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Le tableau
Anno: 2011
Regia: Jean-François Laguionie
Sceneggiatura: Jean-François Laguionie, Anik Leray
Musiche: Pascal Le Pennec
Durata: 76’

0 Commenti

ARRUGAS (RUGHE) - Amicizia tra anzianità e malattia

27/9/2013

0 Commenti

 
Immagine
Un direttore di banca sta leggendo con attenzione dei documenti; si rivolge poi a una giovane coppia e con fermezza nega loro la concessione di un mutuo. All'improvviso, l'ufficio del dirigente diventa una stanza da letto e le scartoffie riposte sulla sua scrivania si tramutano in un piatto di minestra. Emilio non è più un cinico contabile dalla chioma scura, bensì un canuto signore che si rifiuta di consumare la cena che gli è stata servita. Il figlio e la nuora attendono impazienti che l'anziano termini il proprio pasto per poter finalmente uscire.
Emilio non lo sa ancora, ma è malato di Alzheimer, e dato che la sua famiglia fatica a prendersi cura di lui, viene trasferito in una casa di riposo.
Inizia così il film di animazione in 2D Arrugas (2011), opera prima del regista spagnolo Ignacio Ferreras nonché adattamento dell’omonimo fumetto di Paco Roca (edito in Italia da Tunué). La sceneggiatura di Arrugas è stata scritta dallo stesso Roca in collaborazione con Ferreras, Ángel de Cruz e Rosanna Cecchini (moglie del regista, conosciuta durante le fasi di lavorazione de L’illusionista di Chomet).
Lo stile pregevole e pulito del fumetto caratterizza anche la trasposizione cinematografica della storia di Emilio, che è raccontata senza retorica: a momenti di intensa ilarità si mescolano episodi di sincera disperazione. Arrugas è un'opera che fa riflettere sul potere straordinario dell’amicizia, come quella che lega il protagonista all’intraprendente Miguel, un vivace argentino che si prodiga per rendere interessanti e movimentate le altrimenti tristi e monotone giornate all’interno dell’ospizio. Sarà infatti Miguel ad aiutare Emilio nel (maldestro) tentativo di salvarsi dal passaggio al piano superiore, luogo di non ritorno per coloro che non sono più autosufficienti.
Il film colpisce per la sobrietà e il realismo con i quali vengono trattate la malattia e la vecchiaia, problematiche che fanno parte della quotidianità, ma di cui si preferisce non parlare apertamente. Non a caso l'opera è “dedicata a tutti, anziani di oggi, anziani di domani”. La pacatezza narrativa elude quindi facili e banali sentimentalismi, sebbene sia inevitabile che lo spettatore nutra un'istintiva tenerezza per i protagonisti e, in un certo qual modo, si senta direttamente coinvolto. Gli stratagemmi studiati da Emilio e Miguel per combattere l’invecchiamento e il dolore commuovono perché sono il simbolo di un’esistenza che non si vuole arrendere e che fa di tutto per aggrapparsi alla vita. Non potendo guardare al futuro, gli ospiti della casa di cura hanno soltanto due scelte: vivere appieno il presente o rifugiarsi in un mondo parallelo, correndo però il rischio di smarrire del tutto la lucidità e il contatto con la realtà circostante.
Distribuito in poche sale in tutta Italia grazie a EXIT Media, Arrugas ha ricevuto consensi e premi in molti Paesi, tanto da destare l'interesse dello studio Ghibli, che ne ha curato la distribuzione in Giappone nel giugno di quest'anno. Il lavoro di Ferreras (per esempio l'uso del piano sequenza) deve molto ai maestri Miyazaki e Takahata, verso i quali lo stesso regista ha espresso una profonda ammirazione. Ammirazione ricambiata, vista la dichiarazione di Isao Takahata: «Arrugas ha aperto nuovi orizzonti al cinema d’animazione. Sia il graphic novel che il film trattano con grande intelligenza un tema che nessuno può ignorare, anche se tutti preferiamo non pensarci: la vecchiaia».
In Giappone difficilmente si offre spazio alla cinematografia animata straniera: Ferreras ha dunque raggiunto probabilmente l’obiettivo massimo al quale può aspirare un regista non nipponico. Dispiace pertanto ancor di più che Arrugas sia tuttora immeritatamente semisconosciuto in Italia.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica 

Titolo originale: Arrugas
Anno: 2011
Regia: Ignacio Ferreras
Sceneggiatura: Ángel de la Cruz, Paco Roca, Ignacio Ferreras e Rosanna Cecchini.
Disegno personaggi: Paco Roca
Musiche: Nani García
Fotografia: David Cubero
Durata: 89'
Distribuzione in Italia: EXIT Media

0 Commenti

METROPIA - Distopie di un’Europa in crisi

10/9/2013

0 Commenti

 
Immagine
«Quando avevo sedici anni lessi Il processo di Kafka. Ricordo di esser rimasto molto affascinato dalla maniera in cui lo scrittore fondò le basi per un mondo in cui – come in un sogno – tutto ha senso, anche se in realtà non ce l’ha. Dove tutto è connesso e logico, ma completamente sbagliato ed ingiusto. In quella storia, Josef K. è la vittima di un sistema del tutto legale […]. Adesso provate ad immaginare d’essere schiacciati e repressi da questa forma di governo, e che il modo in cui esso agisce vi faccia sentire vulnerabili e indifesi a tal punto da rivalutare la vostra cognizione delle cose. Se vi trovaste in una situazione simile potreste essere portati a pensare che, addirittura, il problema siete voi e non più il sistema». (Tarik Saleh)

Metropia, finito di produrre nel 2009 dopo ben sei anni di realizzazione e presentato all'edizione 66 della Mostra di Venezia, è il terzo lavoro di una certa rilevanza per il regista svedese, ma di origini egiziane, Tarik Saleh (Sacrificio: Who betrayed Che Guevara e Gitmo – The New Rules of War). Proveniente dagli ambienti artistici più eterogenei, dal giornalismo alla produzione televisiva fino ai graffiti metropolitani, Saleh ci offre un film d’animazione oscuro e paranoico. Prodotto dalla svedese Atmo, Metropia è un’iperrealistica e sconfortante descrizione dell’anno 2024, in cui sono le grandi multinazionali ad organizzare la vita di qualsiasi individuo.
Alla fine degli anni Novanta l’umanità è testimone del crollo delle finanze internazionali e dell’esaurimento delle risorse naturali. La crisi globale sembra essere l’unico tratto d’unione tra i cittadini mondiali che, presi dallo sconforto, si affidano al grande progetto ideato dalla Trexx Inc.: creare una gigantesca rete sotterranea in grado di unire tutte le città europee con lo scopo di garantire pace, mobilità e lavoro ai suoi clienti. Roger, povero impiegato di call center, ogni qual volta entra nella Metro sente una voce nella sua mente che cerca di condizionarne i comportamenti. Un giorno, però, incontra in maniera fortuita l’attrice di una nota marca di shampoo e decide, affidandosi al suo istinto, di seguirla. Da questo evento in poi, Roger si ritroverà invischiato in una cospirazione internazionale dalla quale tenterà di fuggire.
Metropia, il cui impianto iconico viene descritto come se «Kafka avesse dipinto L’ultima cena con una mitragliatrice», offre un’animazione affascinante e innovativa che cerca di coniugare classico e moderno in una visione estremamente realistica dei possibili sviluppi concernenti l’attualità. Ancora una volta, su un soggetto a base fanta-sociale, aderisce una patina antiutopica che, con chiaro disamore verso il presente, ipotizza un futuro in cui non esistono cittadini, bensì clienti o consumatori. Saleh indovina una messa in scena claustrofobica e oppressiva che spesso risulta essere la parte maggiormente rilevante del suo ultimo lavoro. La componente puramente narrativa, pur non essendo scadente o incoerente, non riesce sempre a supportare in maniera adeguata tutto l’universo immaginato e creato dal regista svedese. Ciò non inficia, fortunatamente, il risultato finale dell'opera.
Nonostante qualche piccola incertezza, Metropia è un film che merita attenzione sia per la propria indole “adulta” e rassegnata sia per l’affascinante realizzazione compiuta da Atmo e dal regista. A quest’ultimo va il merito d’aver rappresentato in maniera esauriente tutte quelle ombre che si diramano dal sogno di pochi (multinazionali il cui unico scopo è il predominio economico) alla realtà distopicamente cupa della massa.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Metropia
Regia: Tarik Saleh
Sceneggiatura: Fredrik Edin, Martin Hultman, Tarik Saleh, Stig Larsson
Musiche: Krister Linder
Fotografia: Sesse Lind
Durata: 80’
Anno: 2009
Uscita italiana: 03/09/2009

0 Commenti

LE JOUR DES CORNEILLES - La strada della vita

26/7/2013

0 Commenti

 
Immagine
Esiste un mondo, nella foresta. Un luogo vasto, misterioso, in cui si caccia e si uccide per mangiare, ci si curano le ferite con la bava delle lumache, si combattono i temporali come attacchi di demoni infernali, si stringe amicizia con fantasmi silenziosi e gentili dal corpo umano ma con la testa di animale. Lì, tra capanne e alberi, fuoco e colori, un bambino vive con un padre cattivo e arcigno, senza poter superare i confini del bosco, perché se si va là fuori, nella civiltà, “si scompare e non si torna più”. 
Eppure, nel momento del massimo bisogno, quando il dolore incombe e i mezzi di sussistenza non bastano più, nasce la necessità di varcare quella soglia e chiedere aiuto al vicino villaggio. È il momento per scoprire una nuova vita, un'altra realtà, curiosa e pasticciata, astiosa e al contempo capace di solidarietà e sorrisi. Per espiare le colpe di un passato che non si può dimenticare, e guardare al futuro con un occhio diverso.
Le Jour des Corneilles, opera prima di Jean-Christophe Dessaint, tratta dall'omonimo romanzo di Jean-François Beuchemin, presentata con successo allo scorso festival di animazione di Annecy, uscita nelle sale francesi a ottobre 2012 e (ça va sans dire) al momento inedita in Italia, è una romantica e tenera incursione nel rito di iniziazione di un bimbo selvaggio, orfano di madre, alle prese con Courge, l'orco delle fiabe, un padre scorbutico che cela nel profondo tempeste di rabbia e rimpianto. Nel contatto con il mondo che si cela al di là della foresta questo cucciolo senza nome scopre la luce dell'amicizia, dell'aiuto reciproco, e respira le prime suggestioni dell'amore, oggetto perduto da ritrovare chissà dove. La vicinanza con la dolcissima Manon, e con il padre di lei, dottore pronto a difendere il rude Courge dagli attacchi furiosi di certi paesani, scivola nei contorni di un processo di formazione, inclemente ma essenziale, attraverso il quale porgere un ultimo saluto a colei che più non è, per guardare finalmente oltre l'orizzonte. 
Nel film di Dessaint, guidato da uno stile di animazione tanto classico quanto efficace, il mondo animale e quello umano sanno unirsi, mescolarsi, donarsi reciproco aiuto. L'idea dei personaggi, volpi e rospi e cavalli, con la testa di animale e il corpo umano, attua una brillantissima metafora volta a cancellare la distanza tra bestialità e ragioni dell'anima. Allo stesso modo, l'attacco in parata dei corvi in volo per portare a Manon il messaggio decisivo ai fini della narrazione è un'ulteriore lettera rivolta alla superficialità dell'uomo, schiavo di un disgustoso autocompiacimento di fronte alla sua presunta supremazia nei confronti del regno animale.
Tenero, ricco di sfumature, ricercatissimo nel dettaglio, Le Jour Des Corneilles si libra sulle ali dell'entusiasmo nella prima, splendida, ventina di minuti, tutta ambientata all'interno della foresta. Accusa poi qualche lieve incertezza nella parte centrale, situata nel villaggio, salvo tornare ad alzarsi verso il cielo nel finale, delicatissimo e davvero commovente. A impreziosire ulteriormente l'opera, in originale, ci sono le voci di Jean Reno, Isabelle Carré e soprattutto Claude Chabrol, che si è prestato al film poco prima di lasciarci. E in fondo è bello, bellissimo, che questo grande maestro abbia dato il proprio addio al cinema dando un tocco di ironia e umanità a un lavoro così puro, abile a confermare come ormai anche l'Europa, e soprattutto la Francia, possa competere ai massimi livelli nell'ambito dell'animazione, non può soltanto terra di dominio orientale.
Intanto, con il piccolo Courge e la dolce Manon, ci avviamo alla conclusione; è tempo di dire addio, senza più lacrime, perché il dolore adesso può essere spazzato via; ci si può concedere un ultimo abbraccio con quei fantasmi muti e gentili, per poi avviarsi lungo la strada verso l'età adulta; diventare grandi, sì, ma senza dimenticare l'età giovane, le ferite del vissuto, i concetti imparati con l'esperienza e l'acume. Fuori, oltre i rami nodosi, c'è un luogo in cui soffiare via le croste della perdita e avanzare passo dopo passo verso i segreti dell'avvenire. Con un amore fermo, indistruttibile, fortissimo, accoccolato lì nel cuore.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Le Jour des corneilles
Regia: Jean-Christophe Dessaint
Sceneggiatura: Amandine Taffin, dal romanzo di Jean-François Beauchemin
Montaggio: Opportune Taffin
Musiche: Simon Leclerc
Anno: 2012
Durata: 94'
Uscita italiana: –
Voci: Lorànt Deutsch (il piccolo Courge), Jean Reno (papà Courge), Isabelle Carré (Manon), Claude Chabrol (il dottore)

0 Commenti

ARTHUR CHRISTMAS - Il figlio di Babbo Natale

16/7/2013

0 Commenti

 
Immagine
Arthur Christmas, il penultimo film d’animazione partorito dalla Aardman Animations, è davvero un gioiellino, anche se in pochi se ne sono resi conto. Poco prima che uscisse nelle sale - per le feste natalizie del 2011 - c’era una certa curiosità per il nuovo lungometraggio animato della Aardman visto che il precedente film, Giù per il tubo,  coprodotto dalla Dreamworks, non era stato un gran successo e non si era dimostrato all’altezza delle precedenti opere realizzate dallo studio inglese. Da allora sono passati cinque anni, durante i quali la Aardman ha dato vita a due stupende e ispiratissime serie animate per la tv, Shaun The Sheep e Timmy Time, realizzate entrambe con l’amata plastilina che ha reso celebre nel mondo la compagnia inglese.
Per Il Figlio di Babbo Natale (terribile titolo italiano) la Aardman ha abbandonato l’uso della plastilina, ricorrendo alla computer grafica e unendo le forze con la Sony, che negli ultimi anni sta facendo passi da gigante nell’animazione grazie a opere notevoli come Piovono Polpette e Hotel Transylvania. Un sodalizio che ha dato esiti più che positivi e che è stato poi rinnovato per Pirati! Briganti da Strapazzo, il successivo film d’animazione realizzato dalle due case di produzione, dove a farla da padrone è nuovamente la plastilina che ha reso memorabili a livello internazionale i personaggi di Wallace & Gromit a cui la Aardman deve gran parte della sua fortuna e notorietà.
Il protagonista della vicenda è Arthur Christmas, da qui il titolo originale del film, il figlio minore di Babbo Natale assai maldestro e pasticcione ma ancora capace di sentire il vero spirito del Natale, a differenza degli altri membri della sua famiglia, a cominciare dal fratello maggiore che introducendo un sistema ipertecnologico, super efficiente e sofisticato per la consegna dei regali ha privato di cuore e anima la magica notte della vigilia. Arthur vivrà un’avventura rocambolesca, in compagnia di un esilarante Nonno Natale e di un irresistibile elfo, maestro nel confezionare i pacchi regalo per i bambini di tutto il mondo, in una corsa contro il tempo per riuscire a consegnare una bicicletta a un bimbo rimasto privo del suo dono sotto l’albero a causa di una falla nel sistema messo a punto dal fratello.
La Aardman mantiene in pieno lo spirito british presente da sempre nei suoi lavori, che in questo caso si sposa alla perfezione col ritmo incalzante e le scene più spettacolari dovute principalmente all’apporto della Sony e al suo invidiabile livello tecnico. Il risultato finale  è un film vitale e pieno di calore, con un epilogo intenso e commovente. 
La ciliegina sulla torta, per i profondi conoscitori della Aardman, è data da una loro divertente autocitazione, nel momento in cui uno dei personaggi del film pesta inavvertitamente un pupazzetto di Shaun The Sheep lasciato sul pavimento della cameretta di un bambino.
Arthur Christmas, passato nei nostri cinema quasi nel disinteresse generale, è da considerarsi come il miglior film d’animazione in lingua inglese non solo del penultimo Natale ma di tutto il 2011, visto il mezzo passo falso della Pixar con l’atteso e poco ispirato secondo capitolo di Cars. 

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Arthur Christmas
Anno: 2011
Uscita in Italia: 23 dicembre 2011
Regia: Barry Cook, Sarah Smith
Sceneggiatura: Peter Baynham, Sarah Smith
Fotografia: Jericca Cleland
Musiche: Harry Gregson-Williams
Durata: 97’

0 Commenti
<<Precedente

    ANIMAZIONE

    CATEGORIE DELLA SEZIONE

    Tutto
    Aardman Animations
    Akira
    Arrugas
    Arthur Christmas
    Atmo
    Claude Chabrol
    Hayao Miyazaki
    Ignacio Ferreras
    Il Figlio Di Babbo Natale
    Il Pianeta Selvaggio
    Isao Takahata
    Jean-chistophe Dessaint
    Jean-francois Laguionie
    Jiri Trnka
    Katsuhiro Otomo
    La Canzone Del Mare
    Laika Entertainment
    La Mano
    La Storia Della Principessa Splendente
    La Tela Animata
    Le Jour Des Corneilles
    Mamoru Hosoda
    Metropia
    Nausicaa
    Paranorman
    Principessa Mononoke
    René Laloux
    Roland Topor
    Studio Ghibli
    Tarik Saleh
    Tomm Moore
    Una Tomba Per Le Lucciole
    Wolf Children

    Feed RSS

    SEGUI ODG SU
Powered by Create your own unique website with customizable templates.