ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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LOCARNO 68 - Floride, di Philippe Le Guay

10/8/2015

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Ottantuno anni, quasi ottantadue. Il corpo è ancora in ottima salute, la mente no. Il problema sta su, nella testa, dove la memoria inesorabilmente comincia a svanire. Ti ricordi cosa hai fatto trent'anni fa, ma ti dimentichi cosa è successo ieri. Non riesci a perdonare un ex grande amico che ti ha tradito molto tempo prima, sei attorniato da flashback di quando eri bambino, ma non ti ricordi più cosa ti è stato detto un'ora fa. Tua figlia Carole fa di tutto per occuparsi di te, trova badanti che puntualmente fai ammattire perché sei convinto di non aver bisogno di alcuna assistenza, sei cocciuto e testone e anche un po' cattivo e crudele con chi cerca solo di farti del bene.
Nel frattempo aspetti l'altra tua figlia, quella più amata, Alice; dalla Francia si è trasferita a vivere in Florida, ma sai che a breve ti verrà a trovare. Non vedi l'ora. Solo che Alice è morta in un incidente d'auto nove anni fa. Ma l'hai dimenticato. Cerchi la solitudine e in realtà ne sei terrorizzato, sprizzi orgoglio ma sei fragile, tratti a male parole Carole e aspetti la tua Alice. Perché lei verrà, presto. Ne sei talmente convinto che ordini una gigantesca palma da piantare nel tuo giardino, affinché al suo arrivo possa ritrovare in qualche modo il paesaggio della Florida. Quando alla fine sei stufo di aspettare tagli la testa al toro e fai un ultimo viaggio, un'ultima follia: sfuggi ai controlli dell'ottusa Carole e sali su un aereo. Destinazione Florida. Per riabbracciare quell'adorata figlia che in realtà non c'è più.

Philippe Le Guay da qualche anno a questa parte conferma un ottimo stato di forma, confluito in una maturità artistica definitiva e raggiante. Dopo due lavori riuscitissimi, il gradevole Les femmes du 6e étage (Le donne del sesto piano) e il delizioso Alceste à bicyclette (Molière in bicicletta), l'autore classe 1956 per la prima volta gira un film tratto da un'opera preesistente, la pièce teatrale Le Père di Florian Zeller, e porta sullo schermo la storia non originalissima ma senza dubbio toccante di un anziano uomo che gradualmente perde contatto con la realtà, afflitto da una forma di Alzheimer che poco alla volta ne spegne la memoria a breve termine trascinandolo in un sempre più evidente stato di alterazione e confusione.
Claude Lherminier, il protagonista, elegante e carismatico, ex proprietario di una fabbrica la cui gestione è stata poi presa in carico dalla figlia Carole, è in fondo un uomo come tanti, almeno in apparenza; un signore benestante che non accetta di aver bisogno di aiuto. I dispetti e le false accuse con cui fa scappare una dopo l'altra le sue badanti, lo spregio con cui rispedisce al mittente l'affetto di Carole, la scomoda mania di chiedere a tutti dettagliate descrizioni dei propri rapporti sessuali, la rabbia con cui ricorda il tradimento dell'ex amico appena defunto, l'assurdo rifiuto di accettare che quell'individuo sia sepolto nello stesso cimitero dove anche le sue ossa riposeranno: tratti parziali di una personalità che rompe gli argini del buon costume, accantona le inibizioni e crolla sotto i colpi inclementi della malattia, sino a disintegrarsi in improvvise azioni estreme come urinare senza motivo sul cofano di una macchina o tirare una martellata in testa a chi non ti ha fatto nulla di male.
Nella mente di Claude i pensieri e le emozioni si accavallano, si contorcono, si rincorrono senza più un ordine preciso. Quando Claude viene ritrovato in strada, di notte, vagante in pigiama, e quando poi regala tutti i suoi risparmi a una badante rumena che subito dopo sparisce nel nulla, Carole giunge alla piena consapevolezza di come l'unica soluzione sia metterlo in una struttura dove infermiere professioniste possano prendersi cura di lui 24 ore su 24. Ma è una decisione sofferta, straziante, inaccettabile. Perché in fondo si parla di un uomo spaventato, regredito a un fanciullesco stato di perenne stupore e in grado di comprendere la propria situazione nei sempre più rari momenti di lucidità; un uomo buono che ha rimosso la scomparsa di Alice per non morire di dolore e che ora, nell'attesa di lei, trova un senso a giornate in cui i fatti e gli eventi accadono e poi svaniscono come cenere nel vento.

Le Guay compie in Floride un'operazione rischiosa: fondere due generi, commedia e dramma, creando un impasto in cui le due diverse modalità stilistiche possano diventare un unico soggetto narrativo. La risata e il pianto, l'ironia e la desolazione, lo sberleffo e la tragedia si inseguono dall'inizio alla fine, in ogni scena, alternandosi e amalgamandosi perfino all'interno di ogni singola inquadratura; una scelta ambiziosa, di non semplice realizzazione, che non sempre trova il giusto equilibrio ma sa regalare tanti momenti vibranti, in cui l'empatia con il protagonista giunge senza alcuno sforzo e rimane ben salda anche durante i titoli di coda, accompagnati dalla canzone Puisque vour partez en voyage, di Jean Sablon (1), e dopo la visione.
Per portare a termine il suo scopo Le Guay si affida a Jean Rochefort. Ne ottiene in cambio un'interpretazione gigantesca, in cui il grande attore crea un arcobaleno espressivo intriso di infinite sfumature di tono e colore, spingendo il proprio personaggio sino ai limiti di una personalità controversa che si reinventa sequenza dopo sequenza, acuendo volutamente i lati più ruvidi e mettendo in scena molto di sé, anche dal punto di vista materiale (2), per un possibile canto del cigno di straordinario impatto (3). Accanto a lui si muove con consumata abilità Sandrine Kiberlain, ormai da qualche anno nell'Olimpo delle migliori attrici francesi, scelta anche perché amica di Rochefort da molti anni e capace di reggere il peso del confronto in scena con un monumento vivente. Con loro si segnalano le presenze di Anamaria Marinca (4 mesi, 3 settimane e 2 giorni) e Laurent Lucas, spesso scelto per ruoli ombrosi (Alleluia di Du Welz, la seconda stagione di Les Revenants) ma qui chiamato a vestire i panni del rassicurante compagno che consola Carole nei tanti momenti di sconforto vissuti di fronte al crollo mentale del padre.

1) Il brano è cantato da Sandrine Kiberlain e Jean Rochefort. È stato proprio l'attore a consigliarne a Le Guay l'utilizzo.
2) La maggior parte degli estrosi vestiti indossati dal personaggio provengono dal guardaroba di Rochefort.
3) L'attore, ormai ottantacinquenne, ha dichiarato che questo dovrebbe essere il suo ultimo film. Se così fosse, sarebbe uno splendido saluto alle scene.

Trascinato dalla forza interpretativa di Rochefort, Floride destruttura la continuità temporale, alternando le immagini di Claude sull'aereo diretto a Miami e i fatti basilari accaduti nelle settimane precedenti. Noi spettatori lo accompagniamo in questo ultimo viaggio, tenendolo per mano, divertiti e commossi.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Locarno, Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Philippe Le Guay
Attori: Jean Rochefort, Sandrine Kiberlain, Laurent Lucas, Anamaria Marinca, Clement Metayer
Fotografia: Jean-Claude Larrieu
Musiche: Jorge Arriagada
Sceneggiatura: Jérôme Tonnerre, Philippe Le Guay
Montaggio: Monica Coleman
Anno: 2015
Durata: 110'
​Uscita in Italia: 5 maggio 2016

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LOCARNO 68 - The Waiting Room, di Igor Drljaca

10/8/2015

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Un attore lo è per sempre. Anche quando gli anni migliori sembrano ormai passati. Anche quando sei costretto a rincominciare dalla gavetta, partecipando a banali audizioni per spot pubblicitari, dopo che non molto tempo prima eri stato una star televisiva di primo livello. Ma l'arte resta nel cuore e nell'anima, nonostante tutto, e se il sogno di riportare in onda la trasmissione che ti ha reso celebre si presenta come un miraggio di improbabile riuscita, rimane comunque la voglia di provarci ancora. 
Allo stesso modo, anche la tua patria è per sempre. Nonostante tu l'abbia dovuta lasciare vent'anni prima, per sfuggire all'orrore della guerra e darti una possibilità di futuro. Il progetto è quello di tornare, in un modo o nell'altro, per ritrovare quel concetto di “casa” che altrove non potrai mai percepire, nonostante l'integrazione sia ormai stata ampiamente completata. Perché di casa ce n'è una sola.

The Waiting Room si è imposto come uno dei migliori film presentati nella ricca selezione Cineasti del Presente a Locarno 68, per poi approdare in concorso a Torino 33. Diretta da Igor Drlijaca, al suo secondo lungometraggio dopo Krivina (2012), la pellicola fonde in modo evidente finzione ed elementi autobiografici: il regista, nato a Sarajevo, si è infatti trasferito in Canada nel 1993, quando era bambino, a causa della guerra, e una strada molto simile è stata percorsa dall'attore protagonista, Jasmin Geljo, anch'egli uscito dalla ex Jugoslavia diversi anni fa per approdare in America in cerca di fortuna.
L'opera seconda di Drljaca contiene al suo interno almeno un paio di sentieri narrativi che sanno intersecarsi con buona fluidità: il racconto di un attore che non riesce ad accettare i dettami del tempo che passa e le tristi conseguenze di una carriera in declino, e la riflessione sui bisogni intimi di un uomo tanto rude nell'aspetto quanto fragile nella sostanza. Il protagonista Jasmin, nato in Bosnia ma da diverso tempo residente a Toronto, assume su di sé le caratteristiche comuni a tanti soggetti originari dell'Est Europa, fierezza, orgoglio, attaccamento alla propria patria, ma al contempo si fa piccolo e tremolante nel mostrare allo spettatore le insicurezze di chi non ha mai trovato la pace con se stesso.
Gli spiragli di gloria si sono ormai esauriti. Jasmin deve ripartire dalla gavetta. Prende parte a ogni possibile audizione rivolta a interpretazioni di poco conto, trova un lavoro parallelo completamente avulso dal mondo dell'arte ma necessario per non morire di fame, cerca di tenere in piedi la famiglia senza peraltro riuscire a evitare saltuari tradimenti. Al contempo ripete con il vecchio amico e collega gli sketch della trasmissione Tv che lo aveva reso popolare, progetta una tournée teatrale, conta i giorni che mancano al possibile ritorno a Sarajevo, sprona il figlio a intraprendere egli stesso la carriera d'attore, cerca un modo per far rivivere il passato e cancellare così l'abulia del presente.
Gli ambiziosi progetti di Jasmin vanno a cozzare con le incrostazioni della quotidianità, con i problemi da risolvere, con le delusioni e le disillusioni. Eppure, in lui, la speranza non muore, in quanto necessario ossigeno vitale da mantenere forte e pulsante con ogni mezzo. 
Nelle sue connotazioni meta-cinematografiche, pur in un contesto geografico assai differente, The Waiting Room trova alcuni punti in comune con il meraviglioso Sils Maria di Assayas, per come cerca di accorpare finzione e realtà, rappresentazione scenica e concreto intimismo, non-accettazione del tempo che passa e difficoltà ad adeguarsi a una nuova condizione in cui reinventarsi quasi da zero. Lo fa con intelligenza ed efficacia, grazie a una regia mai invasiva che alterna i piani di sviluppo della narrazione e si attacca alle mutazioni del volto del bravissimo Jasmine Geljo,  attore che davvero ha vissuto ciò che interpreta sullo schermo, subendo anche fastidiose discriminazioni: “quando sono arrivato in America all'inizio mi proponevano sempre la parte del killer, del maniaco o dello stupratore; nella loro visione delle cose chiunque venga dai paesi dell'Est Europa può fare solo questo tipo di ruoli”, ha raccontato il protagonista in sala al termine della proiezione. 
Con pazienza Geljo ha saputo sconfiggere i pregiudizi e costruire una bella carriera che nel film di Igor Drljaca trova forse per ora il miglior compimento; il suo alter-ego sullo schermo invece dovrà ancora lottare per avverare i propri sogni, ma non smetterà di inseguire l'arte e tutto ciò che essa contiene e rappresenta. Un amore che nessuna stupida guerra potrà mai del tutto uccidere.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Locarno, Torino 33


Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Igor Drljaca
Attori: Jasmin Geljo, Maša Lizdek, Filip Geljo, Cynthia Ashperger, Ma-Anne Dionisio
Fotografia: Roland Echavarria
Montaggio: Ajla Odobašić
Musiche: Mitchell Akiyama
Anno: 2015
Durata: 93'

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LOCARNO 68 - Cosmos: conferenza stampa Zulawski, foto e video

10/8/2015

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La giornata di sabato 8 agosto a Locarno si è svolta indubbiamente sotto il segno di Andrzej Zulawski, presente al festival per l'anteprima mondiale del suo attesissimo Cosmos, ritorno alla regia dopo quindici anni con un film tratto dal complesso romanzo di Witold Gombrowicz. 
Impegnato come tutti a sopportare le torride temperature locarnesi, vicine ai quaranta gradi, Zulawski, accompagnato dalla splendente Sabine Azéma, dal produttore Paulo Branco e dagli altri attori del film, ha partecipato dapprima alla conferenza stampa riservata ai giornalisti, poi alla proiezione ufficiale per il pubblico con un rapido saluto, infine a un lungo e interessante incontro aperto a tutti.
Noi eravamo presenti nei tre diversi momenti, e abbiamo avuto modo di ascoltare le parole di uno Zulawski a tratti pensieroso a tratti loquace, pronto innanzitutto a esprimere con forza il desiderio di tornare alle origini del cinema, a un modo di girare che possa recuperare la semplicità di un tempo e allontanarsi da tutti gli orpelli tecnici che contraddistinguono le produzioni contemporanee.
L'autore ha spiegato come abbia cercato di rispettare il lavoro di Gombrowicz e al contempo abbia tentato di reinventarlo senza comunque tradirne lo spirito, tanto da riproporre in modo assolutamente fedele alcuni dei dialoghi presenti nel testo. Tornato dietro la macchina da presa dopo 15 anni "durante i quali, da spettatore di cinema, mi sono annoiato moltissimo", il regista di Possession, acclamato a gran voce un paio d'ore prima dai suoi fans e accolto sul palco dell'Auditorium Fevi da un emozionatissimo Carlo Chatrian, ha raccontato come abbia voluto realizzare un film su Gombrowicz e non una riflessione personale sui concetti legati alla sua visione del mondo. A differenza del romanzo, che si svolge in Polonia negli anni trenta, ha inoltre voluto proporre una messinscena che potesse essere ambientata ovunque e in qualsiasi momento, senza limiti spazio-temporali. Incentivato dalle domande del pubblico, Zulawski ha sfidato gli spettatori (a chi gli chiedeva cosa rappresenti per lui la follia nei film, ha replicato "le risponderò soltanto se saprà darmi una esatta definizione di cos'è la follia") senza nascondere il fastidio nei riguardi di alcune sterili polemiche (a una ragazza che con tono vagamente scocciato gli domandava se lui faccia film per il pubblico o per se stesso, ha risposto "questa è una domanda veramente stupida"). 
La discussione ha coinvolto anche gli altri partecipanti, prima fra tutte una squisita Sabine Azéma, disponibile e sorridente, che ha spiegato come tutte le sere gli attori si riunissero tra loro, senza la presenza di Zulawski, per provare insieme le scene che avrebbero dovuto girare il giorno dopo, e come abbiano dovuto imparare alla perfezione il testo, per essere poi liberi di interpretarlo in modo personale.
Il produttore, Paulo Branco, ha invece spiegato che il film è stato girato in neanche 40 giorni, con meno risorse economiche di quanto avrebbe sperato, sottolineando che al momento Cosmos non gode di alcuna distribuzione. La speranza è che ovviamente le cose possano migliorare dopo il successo locarnese, affinché da più parti si possa usufruire di un'opera-limite destinata a lasciare il segno.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Locarno


Qui pubblichiamo alcune foto da noi scattate durante la conferenza stampa.

Qui invece proponiamo un video girato da noi con la parte iniziale dell'incontro con il pubblico, durante il quale nasce un siparietto in cui Zulawski, prima di cominciare a parlare, chiede una birra gelata per dissetarsi e combattere la calura.
Infine ecco due brevi estratti video in cui Sabine Azéma spiega come gli attori si siano dovuti preparare a fondo imparando a memoria ampie parti del testo di Gombrowicz, e come ogni attore si debba sempre reinventare, giorno dopo giorno.
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LOCARNO 68 - Il programma ufficiale

4/8/2015

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Ormai è diventata un'abitudine. Una bella consuetudine radicata da lungo tempo e sempre più evidente e costante. Anche quest'anno, con la direzione artistica di Carlo Chatrian, il festival di Locarno, al via il 5 agosto, propone un programma sontuoso, superiore rispetto ad altre manifestazioni in teoria più blasonate ma in realtà in palese difficoltà e in netta crisi d'identità. Un cartellone straripante, per dieci giorni di cinema in cui si potrà spaziare tra mille suggestioni diverse, sempre sotto il segno della scoperta, della creatività, del coraggio, di una miscellanea stilistica in cui ognuno potrà trovare ampi motivi di gioia e sorpresa.

Michael Cimino, Edward Norton, Sabine Azéma, Cécile De France, Carmen Maura, Andy Garcia, Bulle Ogier, Marco Bellocchio: sono solo alcuni dei prestigiosi ospiti che interverranno a Locarno durante i dieci giorni di durata dell'evento, tra omaggi, premiazioni e conversazioni aperte al pubblico.
La selezione di Piazza Grande, come al solito, propone soprattutto titoli di ampio respiro dal punto di vista commerciale, senza peraltro mai dimenticare la qualità: nell'imbattibile cornice della Piazza, sullo schermo all'aperto più grande d'Europa, transiteranno tra gli altri Ricky and the Flesh di Jonathan Demme (con Meryl Streep, film d'apertura), Amnesia di Barbet Schroeder, Floride di Philippe Le Guay (con Jean Rochefort e Sandrine Kiberlain), il canadese Guibord s'en va-t-en guerre (con Suzanne Clément), La belle saison di Catherine Corsini, La vanité di Lionel Baier (ritorno a Locarno dell'autore di Les Grandes Ondes), Trainwreck di Judd Apatow e Southpaw di Antoine Fuqua (con Jake Gyllenhaal), oltre alla possibilità di rivedere capolavori come The Deer Hunter di Cimino e I pugni in tasca di Bellocchio. 
Il concorso ufficiale prevede ben 19 titoli, provenienti da tutto il mondo, tra cui si segnalano a una prima occhiata l'attesissimo Cosmos, ritorno alla regia di Andrzej Zulawski dopo 15 anni, Chant d'Hiver di Otar Iosseliani (con Mathieu Amalric), il fluviale Happy Hour di Ruysuke Hamaguchi (317 minuti), No Home Movie di Chantal Akerman, Right Now Wrong Them di Hong Sang-soo, Sulanga Gini Aran di Jayasundara, Suite Armoricaine di Pascale Breton e The Sky Trembles and the Earth is Afraid and the Two Eyes are not Brothers del talentuoso Ben Rivers. L'Italia sarà invece rappresentata dal bucolico Bella e perduta, di Pietro Marcello.
È solo l'inizio. Il programma è talmente ampio che non si contano nemmeno i lavori di sicuro interesse sparsi nelle numerose sezioni collaterali, tanto che risulta praticamente impossibile poter fare un elenco esaustivo dei titoli da non perdere, considerando anche il fatto che in alcuni casi si tratta di autori magari poco noti ma tutti da scoprire. Seguiamo così soprattutto l'istinto e proviamo a segnalare, nella fondamentale sezione Cineasti del presente, il trip-horror tedesco Der Nachtmahr, lo svizzero Keeper (melò adolescenziale con Kacey Mottet Klein, il ragazzo lanciato da Ursula Maier nel bellissimo Sister), il francese Le Grand Jeu (con André Dussolier e Melvil Poupaud) e il serbo-canadese The Waiting Room, storia di un attore in declino alla ricerca del proprio presente e del proprio passato, senza dimenticare Dom Juan, adattamento filmico dell'omonimo testo di Molière con attori della Comedie Française e regia affidata al buffo e irresistibile Vincent Macaigne (La bataille de Solférino, 2 automnes 3 hivers), qui al suo debutto dietro la macchina da presa con un progetto similare a quello realizzato due anni fa da Valérie Donzelli con Que d'amour, presentato proprio a Locarno.
Fuori concorso troviamo tra gli altri Garoto di Júlio Bressane, I sogni del lago salato di Andrea Segre e Le boit dont les rêves sont faits di Claire Simon, mentre tra i film delle giurie si segnalano su tutti L'ombre des femmes di Philippe Garrel (applauditissimo a Cannes), Unrelated di Joanna Hogg (in concorso due anni fa con il pregevole Exhibition) e il glorioso Scarecrow di Jerry Schatzberg. 
Non è ancora finita: una saporita retrospettiva dedicata a Sam Peckinpah, il concorso cortometraggi, molti autori esordienti, una carrellata di titoli provenienti dalla Svizzera, la sezione Open Doors quest'anno incentrata sull'Africa (Libia, Algeria e Tunisia), la Semaine de la Critique con sette titoli pronti a fondere fiction e rappresentazione documentaria, la storia del cinema con tanti splendidi film diretti o interpretati dai principali ospiti del festival, ulteriori mini-retrospettive dedicate ad autori come Marlen Khutsiev; un fiume in piena in cui navigare senza porsi alcun limite, per espandere i confini del cinema e scoprire orizzonti inattesi ed emozionanti. 
Una maratona debordante, accompagnata dal fascino anche scenografico di un festival che sconta purtroppo ancora limiti logistici (la “malagevolezza” di molti luoghi in cui si svolgono le proiezioni) ma che dal punto di vista prettamente artistico ha ormai raggiunto e consolidato un livello eccezionale, con pochi eguali in Europa e nel mondo, nonostante l'incomprensibile atteggiamento di alcuni appassionati e addetti ai lavori, soprattutto italiani, che continuano a snobbarlo preferendo mete “tradizionali” sempre più asfittiche.

Appuntamento in terra svizzera dal 5 al 15 agosto. Tutto il programma sul sito ufficiale.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Locarno, News

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LOCARNO 67 - From What Is Before, di Lav Diaz: oltre l'impossibile

16/12/2014

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Fa un cinema titanico e fluviale, Lav Diaz, e lo sappiamo. Un cinema che resiste ai codici canonizzati e alle durate standard per necessità e per intime ragioni espressive, come chi ha imparato a conoscerlo e ad amarlo ha avuto modo di apprendere sulla propria pelle. 
Il suo penultimo film, From What Is Before, cui ha fatto seguito Storm Children, Book 1 passato all’ultimo Torino Film Festival, conferma la caratura incredibile della sua arte e se possibile ne riafferma la potenza. Perché si tratta forse del suo film più sentito e necessario; dell’ode funebre a un paese che è casa (e famiglia) ma anche maledizione, che è consolazione ma anche divinità matrigna, umorale, temibile in quanto imprevedibile. 
Un’opera imperiosa e gigantesca, From What Is Before, Pardo d’Oro all’ultimo Festival di Locarno, la cui eco persiste e riaffiora nella mente anche a mesi di distanza dalla visione. Siamo nelle Filippine del 1972 e in un barrio si susseguono evidenti piuttosto oscuri: si sentono alcuni misteriosi e spaventosi lamenti provenire dal bosco, le mucche muoiono dopo essere state massacrate e squartate, delle abitazioni vengono date alle fiamme, gli uomini vengono ritrovati con addosso vistose ferite. Il dittatore Marcos ha rinnovato lo spietato magistero del suo brutale regime sul paese, che adesso si trova sottoposto ai rigidi dettami della legge marziale. 
Con una mirabile e tutt’altro che azzardata associazione che poteva essere pensata solo da un cineasta enorme, Diaz traduce quei segnali nefasti in profezie di una catastrofe tanto immanente quanto imminente, a riprova del fatto che il suo è un cinema che riproduce il respiro perduto del mondo, la forza impressionante e divorante della natura, la condizione di uomini posti ai margini della realtà globalizzata e che di quel sistema capitalistico non possono non essere il controcampo, tanto tragico quanto torrenziale, subissato non a caso da monsoni e grandi piogge. Perché la loro vita così come il loro dolore non conoscono mezze misure o edulcorazioni di nessun genere e pertanto scorrono entrambi senza limiti, inarrestabili come un’emorragia. O come un fiume di lacrime. 
“Questi sono tempi maledetti”, si dice nel meraviglioso dialogo tra due uomini che si appresta a chiudere il film, uno dei tanti momenti da tatuare nella memoria di un’opera che è un puro territorio esperienziale, in cui mettere in discussione se stessi con forza: le proprie convinzioni e i propri confini geografici in quanto esseri umani e cittadini, ma anche le proprie abitudini come spettatori, vessate dai canoni, dalle semplificazioni, dalle false apparenze in bella posa. 
Lav Diaz, oltre che un genio del cinema, è anche un sublime antropologo, un finissimo regista politico nel senso più alto e completo (perché non spiega mai, mostra soltanto), senza contare le sue eccezionali doti di rabdomante. Perché non si può definire altrimenti un uomo di cinema che prende lo spettatore e lo trascina in un universo estetico così ruvido ma non per questo non altrettanto poetico, in cui non esistono compromessi e le sue inquadrature fisse, quasi sempre in piano-sequenza, sono dei tableaux vivants di abbagliante nettezza, che inducono a un seduttivo rapimento dei sensi. Ognuno di essi è statico eppure iper-strutturato, parte da un’idea di regia magari semplice ma la sviluppa in modo sempre sorprendente, soffermandosi sulla contemplazione e sulla paralisi dell’inquadratura come scavo per penetrare i misteri del creato, del disegno divino, dei suoi personaggi. 
Ogni take di Lav Diaz è una scelta di campo risolutiva, uno sfregio a chi proprio non vuole abbattere il pregiudizio dell’ostilità nei confronti suoi e del suo cinema, oltre che una richiesta d’aiuto, un urlo, un allarme lanciato dai confini del mondo e diretto a ogni essere vivente sulla faccia del pianeta. From What Is Before è probabilmente il suo capolavoro proprio perché riesce ad amplificare tale dimensione panteista portandola alle estreme conseguenze, lavorando sul lato fortemente polarizzato del suo cinema senza nessun compiacimento - il film infatti è esente da certe asprezze più gratuite del passato di Lav Diaz, da certi radicalismi oltranzisti - e ponendosi così come un opus magnum sì interminabile ma anche di un’essenzialità a suo modo cristallina, della quale non si può spostare un millimetro e anche solo pensarlo sarebbe un delitto. 
“Questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese”. È lo stesso Lav Diaz a irrompere sulle immagini con la sua voce fuori campo, poco dopo il prologo e poco prima dell’epilogo, ribadendo che la cronaca dell’episodio traumatico isolato, nonché per estensione la storia personale del singolo individuo, è parimenti importante per determinare la Storia, quella ufficiale, quella che i popoli come il suo, ancora preda dei loro limiti animisti e della propria stessa naiveté naturalista, non hanno il diritto non solo di scrivere ma nemmeno, più drasticamente, di vivere. 
Grazie al vigore senza pari delle sue immagini come sempre sovrumane e di un incanto mai così commovente e struggente, Lav Diaz riesce anche nell’impresa di mettere in scena una giovane connazionale gravemente disturbata senza far apparire quel frangente ambiguo e ricattatorio, ma solo umano e onesto come poche altre cose. Moralmente altissimo come un cinema che è capace di unire civiltà ed epica senza lasciare a quest’ultima la licenza di stritolare la prima, che è in grado di guardare in faccia un popolo oppresso con occhi impassibili eppure palpitanti. Il tutto in un “paese morto” diventato “paese dei morti”, nel quale la traspirante bellezza della natura (le scene alla scogliera mettono spalle al muro, tanto sono potenti) sposa l’efferatezza del gesto dell’uomo dando luogo a un ossimoro che è senza ritorno come tutte le tragedie ineluttabili e tutte le compresenze drammatiche che martorizzano certi angoli del mondo. 
È soprattutto questo aspetto, tra i tanti, a fare di  From What Is Before, senza mezzi termini, una delle più grandi esperienze cinematografiche degli ultimi anni, il manifesto perfetto di un cinema atto a spingersi oltre l’impossibile e di guadare qualsiasi fiume. Anche il più ostile. Anzi, proprio quello.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Festival Locarno


Scheda tecnica

Titolo originale: Mula sa kung ano ang noon
Regia: Lav Diaz 
Sceneggiatura: Lav Diaz 
Montaggio: Lav Diaz 
Fotografia: Lav Diaz
Anno: 2014
Durata: 338'
Interpreti: Hazel Orencio, Perry Dizon, Liryc Paolo Dela Cruz, Kim Perez, Lucky Jay De Guzman

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LOCARNO 67 - Il programma ufficiale

5/8/2014

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Un bellissimo mosaico, da costruire pezzo per pezzo secondo la propria sensibilità, per poi perdersi tra le figure e le immagini, senza remore e senza limiti. Ecco in cosa consiste il programma dell'edizione 67 del Festival di Locarno, la seconda (ottimamente) diretta da Carlo Chatrian. Un cartellone bulimico, nel quale ogni appassionato e ogni addetto ai lavori può scegliersi una strada ben definita, o saltare da un sentiero all'altro tracciando, per parafrasare le parole dello stesso direttore artistico, “una mappa che prevede un sistema ragionato di segni, in cui privilegiare la sovrapposizione, la condivisione e lo scambio”.
Analizzare nel dettaglio il programma di Locarno 2014 è impresa ardua, vista l'impressionante mole di contenuti, titoli, suggestioni, novità e curiosità. Ci limitiamo quindi a segnalare alcuni spunti, senza pretese di esaustività, concedendo la prima citazione a colei che il sottoscritto definisce da tempo la migliore attrice al mondo: Juliette Binoche. La splendida interprete francese sarà a Locarno il 15 agosto, per ricevere l'Excellence Award Moet & Chandon; per l'occasione si terrà una conversazione con l'attrice aperta al pubblico, e la Binoche sarà poi in Piazza Grande, dove dopo la premiazione sarà proiettato Sils Maria di Olivier Assayas, applaudito all'ultimo Festival di Cannes. Un appuntamento imperdibile.
Tra i numerosi ospiti che quest'anno presenzieranno a Locarno, possiamo citare alla rinfusa i nomi di Mia Farrow, Victor Erice (Pardo alla carriera), Agnès Varda (Pardo d'onore), Jean-Pierre Léaud (anche lui Pardo alla carriera), Garrett Brown, Armin Mueller-Stahl, Suzanne Clément, Julie Depardieu, Luc Besson, Jason Schwartzman, Paul Vecchiali, Melanie Griffith, Alexander Sokurov, Hippolyte Girardot, lo stesso Assayas e molti, molti altri. Tra gli eventi principali che si terranno nello spettacolare scenario di Piazza Grande, oltre a Lucy e Sils Maria, si vedranno tra gli altri Il gattopardo, Marie Heurtin (con Isabelle Carré), À la vie (con la sopracitata coppia Clément-J.Depardieu), The Hundred-Foot Journey di Lasse Hallstrom e Geronimo di Tony Gatlif (film di chiusura). 
Il concorso internazionale prevede 17 titoli, provenienti da tutto il mondo, tra i quali balzano subito all'occhio il francese Fidelio di Lucie Borleteau (con Melvil Poupaud), l'italo/francese La sapienza di Eugène Green (con Fabrizio Rongione, attore feticco dei Dardenne, presente anche nel recente Deux jours, une nuit), e From What is Before, la nuova ampissima (338 minuti) fatica del regista di culto filippino Lav Diaz. Accanto a loro nomi magari poco noti, tra i quali però si nascondono certamente talenti tutti da scoprire.
Locarno continua nel suo ammirevole e vitale percorso di libertà, dando spazio al cinema nelle sue forme più variegate e sperimentali, ma getta un occhio anche alla tradizione, ospitando quest'anno la solidissima retrospettiva dedicata alla Titanus, con una cinquantina di titoli in programma. Molto interessanti anche le sezioni Cineasti del Presente, con 15 titoli di autori esordienti (o quasi) divisi tra fiction e documentari, e I pardi di domani, spazio per giovanissimi registi alle prese con i loro primi corto/mediometraggi, alcuni dei quali provenienti da una scuola balcanica e realizzati con la supervisione di Sokurov. 
Non è finita qui: la nuova sezione Signs of Life andrà a esplorare nuove forme del linguaggio filmico, leHistoire(s) du Cinéma cercheranno di riscoprire opere del passato non molto conosciute dal grande pubblico, mentre la sezione Open Doors proporrà molti titoli provenienti dall'Africa subsahariana.
Una doverosa citazione va infine al Fuori Concorso, in cui si avrà l'opportunità di visionare, tra gli altri, Adieu au langage del maestro Jean-Luc Godard, Creep di Patrick Brice e Dialogue d'ombres di Straub/Huillet, mentre nelle giurie chiamate a valutare i lavori in concorso ci saranno Gianfranco Rosi, Rutger Hauer, Clémence Poesy, Connie Nielsen e Alice Braga, con proiezioni di titoli estratti dalle rispettive filmografie.
Abbiamo detto tutto? No. E forse è anche giusto così, perché quello di Locarno è un evento in cui bisogna lasciare a tutti l'opportunità di studiare, provare, azzardare e gioire, seguendo l'istinto, senza forzature, così che la magica “mappa” festivaliera posa condurre ogni spettatore a trovare i propri tesori nascosti.
Appuntamento dunque sulle sponde del Lago Maggiore, dal 6 al 16 agosto. Il programma completo è disponibile sul sito ufficiale, su cui anche quest'anno sarà disponibile l'utilissimo servizio Pardo Live Tv, grazie al quale si potrà assistere in diretta streaming gratuita a presentazioni, incontri e premiazioni. 

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Locarno

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LOCARNO 66 - Que d'amour, di Valérie Donzelli

20/8/2013

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Valérie Donzelli è stata una protagonista assoluta di Locarno 66. Membro della giuria del concorso internazionale, l'abbiamo vista anche come scatenata attrice protagonista in Les Grandes Ondes di Lionel Baier, e come regista per il suo nuovo lavoro Que d'amour, la cui anteprima mondiale è stata penalizzata da una programmazione scriteriata (un'unica proiezione, serale e in contemporanea con la premiazione di Werner Herzog) che ha dunque portato in sala un pubblico non numeroso (ma assai partecipe). Il film è stato commissionato da Arte France, alcuni autori hanno ricevuto l'incarico di realizzare pellicole tratte da rinomate opere teatrali, Valérie ha scelto una pièce di Marivaux e ha avuto l'opportunità di lavorare con attori della Comedie Française.
Tramite il suo occhio come sempre spontaneo e creativo, seguiamo la vicenda di Silvia, promessa sposa a Dorante; la ragazza, per conoscere meglio il carattere del futuro marito, ottiene dal padre il permesso di presentarsi a lui nei panni della serva Lisette, la quale finge di essere la sua padrona. In compenso lo stesso Dorante ha la medesima idea, e si presenta nelle vesti del servo Arlecchino, a sua volta travestito da padrone. Le due coppie iniziano un bizzarro balletto di finzione e fraintendimenti, le carte in tavola risultano più volte scompaginate, fino a che finalmente, un po' alla volta, le verità saranno svelate.
Cinema, teatro, televisione: mezzi d'espressione differenti che qui convergono con efficacia grazie all'abile mano di Valérie Donzelli, ancora una volta in grado di sorprenderci con la sua miscela di humour, fantasia, genuinità, purezza d'intenti. Que d'amour è un gioco divertente e innocuo che scorre via con facilità, sa non prendersi troppo sul serio e porta a termine il suo compito senza inciampare in inutili voli pindarici. Inganni, sussulti del cuore, colpi di fulmine, travestimenti, battute spiazzanti, innocenti seduzioni e irresistibili passioni, personaggi con cartoncini attaccati al petto che spiegano il loro ruolo del momento, didascalie da cinema muto, narrazione fuori campo, iridi, canzoni: per l'ennesima volta la Donzelli entusiasma per la vitalità assoluta del suo cinema.
In fondo è proprio per questo che la amiamo così profondamente: è una donna che ha ormai ottenuto un ampio successo a livello internazionale, ma che è ancora capace di emozionarsi come una bimba scoprendo l'imponente panorama delle 8000 persone che assisteranno a Les Grandes Ondes in Piazza Grande, o di ridere di gusto durante il film (lo diciamo con certezza perché eravamo seduti a due metri da lei) e sorprendersi davanti al caloroso applauso che il pubblico le riserva alla fine dei titoli di coda di Que d'amour. 
Parliamo di un'autrice che fin dagli esordi nel 2001, per poi arrivare al debutto come regista con La reine des pommes, proseguendo con il meraviglioso La guerre est déclarée e con Main dans la main, continua a portare in dote un'idea di cinema schietta, armonica, anticonvenzionale, freschissima, priva di qualsiasi remora, capace di guardare al passato e vivere la contemporaneità con mirabile equilibrio espressivo. Il sorriso sbarazzino di Valérie ci ricorda sempre che finzione e realtà sono due facce della stessa medaglia, e che l'Arte, prima di tutto, è (e sempre dovrebbe essere) gioia e libertà.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Locarno


Scheda tecnica

Regia: Valérie Donzelli
Attori: Gérard Giroudon,  Alexandre Pavloff,  Léonie Simaga,  Noam Morgensztern,  Suliane Brahim
Fotografia: Sébastien Buchmann
Musiche: Philippe Jakko
Sceneggiatura: Valérie Donzelli, Anne Berest (tratta dall'opera teatrale di Marivaux)
Anno: 2013
Durata: 75'

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LOCARNO 66 - Il palmarès completo

18/8/2013

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Sì è conclusa con indiscutibile successo di pubblico l'edizione 2013 del Festival di Locarno, la prima con Carlo Chatrian nelle vesti di direttore artistico; undici giorni intensissimi, che hanno confermato, semmai ce ne fosse stato bisogno, il posto di primissimo piano che Locarno occupa all'interno del panorama festivaliero europeo e mondiale. 
La giuria del concorso internazionale, capitanata da Lav Diaz e composta tra gli altri da Yorgos Lanthimos e Valérie Donzelli, ha optato per il cinema d'autore più radicale, conferendo il Pardo d'Oro a Historia de la Meva Mort di Albert Serra. Una scelta che sinceramente lascia qualche perplessità. 
Scorrendo il Palmarès, restiamo delusi dall'assenza di due ottimi lavori come Exhibition e L'Harmonie, mentre possiamo salutare con soddisfazione la vittoria come miglior attrice della magnifica Brie Larson per Short Term 12 (come avevamo previsto), e la menzione speciale ottenuta dal toccante Tableau Noir di Yves Yersin. Sottolineiamo inoltre con grande gioia il premio del pubblico di Piazza Grande vinto dallo splendido Gabrielle, nella speranza che per il film di Louise Archambault questo sia solo il primo di una lunga serie di importanti riconoscimenti. 

Qui sotto l'elenco completo di tutti i premi.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Locarno



Concorso internazionale

Pardo d’oro
HISTORIA DE LA MEVA MORT di Albert Serra, Spagna/Francia

Premio speciale della giuria
E AGORA? LEMBRA-ME di Joaquim Pinto, Portogallo

Pardo per la miglior regia
HONG SANGSOO per U Ri Sunhi (Our Sunhi), Corea del Sud

Pardo per la miglior interpretazione femminile
BRIE LARSON per SHORT TERM 12 di Destin Cretton, Stati Uniti

Pardo per la miglior interpretazione maschile
FERNANDO BACILIO per EL MUDO di Daniel Vega e Diego Vega, Perù/Francia/Messico

Menzioni speciali
SHORT TERM 12 di Destin Cretton, Stati Uniti
TABLEAU NOIR di Yves Yersin, Svizzera



Concorso Cineasti del presente

Pardo d’oro Cineasti del presente - Premio George Foundation
MANAKAMANA di Stephanie Spray e Pacho Velez, Nepal/Stati Uniti

Premio per il miglior regista emergente
COSTA DA MORTE di Lois Patiño, Spagna

Premio speciale della giuria Ciné+ Cineasti del presente
MOUTON di Gilles Deroo e Marianne Pistone, Francia

Menzione speciale
SAI NAM TID SHOER (By the River) di Nontawat Numbenchapol, Tailandia



Opera Prima

Pardo per la migliore opera prima
MOUTON di Gilles Deroo e Marianne Pistone, Francia

Menzione speciale
MANAKAMANA di Stephanie Spray e Pacho Velez, Nepal/Stati Uniti



Pardi di domani

Concorso internazionale
Pardino d’oro per il miglior cortometraggio internazionale - Premio SRG SSR
LA STRADA DI RAFFAEL di Alessandro Falco, Italia/Spagna

Pardino d’argento Swiss Life per il Concorso internazionale
ZIMA di Cristina Picchi, Russia

Nomination di Locarno agli European Film Awards - Premio Pianifica
ZIMA di Cristina Picchi, Russia

Premio Film und Video Untertitelung
TADPOLES di Ivan Tan, Singapore

Menzione speciale
ENDORPHIN di Reza Gamini, Iran


Concorso nazionale

Pardino d’oro per il miglior cortometraggio svizzero
'A IUCATA di Michele Pennetta, Svizzera

Pardino d’argento Swiss Life per il Concorso nazionale
VIGIA di Marcel Barelli, Svizzera/Francia

Premio Action Light per la miglior speranza svizzera
LA FILLE AUX FEUILLES di Marina Rosset, Svizzera


Piazza Grande

Prix du Public UBS
GABRIELLE di Louise Archambault, Canada

Variety Piazza Grande Award
2 GUNS di Baltasar Kormákur, Stati Uniti

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LOCARNO 66 – Gabrielle, di Louise Archambault

17/8/2013

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Gabrielle è affetta dalla sindrome di Williams-Beuren, una malattia genetica che non le impedisce di vivere, sognare, amare. La ragazza possiede un talento innato per la musica, e cantando nel coro del centro ricreativo che ospita lei e altre persone parzialmente disabili trova tranquillità e soddisfazioni. A un certo punto si innamora (ricambiata) di Martin, compagno nel coro; Gabrielle vorrebbe esprimere pienamente il proprio sentimento, sia dal punto di vista emotivo che fisico, ma la madre di lui per un eccessivo senso di protezione ostacola il rapporto, nel timore che il figlio (anch'egli vittima di un ritardo mentale) non sia pronto per un'esperienza di questo genere. 
Gabrielle lotta per potergli rimanere accanto, e al contempo esprime con forza all'adorata sorella, in procinto di partire per l'Africa, il desiderio di avere un appartamento tutto per sé, per dimostrare la propria indipendenza e libertà di donna. Gli ostacoli non saranno di poco conto, ma la sua caparbietà d'animo la porterà a sconfiggere i dubbi, abbattere le barriere e ottenere un po' alla volta tante conquiste fondamentali.
Presentato in anteprima mondiale a Locarno 66, davanti all'immenso pubblico di Piazza Grande, il film della canadese Louise Archambault ha saputo emozionare la platea, tanto da raccogliere una meritatissima standing ovation al termine della proiezione. La regista, in conferenza stampa, ha spiegato di aver compiuto lunghe ricerche per sviluppare il suo racconto, frequentando per molto tempo i centri di accoglienza dislocati nel Canada francofono, osservando nei minimi particolari la quotidianità degli ospiti, dialogando con i ragazzi e i loro genitori per capire come vivono queste complesse situazioni. Invece di scritturare attori professionisti ha preferito affidarsi a persone reali, per preservare la freschezza e la spontaneità del racconto, trovando i suoi perfetti interpreti nell'incontro con Alexandre Landry e con la splendida Gabrielle Marion-Rivard, che ha saputo portare la sua vera vita all'interno della messinscena.
A metà tra finzione e realismo, documentario e creazione artistica, il film della Archambault stupisce per equilibrio, sensibilità, acume, delicatezza, riuscendo a descrivere con piena efficacia gli stati d'animo di questi esseri umani pronti a sfidare le incertezze e le paure di chi li circonda, per urlare al mondo il diritto di essere trattati con rispetto e normalità, e di poter godere i sentimenti che li sovrastano senza alcuna preclusione derivata dalla loro parziale disabilità. 
Il ritratto della straordinaria protagonista, il cui sorriso penetra nel cuore per non uscirne più, è un commovente mix di purezza, candore, fragilità, determinatezza, genuinità, fierezza; un quadro intenso, ricco di sfumature, privo di pietismo e melensa retorica. La sua lotta per la vita è accompagnata da numerosi e irresistibili momenti canori dedicati alle prove del coro, che approdano a un magnifico concerto conclusivo in cui i ragazzi si esibiscono con il brano "Ordinaire" (più che un titolo, una dichiarazione d'intenti) insieme al famoso cantautore e attore quebecchese Robert Charlebois. In quel momento la musica travalica i confini dello schermo, per espandere oltre l'infinito le proprie melodie intrise di speranza e tenerezza. 
Gabrielle diventa così un meraviglioso inno alla vita, all'amore, alla gioia; un lungo abbraccio per il quale è impossibile non cedere a lacrime colorate di felicità. Un film raro, preziosissimo, indimenticabile.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Locarno, Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Louise Archambault
Attori: Gabrielle Marion-Rivard,  Mélissa Désormeaux-Poulin,  Alexandre Landry
Fotografia: Mathieu Laverdière
Musiche: François Lafontaine
Sceneggiatura: Louise Archambault
Montaggio: Richard Comeau
Anno: 2013
Durata: 102'
Uscita italiana: 12 giugno 2014

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LOCARNO 66 – L'Étrange Couleur des larmes de ton corps

17/8/2013

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Una donna scompare. Il marito la cerca ovunque, non la trova, e nella disperazione inizia a essere preda di incubi e allucinazioni di ogni tipo. 
Fine. Questa è la trama di L'Étrange Couleur des larmes de ton corps, l'atteso ritorno della coppia formata da Hélène Cattet e Bruno Forzani, saliti alla ribalta quattro anni fa con l'apprezzatissimo Amer, molto lodato dai seguaci del cinema di genere. Trama, peraltro, è un termine che mal si addice alla nuova opera del duo, presentata in concorso e in anteprima mondiale a Locarno: qui, infatti, il plot narrativo è puro pretesto, un semplice accenno buttato lì per poi dirigersi negli ostici territori di una visionarietà ribadita e anzi molto estremizzata rispetto al lavoro precedente.
Già Amer, apprezzabile come sentito omaggio al glorioso giallo-horror all'italiana degli anni Settanta, viveva in una sorta di bolla autoreferenziale, un limbo chiuso in se stesso alla lunga sin troppo sicuro delle sue convinzioni. Con L'Étrange Couleur la coppia belga si è però spinta ben oltre, urlando al vento il (non) senso di un cinema che guarda al passato, lo cita in ogni istante, e poi si bea del proprio indubitabile talento, facendosi beffe dello spettatore per tessere un abito intriso di mille colori che peraltro mal si adatta alla forma dell'oggetto filmico.
Il confine tra sperimentazione e manierismo, talento e supponenza è labile, oscillante, acquattato dietro l'angolo, pronto a saltare fuori per affossare lo sfidante di turno: in questo caso il limite risulta superato e non di poco. L'opera di Cattet/Forzani, partorita ovviamente seguendo l'insegnamento dei vari Bava, Argento, Fulci e Martino, risulta affascinante per i primi 15/20 minuti, salvo poi naufragare in un infinito loop di inserti inspiegabili, tagli sfrontati, split screen, zoom feroci, inquadrature volanti, soggettive impossibili, musiche d'epoca, attacchi sonori, corpi seviziati: un'esperienza stordente, che in qualche punto ci ha ricordato il terrificante Enter the Void di Gaspar Noè. Un esperimento sulla carta eccitante ma troppo ambizioso, che stanca in fretta e gira a vuoto in un'estenuante giostra da cui in verità, esaurita la curiosità iniziale, si vorrebbe scendere molto presto.
Pur riconoscendo le capacità registiche della coppia, ci sentiamo di consigliare loro un deciso cambio di registro per il futuro: non è sempre obbligatorio spingersi oltre, alla ricerca del punto di non ritorno; alle volte può essere salutare un bel salto all'indietro, per trovare la giusta armonia e individuare una strada definitiva che possa essere anche efficace e duratura. 
Note a margine: la proiezione locarnese, già di per sé delirante, è diventata ancora più surreale nel momento in cui è entrato in sala per assistere al film un certo Abel Ferrara (!), il quale pare abbia addirittura gradito, visto l'applauso (pressoché solitario) durante i titoli di coda. Inoltre dobbiamo segnalare come Luciano Martino, fondamentale produttore di quell'epoca d'oro di cui si nutre il cinema dei registi belgi, che lo hanno perfino citato in conferenza stampa, sia venuto a mancare proprio poche ore dopo; un macabro scherzo del destino.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Locarno


Scheda tecnica

Regia: Bruno Forzani,  Hélène Cattet
Attori: Klaus Tange,  Jean-Michel Vovk,  Sylvia Camarda,  Sam Louwyck,  Anna D’Annunzio
Fotografia: Manu Dacosse
Sceneggiatura: Hélène Cattet, Bruno Forzani
Montaggio: Bernard Beets
Anno: 2013
Durata: 102'

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