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HERZOG - Fitzcarraldo, il Dio e il suo sogno

29/7/2013

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Fitzcarraldo, uscito nel 1982 in seguito a una lavorazione lunga (ben quattro anni) e notoriamente travagliata, è una delle opere più conosciute, nonché maggiormente  controverse e impegnative, del grande regista tedesco. La figura dell’irlandese Brian Sweeney Fitzgerald, detto Fitzcarraldo poiché gli abitanti della foresta amazzonica peruviana, di lingua spagnola, non riuscivano a pronunciare il suo nome, rappresenta uno dei tòpoi principali del cinema di Herzog e, in questo caso più che mai, il riflesso diretto dello stesso Werner. 
Arte e vita si fondono in continuazione, in quest’opera immensa e tormentata fin dalla sua nascita: le riprese ebbero inizio nel 1979, ma la troupe fu costretta a uno stop forzato a causa dell’opposizione di un gruppo politico legato alla tribù degli Aguaruna, con minacce di morte e voci diffamatorie ai danni di chi stava lavorando al film. La produzione fu obbligata a fermarsi per un anno, per poi riprendere con Jason Robards nel ruolo del protagonista e Mick Jagger nei panni di Wilbur, un attore folle e un po’ tardo; Robards si ammalò in modo grave, i medici gli proibirono di tornare sul set, e anche Jagger abbandonò. Tutto ciò costò a Fitzcarraldo un’ulteriore battuta d’arresto, e Herzog decise di gettare via il girato, nonostante costituisse già il 40% dell’opera. 
Ricominciò dunque da zero, nell’aprile del 1981, con Klaus Kinski, il suo attore feticcio, già visto all’epoca in capolavori come Aguirre e Nosferatu, a ricoprire la figura centrale: è lecito domandarsi cosa sarebbe stato il film con Robards (e Jagger) al posto del bizzarro attore germanico, ma la risposta è quasi automatica: la sostituzione è stata probabilmente provvidenziale. Kinski è perfetto, ancora una volta l'insostituibile alter-ego di Herzog in un’opera che non è errato definire metacinema: Fitzgerald (ispirato a un personaggio realmente esistito, Carlos Fermin Fitzcarrald, un magnate della gomma peruviano che spostò una nave via terraferma facendola smontare) è lo specchio di Herzog in ogni singolo istante del film. Il sogno folle e impossibile di Fitzcarraldo, uomo che ama incondizionatamente l’opera e Caruso, ossia costruire un teatro nella foresta amazzonica, è il medesimo sogno artistico del regista, nient’altro che portare a termine quest’impresa filmica, titanica, rischiosa, spesso ai confini dell’etica. “Se io abbandonassi il progetto sarei un uomo senza sogni, e non voglio vivere in quel modo. Vivo o muoio con questo progetto.” Queste le parole di Herzog (e potrebbero essere le stesse del protagonista) così come le sentiamo in Burden Of Dreams (Il Fardello dei Sogni), documentario sempre del 1982 firmato da Les Blank, fondamentale per meglio comprendere non solo la pellicola ma le numerose vicissitudini che ebbero luogo attorno a essa. 
Herzog e la sua troupe furono pesantemente attaccati dalla stampa tedesca, con veementi accuse di sfruttamento degli indios; si può restare spiazzati nel vedere la determinazione con cui il cineasta decide di far muovere la nave su per la montagna, la stessa identica caparbietà di Fitzgerald, nonostante il pericolo che il perno possa cedere con conseguenze disastrose per le persone nelle vicinanze. Non è crudeltà, ma è la forza che solo i sognatori sanno avere: chi conosce bene il cinema di Werner Herzog lo sa, e riesce dunque a discernere. 
Fitzcarraldo (e almeno in parte anche il suo regista, poiché sul set vennero utilizzate tre imbarcazioni) sposta dunque una nave da un lato all’altro di una montagna, invasato dalla potenza del sogno, dell’ideale (“chi sogna, può muovere le montagne”, è una delle frasi-chiave del film), in una società di ricchi commercianti rozzi e ignoranti. È una sorta di folle selvaggio, che vive in riva al fiume in compagnia del suo maiale, attorniato da bambini incantati dalla voce di Caruso che esce dal grammofono; Molly (Claudia Cardinale), tenutaria di un bordello di lusso, è la sua amante, sodale e finanziatrice del suo progetto: acquistare la barca (battezzata Molly Aida) al fine di guadagnare denaro lavorando e vendendo il caucciù e poter così costruire il teatro. Fitzcarraldo riunisce uno scalcinato equipaggio e si mette in viaggio sull’imbarcazione malconcia: un’impresa giudicata suicida, a causa degli indios ostili presenti lungo il corso del fiume. Indios che, in realtà, fissano la barca immobili, come mesmerizzati. Qui entra in scena il Fato, lo strano e imperscrutabile gioco delle coincidenze: secondo un mito la popolazione indigena attende un “grande Dio bianco” a bordo di una candida nave, per portarli via da un “mondo che è solo illusione, poiché dietro si cela la realtà che è fatta di sogni”. Un altro concetto cardine, che coincide perfettamente con la visione di Fitzgerald, il quale decide di utilizzare con astuzia l’opportunità che gli si presenta di fronte.  
Gli indios salgono a bordo, li credono Dei, ma così come l’uomo “civilizzato” non è in grado di dominare la Natura, allo stesso modo non può arrogarsi il diritto di cambiare le convinzioni profonde di coloro che la abitano: il capo della tribù, dopo una notte di bisboccia dell’equipaggio, slega l’imbarcazione dall’attracco, lanciandola per le pericolosissime rapide denominate Pongo das Mortes. Fitzcarraldo attribuisce il gesto a una volontà di compiacere gli spiriti fluviali, dopo che egli li ha sfidati. Questo è un altro grande messaggio del film, in netto contrasto con ogni tipo di accusa: non si può  soverchiare l’immmenso potere naturale né coloro che ne fanno parte. Qui risiede il cuore dell'opera herzoghiana. La Molly Aida si infrange sulle rive, così come i sogni del protagonista, almeno apparentemente; Don Aquilino, in forza del miracoloso attraversamento delle rapide, ricompra la nave, e col denaro Fitzgerald corona un surrogato di ciò che portava nel cuore: chiama una compagnia operistica di secondo piano per mettere in scena I Puritani di Bellini proprio sulla Molly Aida. Realizza dunque ciò che anelava, anche se soltanto per il tempo di una rappresentazione. 
Fitzcarraldo ci regala una serie di sequenze indimenticabili, in primis quelle in cui vediamo Kinski sul tetto della nave, intento all’ascolto estasiato dell’amato Caruso: la meravigliosa musica, il lento movimento di macchina che diventa tutt’uno con quello, ipnotico, dell’imbarcazione, rimangono impressi come un marchio a fuoco nella memoria e nel cuore, indelebili, indimenticabili. Magnifico lo score dei Popol Vuh, ancora una volta necessari all’opera herzoghiana, così come in Nosferatu, e capaci di non restare nell’ombra della magniloquenza operistica che tende a dominare il film. 
Una pellicola controversa, spesso criticata, dalla genesi difficile, ma proprio per questo potentissima, perché reca in sé la folle forza del sogno: un Kinski imprenscindibile, se stesso più che mai e più che mai simbiotico e opposto a Herzog. Un altro film per il quale si riesce a trovare una sola parola da rivolgere a questo regista titanico e unico: grazie, per aver scelto il cinema; altrimenti il vuoto sarebbe stato incolmabile. 

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Fitzcarraldo
Anno: 1982
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Thomas Mauch
Musiche: Popol Vuh
Durata: 158'
Interpreti principali: Klaus Kinski, Claudia Cardinale, José Lewgoy, Miguel Ángel Fuentes

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HERZOG - Grizzly Man, il principe degli orsi

8/7/2013

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Grizzly Man, film documentario del 2005 sull’ambientalista americano Timothy Treadwell, può essere considerato tra i lavori più rappresentativi dell’intera poetica di Werner Herzog, nella raffigurazione di una Natura fondamentalmente indifferente e ostile e di un uomo che si trasforma in eroe folle. La pellicola si colloca, cronologicamente, tra Il Diamante Bianco (2004), che narra della rischiosa spedizione in dirigibile nella Guyana dell’ingegnere aereonautico Graham Dorrington, e L’Ignoto Spazio Profondo (2005 ), nel quale un alieno dalle sembianze umane e la sua gente approdano sulla Terra, in fuga dal proprio pianeta morente: un filo rosso palese, sia nella rappresentazione di colui che sfida se stesso e le forze di una Natura possente, sia nell’essere diverso, alieno, “altro”. 
In Grizzly Man, i maggiori tòpoi del cinema del regista tedesco si manifestano in tutta la loro pienezza, rimandando a titoli ormai leggendari come Aguirre Furore di Dio e Fitzcarraldo: Treadwell può essere considerato una sorta di alter ego irrazionale di Herzog, così come lo erano i personaggi interpretati da Kinski; in questo caso la forma documentaristica, e il ruolo del regista in quanto voce narrante, sottolineano le affinità e le differenze tra due uomini dominati dalla stessa forza, ma in modi a volte radicalmente opposti.    
Timothy Treadwell dedicò tredici estati della sua vita agli orsi, nel Parco Nazionale di Katmai, in Alaska. Dal 2000 iniziò a filmare sia se stesso che gli animali attorno a lui; nel footage da lui girato, che dà vita a circa il 70% del film, dichiarava di essere solo, mentre in realtà era spesso accompagnato dalla fidanzata, Amie Huguenard: i due morirono nel 2003, sbranati da un grizzly. L’idea alla base dell’opera non nacque da Herzog bensì da Jewel Palovak, ex compagna di Treadwell e membro del gruppo Grizzly People: il regista accettò sia per l’interesse verso il personaggio che per ragioni economiche, in quanto il lavoro gli offrì l’input per una fruttuosa collaborazione con Discovery Channel. 
La figura di Treadwell, il cui vero nome era Timothy Dexter, nato a New York nel 1957, è al tempo stesso affascinante e controversa: attore mancato, sprofondato nell’abisso di alcool e droghe in seguito a una delusione professionale, trovò “redenzione” nell’amore verso la natura e gli orsi, tanto forte quanto sottilmente morboso. Cambiò il proprio nome di nascita, inventandosi un’identità completamente nuova, dichiandosi orfano e nativo dell’Australia, portando avanti queste bugie anche con le persone a lui più vicine. Divenne celebre grazie alla sua attività di documentarista, creandosi un vero e proprio personaggio: eccentrico, teatrale, talvolta infantile, estremamente emotivo. 
Le mille facce di Timothy Treadwell emergono non solo da ciò che egli stesso girava con la videocamera, ma in egual misura dal contributo concreto di Herzog, ossia le interviste e soprattutto il commento con voce off. Il dialogo tra il cineasta e Jewel, a proposito della registrazione audio dei momenti della morte dell’ambientalista e della sua compagna (la videocamera era accesa ma oscurata dall’otturatore per una dimenticanza), è pregno di umanità e sinceramente straziante: Herzog riesce ad ascoltare, in cuffia, solo l’inizio della traccia; percepiamo chiaramente il suo shock nel sentire la voce della morte nelle urla delle vittime e nei grugniti dell’orso. La frase che egli dice a Jewel Palovak è emblematica e assai forte: “Non ascoltare mai questa registrazione, altrimenti diventerà l’elefante bianco che resterà nella tua stanza per tutta la vita” (il modo di dire indica qualcosa di molto prezioso ma al tempo stesso pesante come un fardello); la partecipazione di Werner è genuina, in quanto riconosce una parte di se stesso nella figura di Treadwell, che definisce Prince Valiant (il protagonista di un fumetto americano legato alla saga di Re Artù), dunque un guerriero nobile e valoroso, anche per le caratteristiche fisiche, come il caschetto di capelli biondi. 
Nel corso del narrato, si assiste a un vero e proprio cambiamento in Timothy, tramite le immagini e le parole del regista che sottolinea la differenza delle loro due visioni: l’uomo inizia una discesa verso la follia, nel suo protezionismo verso gli orsi, nel non vedere il pericolo in loro, umanizzandoli e ripetendo ossessivamente degli “I Love You” così insistiti da sembrare, a primo acchito, fittizi. Diventa dunque difficile comprendere dove finisca il realismo e inizi ad emergere il lato attoriale di Treadwell. Il dubbio viene chiarito dallo stesso Herzog, verso la fine del film: “L’attore aveva preso il sopravvento sul cineasta, ho già visto questa follia prima d’ora sul set. Lui però non sta combattendo contro un regista, bensì contro l’intera civilizzazione, il suo vero nemico”: chiarissimo il riferimento a Kinski, a cui Treadwell può essere avvicinato per molteplici motivi, e ancor più palese il richiamo ad Aguirre, in primis nel finale. 
Entrambe le opere, infatti, si concludono col protagonista ormai folle, Kinski in preda al delirio e circondato dalle scimmie (una delle sequenze più memorabili del cinema Herzoghiano) e Treadwell vittima della paranoia più cieca, in quella che fu la sua ultima ripresa prima di morire; lo vediamo insultare gli addetti del Parco nazionale, coloro con cui aveva collaborato per ben tredici anni, in preda all’ira, alla tristezza e alla sconfitta in una guerra che non poteva vincere, in primo luogo contro se stesso e poi contro la civiltà, della quale sentiva di non fare più parte. È evidente come ormai l’uomo si fosse immedesimato con l’animale, sentendosi egli stesso un grizzly, avvicinandosi a creature pericolose senza il minimo timore, certo del loro affetto e della comprensione del suo amore. Anche in questo le parole di Herzog, sull’inquadratura di un orso, probabilmente lo stesso che ha ucciso l’ambientalista e la sua donna, sono preziosissime: “Non ritengo esista un mondo degli orsi, in questo sguardo vedo solo la totale indifferenza della Natura e un sommario interesse verso il cibo”. 
Per il regista ci si trova di fronte a una Natura fredda, non compassionevole e in parte malvagia; una differenza notevole rispetto all’idealizzazione operata da Treadwell, che tratta gli orsi come bambini diventando egli stesso un infante incosciente. Il Principe Valiant che si schiera in difesa di Madre Natura e dei suoi figli ne esce dunque mortalmente sconfitto, nella sua irrazionale sfida contro il mondo civilizzato; ripensando a un film come Fitzcarraldo, si può constatare che cambia l’oggetto della battaglia ma il desiderio di fondo è il medesimo, ossia prendere il sopravvento sull’ambiente naturale che ci circonda.  
Grizzly Man si conclude con una serie di riflessioni da parte di amici e collaboratori dell’uomo ma, ancora una volta, le parole più significative provengono dall’inglese germanizzato di Werner: “Per Treadwell, tutto questo è stato un viaggio nella natura del suo Io e questo, per me, dà un senso alla sua vita e alla sua morte”; una frase fortissima, che ancor più di tante immagini espone la visione Herzoghiana dell’uomo che affronta la Natura in un faccia a faccia con se stesso. Inutile sottolineare quanto quest’uomo sia anche Herzog, che ha spesso rischiato la vita per girare le proprie opere, al di là di ogni convenzione filmica e talvolta etica.  
Pellicola controversa e incompresa, che ha suscitato numerose polemiche, è l'ennesima gemma di una filmografia che vede nell’eroe folle un protagonista dolente, a volte violento, ma sempre e comunque umano.  

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Speciale Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Grizzly Man
Anno: 2005
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Peter Zeitlinger
Musiche: Richard Thompson
Durata: 103'
Uscita in Italia: 24 Novembre 2006 
Interpreti principali: Timothy Treadwell, Werner Herzog, Jewel Palovak, Amie Huguenard, Carol Dexter

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