ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
  • HOME
  • REDAZIONE
  • LA VIE EN ROSE
  • FILM USCITI AL CINEMA
  • EUROCINEMA
  • CINEMA DAL MONDO
  • INTO THE PIT
  • VINTAGE COLLECTION
  • REVIVAL 60/70/80
  • ITALIA: TERZA VISIONE
  • AMERICA OGGI
  • ANIMAZIONE
  • TORINO FILM FESTIVAL
    • TORINO 31
    • TORINO 32
    • TORINO 33
    • TORINO 34-36-37
  • LOCARNO
    • LOCARNO 66-67-68
    • LOCARNO 69
    • LOCARNO 72-74-75
  • CANNES
    • CANNES 66
    • CANNES 67
    • CANNES 68
    • CANNES 69
  • VENEZIA
  • ALTRI FESTIVAL
  • SEZIONI VARIE
    • FILM IN TELEVISIONE
    • EXTRA
    • INTERVISTE
    • NEWS
    • ENGLISH/FRANÇAIS
  • SPECIAL WERNER HERZOG
  • SPECIAL ROMAN POLANSKI
  • ARCHIVIO DEI FILM RECENSITI
  • CONTATTI

HERZOG - Into the Inferno (Dentro l'inferno)

31/10/2016

0 Commenti

 
Foto
​Presentato poche settimane prima alla Festa del Cinema di Roma e uscito sulla piattaforma Netflix il 28 ottobre, Into the Inferno è un impressionante iter cinematografico che, a partire dagli uomini e dai loro legami ancestrali al fuoco, generatore e distruttore di vita, incapsula immagini magnetiche della forza fagocitante dei vulcani impressi nelle loro eruzioni, catalizzatori di mistiche credenze. Il derivato è un excursus dal taglio compartecipativo che cerca, allungando uno sguardo appassionato che riesce eppure a mantenere un importante distacco, di cogliere la qualità magica, primordiale che è ramificata nel concetto di natura stesso, in una tensione percepibile tra razionalità e pathos, senza mai riuscire, ovviamente, a posarsi definitivamente sull’uno piuttosto che sull’altro.  
Un’introduzione sonora maestosa e solenne conferisce all’opera l’aura sacra e simbolica del paganesimo spirituale, che si rivelerà essere l’oggetto sondabile e l’interesse primario di Werner Herzog nella missione documentaristica che lo ha nuovamente incontrato in una peregrinazione sistematica nelle isole Vanuatu, Oceano Pacifico.
​Non casualmente, il primo montaggio tra panoramiche vertiginose e close up sul magma sanguigno e pulsante si alternano attribuendo il “solito” - per il maestro tedesco -  primato ad una natura sconfinata che è in grado ancora di regolare, accompagnare, a volte soltanto lambire o invece dirigere le parabole umane delle tribù indigene (ma anche delle società più politicamente e gerarchicamente strutturate) che assegnano a un’assoluta potenza visiva del Dio Vulcano proprietà para-religiose e spirituali, generando fenomeni di percepito terrore reverenziale, momentanee esperienze extra-corporee e fedi radicate. Così il capo di una tribù australiana illustra come all’interno del cratere giaccia un vespaio di spiriti responsabili della detonazione della camera magmatica, colei che risale per liberarsi in una carica eruttiva distruttiva. 
Herzog indaga, dunque, lungi da intenti dichiaratamente informativi e muovendosi, sempre, come un funambolo, sulla divisione sottile che fa della realtà finzione (e viceversa), i rituali legati ai fenomeni vulcanici e, conscio di un’impossibilità onnicomprensiva connessa a una pretesa di verità o conoscenza, comunica un’impressione del mondo per abbozzi e sprazzi di interviste e tramite la voce fuori campo (la sua), ma soprattutto servendosi dell’immagine satura di un digitale acceso e vivo di contrasti del magma lucente e mortifero, che è abbagliante e seducente, dominante e stregato, più che macchia cromatica demoniaca da cui prendere le distanze. 
Al contrario, è Herzog stesso a viaggiare e a srotolare insieme allo spettatore, in maniera graduale e senza alcuna drammatizzazione, lo spettacolo luminescente della natura che viene avvicinata, democraticamente, dalla prospettiva scientifica del vulcanologo Clive Oppenheimer (non una novizia per il regista, che egli già conobbe durante le riprese di Encounters at the end of the world), al di là di meri dettagli conoscitivi, spaziando tra incursioni para-scientifiche (come l’ipotetica eruzione vulcanica che avrebbe messo a rischio l’intera razza umana millenni fa) e riprese sul campo di archeologi locali e non (dove l’interazione ironica tra colleghi che si coglie inonda lo spazio del dispiegamento della professione), mentre emerge sempre più limpido l’intento di captare, con encomiabile delicatezza e riecheggiando memorie di un romanticismo connaturato, forme e ispirazioni umane,  caratteri divinatori dell’esistenza. 
Herzog lo fa dando spazio a una coscienza del tutto metafisica dell’esperibile, con un approccio di certo più fenomenologico che investigativo in senso stretto, mentre ritaglia, significativamente, una parentesi sulla Corea del Nord e su quanto l’idolatria del dittatore sfoci in fenomeni ancora connessi a una sensazione sacrale e religiosa ancillare alla rivoluzione e a colui che la impugnò. Gli spiriti celesti che abitano il monte coreano pregarono affinché venisse inviato alla loro terra un essere illustre che promulgasse prosperità, materializzandosi poi nella figura di Kim Il-Sung. 
Herzog  è, insomma, conscio di come un’idea univoca che convogli materiali registrati, pensati, scritti sulla spregiudicatezza del tutto narcisistica della natura sia impraticabile, irriconoscibile, probabilmente impossibile; non v’è tentativo di giungere a una conclusione che non sia quella di una finzione che a sua volta si applichi alla realtà, la finzione cinematografica come quella dell’uomo sull’evidenza impenetrabile e mistificante dell’esistenza. Così l’opera si tramuta in una sorta di genealogia religiosa, laddove quest’ultima nasce dinnanzi allo scoglio invalicabile dell’incomprensibilità; e il Dio Vulcano condurrebbe, allora, a un’apocalisse-inceneritrice in grado di affermare nuovamente il suo indomabile potere. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Into the Inferno
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Interpreti principali: Werner Herzog, Clive Oppenheimer
​Fotografia: Peter Zeitlinger
Durata: 104’
Uscita italiana: 28 ottobre 2016

0 Commenti

HERZOG - La Soufrière: aspettando l’apocalisse

6/3/2015

0 Commenti

 
Immagine
La cultura tedesca è probabilmente quella che più di ogni altra ha saputo cogliere il nocciolo duro, l’essenza stessa del pensiero greco presocratico, vale a dire del sostrato conoscitivo e concettuale che costituisce il fondamento dell’Occidente. Hölderlin, Nietzsche, Heidegger sono alcune fra le figure più rilevanti ad avere evidenziato la decisiva importanza del pensiero cosmologico greco – sia come produzione poetica che filosofica – nella formazione linguistica, speculativa, politica ed etica dei popoli della compagine occidentale.
Anche nel cinema, non a caso, emerge con assoluta decisione il nome di un tedesco, Werner Herzog, come ultimo ed estremo nume tutelare di quella che fu la matrice originaria del nostro mondo. In tutti i suoi lavori documentari e in alcuni dei suoi più memorabili film narrativi – perlomeno quelli che, come Aguirre, Fitzcarraldo, Cobra Verde, Nosferatu (e in parte anche, sia pure con esiti alterni, Grido di pietra, Invincibile, Il cattivo tenente, Queen of the Desert), mettono in scena l’ambizione smisurata di un singolo – emerge inequivocabilmente il continuo riferimento ai valori, alla complessità e ai dilemmi della grecità antica.
Apolide per natura, più che per semplice vocazione, ricercatore instancabile dei confini estremi e inaccessibili della verità e dell’essere, Herzog sembra riecheggiare nella sua figura, al pari dei suoi personaggi visionari, emarginati e maledetti, il primo coro dell’Antigone di Sofocle, allorché viene descritta l’essenza dell’umano:

Di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia di più inquietante dell’uomo s’aderge. / Questi balza sul flutto schiumante / pel vento del sud invernale /e incrocia sulle creste / delle onde furiosamente spalancantisi. / Anche la più sublime divinità, la terra, / l’indistruttibile infaticabile, egli l’estenua […]. / Anche nel risuonar della parola / e nel tutto comprendere leggero come il vento / si ritrova, ed altresì nell’animo di dominar città. / E anche come sfuggire, ha pensato, l’esposizione ai dardi / dell’intemperie e degli spiacevoli geli. / Dappertutto aggirandosi, tutto esperendo per via, senza scampo, inesperto / perviene al nulla. / Dall’incombere, solo, della morte / con nessuna fuga può giammai difendersi, / pur se ad un male tenace gli sia riuscito abilmente di sfuggire. / Ottimamente esperto, il saper-fare / possedendo al di là della speranza, / cade talvolta in condizione vile / del tutto, altra ad eccelsa riesce. / Tra lo statuto fisso della terra / e il diritto giurato degli dei prosegue la sua via. / Dall’alto il luogo dominando, dal luogo escluso, / tale egli è, a cui sempre essente è il non-essente, / per amore del rischio. / Non divenga egli intimo del mio focolare, / né delle sue illusioni il mio sapere partecipe sia […]. (1)

Come sostiene Martin Heidegger riguardo ai versi riportati “L’uomo è, in una parola, tò deinótaton: ciò che vi è di più inquietante. Un modo siffatto di parlare dell’uomo lo coglie nei suoi estremi limiti e nelle scoscese profondità del suo essere. Questo aspetto scosceso ed estremo non è mai visibile agli occhi di chi si appaga della semplice descrizione e della mera constatazione dei fatti […].” (2)

1) Il testo dell’Antigone qui riportato fa riferimento alla traduzione/interpretazione che ne dà Martin Heidegger in Introduzione alla metafisica, tr. it., Mursia, Milano 1968, ed. economica Mursia, 1990, pp. 154-156.
2) M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 157.

Dal coro dell’Antigone non emerge però soltanto la dimensione primordiale dell’uomo, colta nel suo costitutivo antagonismo rispetto alla natura, la phýsis greca – un antagonismo che non implica una negazione della natura stessa, bensì la massima adesione alle sue intrinseche dinamiche conflittuali, a quell’orizzonte di cui la nascita e la morte sono gli estremi confini che si co-appartengono, all’assolutezza e profondità problematica dei suoi oscuri meccanismi vitali, allo squilibrio della dismisura, alla lotta perenne per la sopravvivenza in condizioni estreme – ma anche la possibilità che l’uomo stesso, all’opposto, abbracci la condizione addomesticata e pacifica della civiltà e della Legge, a partire dalla quale colui che ne rifiuti gli assunti e le responsabilità verrà respinto: “Non divenga egli intimo del mio focolare.”
Il focolare, la pólis, il vivere sociale e collettivo, l’equilibrio garantito dalla norma e dal divieto conducono l’umanità all’aggregazione regolata e coatta, priva di pericoli, ma sovente anche vuota di senso: il familiare in quanto differente per natura rispetto all’inquietante. Colui che respingerà la Legge, che non riconoscerà il diritto positivo del consorzio civile perderà il privilegio della cittadinanza, verrà bandito dalla comunità – rifiuto non di rado reciproco – e tornerà a errare nel mondo, privo di rifugio e conforto, come alle origini, ma animato dal bisogno primigenio di confrontarsi daccapo, perennemente, con la ricerca incessante della verità, che trova la propria ragion d’essere non tanto nell’irraggiungibile obiettivo, bensì nella propria attitudine etica, che nasce proprio dalla consapevolezza dell’inanità dello sforzo e della sua immensa bellezza fine a se stessa. Una verità che, partendo dal vocabolo greco che la designa, à-létheia (non-nascondimento, s-velamento), allontana la cristallinità della certezza piena, la luminosità dell’evidenza al di là di ogni possibile dubbio ed evoca, invece, la tensione problematica dell’essere delle cose e la sua complessità permeata dello scambio fra visibile e invisibile, della co-appartenenza reciproca di luce e zone d’ombra.
Gli smisurati e folli personaggi di Herzog, così come il regista stesso in prima persona, non hanno mai smesso questa ricerca, non sono mai venuti meno alla loro missione di “conquistatori dell’inutile”, di ricercatori di una verità “estatica” – come la definisce Herzog stesso – capace di trascendere i meri confini del fatto, del dato oggettivo, per raggiungere il sublime e terribile prodigio della rivelazione dell’essere. Per ciò stesso è inscritta nel loro destino la sconfitta, che, solo in quanto tale, riesce a far risplendere questi eroi indomabili quali tragici e sublimi titani perduti, gloriosi esseri senza pace né catarsi, sacrificati all’altare del loro terribile e personalissimo dáimon.

Picture
La Soufrière, documentario girato nel 1976, nell’imminenza di quella che avrebbe potuto essere una catastrofe naturale di proporzioni immani – il vulcano La Grande Soufrière, nell’isola di Guadalupa (Antille francesi), nella primavera di quello stesso anno, aveva dato allarmanti cenni di risveglio fino a portare, nei mesi successivi, le autorità a decidere di evacuare la parte meridionale dell’isola e in particolare il centro più importante, Basse Terre, nell’attesa di un’esplosione che avrebbe potuto corrispondere, secondo le stime degli scienziati, a un’intensità pari a quella di 5/6 bombe atomiche – costituisce, a un tempo, il film più estremo girato da Herzog, un lavoro che contiene in sé molti dei temi cari al regista bavarese, nonché una delle sue più notevoli riflessioni (successiva al momento della realizzazione del film e, forse, proprio per questo, ancora più riuscita, in quanto non programmatica, anche se assai di rado schematismo e rigidezza accompagnano l’idea che Herzog ha del cinema) sulle possibilità e i limiti dell’atto del riprendere la realtà nel suo farsi.

Fin dalle prime immagini, lo sguardo della mdp è dentro le cose, sull’isola, nella cittadina di Basse Terre: Herzog è attratto dall’abisso e non esita a scrutarlo. Quando l’attività del vulcano diviene intensa e l’apocalisse pare imminente, Herzog e i suoi due operatori, Lachman e Schmidt-Reitwein, perlustrano l’isola dall’alto in elicottero, ma presto vi fanno ritorno. Il cinema, per Herzog, non è mai finzione o approssimazione, ma sempre e solo impresa, titanica avventura, rischio non calcolato, sfida all’impossibile. 
Mentre l’esplosione annientatrice sembra approssimarsi, la mdp rivela come una città fantasma quello che fino a poco prima era un luogo vivo, dal quale gli abitanti sembrano essere stati rapiti da una forza misteriosa e aliena: semafori ancora funzionanti, insegne e segnali stradali perfettamente posizionati, negozi svuotati ma con i cartellini dei prezzi in bella mostra, abitazioni con televisori e frigoriferi accesi; manca solo l’uomo. Le vestigia di una civiltà moderna e improvvisamente scomparsa si mostrano in un silenzio innaturale, rotto, di quando in quando, dalla voce over di Herzog che fa da guida allo spettatore, talora descrivendo ciò che si mostra alla mdp, talora pennellando le suggestioni e le impressioni intime di un uomo che ha vissuto da protagonista l’esperienza, ma che ne parla, inevitabilmente, come di qualcosa di già compiuto, di irreversibilmente concluso. 
Le strade sono percorse da animali abbandonati – una scrofa coi suoi piccoli, un’asina col suo cucciolo, cani – finalmente liberi dal giogo dell’uomo, ma rimasti senza difesa rispetto all’incombere della natura: la mdp inquadra infatti anche la carcassa di un grosso cane ricoperto di mosche. La voce di Herzog informa inoltre lo spettatore che migliaia di serpenti, che vivevano nel folto della macchia sulle pendici del vulcano, spaventati dalle potenti scosse sono scesi fino al mare dove sono tutti annegati. Sull’isola non vi è più traccia di cibo né di possibilità di salvezza, eppure la vita continua, anche se circondata dalla morte e dall’abbandono, mentre la sommità del monte, coperta di spessi strati di vapore solforoso, continua imperterrita a incombere come un demone di epoche remote.
Gli animali non sono però gli unici esseri viventi rimasti sull’isola: tre uomini hanno deciso di non fuggire, per rimanere ad aspettare la fine, ed Herzog decide di incontrarli. I tre rappresentano l’altra faccia della medaglia della poetica herzoghiana, oscillante fra i poli opposti, ma complementari, di un rapporto con l’assoluto e con la totalità scandito dal superamento iperbolico del limite, dalla sfida folle e visionaria all’estremo oppure, al contrario, caratterizzato dalla quieta pacatezza e rassegnazione di chi già conosce o intuisce la propria disfatta di fronte al mistero del mondo. Si tratta delle due grandi tipologie archetipiche della poetica di Herzog: da un lato i personaggi superomistici che si confrontano con la propria sconfinata brama di potere, conquista e conoscenza di fronte all’altrettanto sconfinato enigma dell’assoluto (come Aguirre o Fitzcarraldo), dall’altro i personaggi che già hanno perso tutto, che, letteralmente, non appartengono più all’ambito dell’avere, ma a quello dell’essere, in quanto ciò che è rimasto loro non è altro che la nuda esistenza (come Kaspar Hauser, Stroszek o Woyzeck). 

Picture
Se il regista, con la sua presenza dietro e davanti alla mdp, ricopre il ruolo eroico di colui che, assieme ai suoi compagni, sfida la natura e le sue leggi rischiando la vita, i tre autoctoni propongono una sfida differente alla medesima natura e alle medesime leggi, con un atteggiamento diverso, quello di una saggezza ancestrale marcata dal pre-possesso intuitivo dello scacco dell’uomo di fronte all’arcana potenza del cosmo: tenui e rassegnati perché lungimiranti, inattuali, emarginati e dimenticati, antieroici ma colmi della dignità degli uomini liberi, pregni di saggezza e di vita anche se prossimi alla fine, giacché sanno che l’uomo “Dall’incombere, solo, della morte, con nessuna fuga può giammai difendersi.”
La Soufrière esprime, a tal proposito, un gustoso e a tratti grottesco paradosso, giacché l’apocalisse annunciata e attesa non vi sarà. Il vulcano, inspiegabilmente dal punto di vista scientifico, non esploderà – lo farà, senza vittime, tre anni più tardi – e questo rende il film un curioso e straniante lavoro di sapore beckettiano, valore aggiunto di un’opera magnifica ed estrema, non solo perché il pericolo incombente è comunque quanto mai prossimo e reale, ma soprattutto perché l’attesa della fine diventa occasione per lo sguardo di posarsi sull’incantata bellezza e la sovrumana potenza della natura, per sancire la vittoria del significante sul significato.
Herzog inserisce nel film alcune immagini fotografiche della catastrofica esplosione del vulcano La Pelée, avvenuta nel 1902 sulla vicina isola della Martinica, che aveva raso al suolo la cittadina di Saint-Pierre, uccidendo trentamila persone. Le fotografie di un evento già avvenuto e concluso, e che quindi non ha più luogo, echi immobili dal regno oscuro del passato, tracce di un mondo sepolto, dimenticato e fantastico fanno da controcanto al presente delle riprese, che invece mostrano un luogo privo di evento e che divengono, tramite l’attesa indefinita, anch’esse immagini sospese di una situazione immobilizzata, contemplazione del tempo puro, immagine-tempo priva di cronologia e di scansione degli eventi, verità estatica non zavorrata dal predominio del senso.
Il film si conclude con il riconoscimento, da parte di Herzog, della propria sconfitta: “Per noi, le riprese per questo film hanno assunto un aspetto patetico, e così tutto è finito con un nulla di fatto e nel ridicolo più completo. Ora diventerà il documentario di una catastrofe inevitabile che non si verificò.” Il fallimento della missione diviene però, in questo caso, fatalmente, il trionfo del cinema.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Anno: 1976
Durata: 30’
Regia: Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein, Edward Lachman
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Musiche: Rachmaninov, Brahms, Mendelssohn, Wagner

0 Commenti

HERZOG - Into the Abyss, all'inferno senza ritorno

17/7/2013

0 Commenti

 
Immagine
Ciò che ha fatto di Werner Herzog uno dei più grandi registi (e documentaristi) del suo/nostro tempo è senza ombra di dubbio la sfrontatezza e l’assenza di barriere ideologiche, l’ardore nello spingersi ai confini del mondo e la fame di visioni che suonassero inedite, a loro modo scioccanti, in qualche modo sempre e comunque non conciliate. Con alla base un’idea sovversiva, uno squarcio sul mondo, una domanda abissale, una provocazione di qualsiasi genere. Un filo rosso che lega tutti i suoi lavori e che ha contribuito a illuminare la strada creativa di un cineasta unico e oggi più indispensabile che mai, puntualmente al suo posto a sorprenderci tutti ogni volta, con i suoi esercizi di libertà sconfinata e la sua ricerca radicale del sublime. 
Qui però Herzog esce dalla caverna appena sondata e dai suoi sogni dimenticati, dimentica i primi uomini della storia dell’umanità e si concentra per colmo di polarità su alcune tra le più abbrutite personalità contemporanee che si potrebbero immaginare: i condannati a morte. Un abisso da scrutare nietzschianamente, per un occhio clinico come quello di Herzog, senza paura di un tagliente riflesso di ritorno che costringa regista e spettatori a fare i conti con loro stessi e con i propri lati oscuri più sepolti, con le zone d’ombra che il nostro quotidiano provvede a rimuovere. 
Senza paura, Herzog raccoglie la sfida di un doc su degli individui nel braccio della morte e ne fa l’ennesima riflessione antropologica impossibile per chiunque altro; uno spaccato su vite cristallizzate nella dimensione glaciale della custodia che precede un’esecuzione, in cui la percezione già di suo estremamente soggettiva del tempo della vita è ancor più alterata da uno stato psicofisico di sospensione liminale e dalla percezione di un destino segnato. Una dicotomia straziante, esemplificata fin dal sottotitolo “A tale of love. A tale of life”, contrapposizione ossimorica di due universi dialoganti, proposti dall’autore tedesco in una condizione di vicinanza tale da mozzare il respiro. 
E poi proprio il respiro stesso della vita, le lacrime, le scelte sbagliate, la preziosità di una qualsiasi esistenza, anche la più turpe: elementi valoriali che in fondo al tunnel tracciano il sentiero lungo il quale ogni cosa è comunque illuminata, a riprova dell’abbagliante umanismo herzoghiano, incrollabile nonostante la sua abitudine a flirtare col nichilismo più nero e sebbene questo, come ha scritto il compianto Roger Ebert, sia il suo film più triste in assoluto, spietato tanto quanto quel Grizzly Man, altro grande capolavoro dell’ultimo Herzog. La cultura criminosa tutta americana della morte indotta è eticamente rifiutata come scelta antiumana, priva di qualsiasi fondamento realistico, figlia di un atteggiamento che negli anni non ha fatto che relegare la compassione e la pietà in spazi sempre più irraggiungibili per l’umana comune portata, contribuendo in prima linea, come molte altre pratiche barbare, allo sfaldarsi dei rapporti di natura tra gli uomini, turbando la loro rasserenata e armoniosa condizione primigenia. Lo sguardo di Herzog, che in Into the Abyss sa assumere anche la clinica asetticità di un referto di polizia, va d’altronde sempre riferito ai primordi dell’esperienza umana su questo pianeta, in fede a una vocazione ancestrale che è categoria intellettuale ed estetica principale, punto di partenza e puntuale, contemporaneo punto d’arrivo. 
Un film squassante e destabilizzante, Into the Abyss. Dall’inizio alla fine, da quelle croci con nessun nome sopra ma solo numeri (immagine di potenza inarrivabile) fino all’epilogo. Tra interviste ai parenti e ai poliziotti, le sciagurate vite criminali di Michael Perry e Jason Burkett emergono molto più che in filigrana, avvolgendo lo spettatore nelle loro spire mortifere. Il documentario si snoda come un excursus, un indagine a tappe da investigare scavando oltre la superficie e ancora più a fondo. “The answer is out the door” e di sicuro la risposta non può stare nelle parole dell’ossuto, ghignante ed emaciato Perry o nelle cavità impressionanti dei suoi occhi cerchiati di nero. Così come, al cospetto di tutti quei clangori metallici provocati dai carcerieri che aprono, chiudono e sbattono porte in fuori campo mentre le interviste scorrono, il mondo non può che arrestarsi, silente, a riflettere sulle sue macchie e le sue colpe collettive. 
Nessun “glimmer of  hope”: l’alba della libertà è adesso anche herzoghianamente lontanissima, come non lo è mai stata. Nessun baluginio all’orizzonte, nessun lampo sfocato, neanche minimo. Resta solo un ultimo, residuale laicismo umanizzato, cui aggrapparsi per non lasciarsi travolgere dal mare cieco della violenza e dell’intolleranza più disumana, una dichiarazione testamentaria da stringere al cuore: “Ti rispetto come essere umano e penso che gli esseri umani non debbano essere uccisi”.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Into the Abyss
Anno: 2011
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Peter Zeitlinger
Musiche: Mark Degli Antoni
Durata: 105’
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Werner Herzog, Richard Lopez, Michael Perry, Jason Burkett

0 Commenti

HERZOG – L'ignoto spazio profondo, il reale e la sua illusione

12/7/2013

0 Commenti

 
Immagine
Werner Herzog al limite, ancora una volta: stavolta il pretesto è un “fantasy science fiction”, genere di per sé deputato a scavalcare ogni frontiera, seppur in un'ottica speculativa e perciò apparentemente distante dallo sguardo sempre radicato nella realtà tipico del cineasta tedesco. In realtà, se oggi un limite è ravvisabile nella fantascienza, è proprio perché troviamo difficile astrarci dal reale, e non riusciamo più a far volare la fantasia verso un impossibile altrove. Il film, da questo punto di vista, è uno dei più geniali e poetici canti del fallimento di un'umanità smarrita, cui Herzog sembra fornire nuove possibilità attraverso una diversificazione delle prospettive. 
Lo sguardo spiritato del grandissimo Brad Dourif è lì a farci da monito rispetto a ciò che non si è riusciti a costruire nemmeno con l'ausilio di un'avanzata tecnologia aliena – l'attore interpreta infatti un transfuga di Alpha Centaury, che rievoca il suo arrivo sul nostro pianeta e il suo vano tentativo di mettere il proprio sapere al servizio della nuova patria. Ma la sua voce è anche la nostra guida lungo il viaggio impossibile degli astronauti terrestri verso l'ignoto spazio profondo, in cerca di nuovi mondi abitabili, in vista di un futuro in cui la Terra non sarà più in grado di accogliere la vita. Disillusione e speranza insieme, quindi: un approccio duale alla materia che è l'asse portante dell'intera operazione.
Herzog mescola così materiali di repertorio, pescati dall'archivio della NASA (ringraziata per il suo “senso poetico”), insieme a spettacolari sequenze di sub che esplorano i mari sotto la calotta antartica, e interviste a scienziati ed esperti di ingegneria spaziale, che formulano interessanti ipotesi futuribili. Tutti elementi che ci riportano immediatamente alla concretezza del reale, a un'idea di scienza che è matematica, che si esprime attraverso intrichi di cavi, plastica e metallo, quasi una sorta di contrappasso al caos degli scenari in cui si esprime lo stesso Brad Dourif. Ma, come ricorda uno degli scienziati, il Caos non è necessariamente un elemento negativo, ma una possibilità che apre nuove porte; così il viaggio degli astronauti diventa quasi una danza di corpi liberati dal peso della gravità, che si librano negli spazi angusti delle navicelle e finiscono naturalmente per confluire nell'incredibile forza espressiva delle sequenze subacquee. A rivederlo oggi colpisce soprattutto la preveggenza di chi aveva quasi prefigurato l'incredibile canto della “stranezza spaziale” di David Bowie da parte del Colonnello Chris Hadfield sulla Stazione Spaziale Internazionale. Segno che l'idea è quella giusta, e che l'arte riesce sempre a reinterpretare la realtà, anticipandola.
Coadiuvato dai suggestivi canti del coro sardo “Cuncordu e Tenore” e dal violoncello del musicista olandese Ernst Reijseger, Herzog rinnova così lo spazio e crea l'illusione di un mondo realmente alieno: il regista sembra ammonirci che la nostra incapacità di vedere la finzione e di sognare l'altrove ci abbia fatto smarrire quel “senso poetico” che ogni giorno ci pone di fronte a un mondo capace di contenere al suo interno ulteriori universi. Ecco dunque che gli elementi del reale si trasfigurano e assumono una caratura, davvero, aliena e che il mondo abbandonato dagli extraterrestri diventa la possibile nuova casa dell'umanità. Lo sguardo dello spettatore, apparentemente costretto dagli elementi del reale, può finalmente perdersi e sognare l'altrove, attraverso le tappe scandite da una struttura narrativa volutamente disarticolata, che si prende numerose pause, come nel 2001 kubrickiano, per lasciare il tempo alla mente di assaporare la forza dell'esperienza.
Il che, al di là degli aspetti squisitamente poetici, diventa anche una riflessione sulla capacità ingannevole dell'immagine e sulle sue possibilità mitopoietiche: in breve, sui limiti della rappresentazione. Herzog, in fondo, è un regista troppo intelligente per ignorare le possibilità teoriche di un lavoro che a tratti sembra un divertissement d'autore. Al contrario, pochi registi possiedono oggi una tale lucidità speculativa; così il film diventa anche un saggio sulla ricombinazione degli elementi e sulle sperimentazioni del linguaggio per immagini. Un lavoro comunque non accademico, ma capace anzi di creare risonanze inaspettate, attraverso inserti ora malinconici (la frustrazione dell'alieno e gli scenari desolati della Terra investiti di rifiuti), ora ironici (lo starnuto dello scienziato), ora squisitamente satirici, laddove Herzog sembra ricordarci come sia stata la prospettiva economicista (fra le teorie si parla di supermercati spaziali e gli stessi alieni, arrivati sulla Terra, vogliono costruire un'enorme area commerciale) a condannarci all'aridità di pensiero.
La via verso l'ignoto spazio profondo, quindi, descrive anche e soprattutto un viaggio addentro all'umanità, ai suoi errori, ai suoi sogni e alle sue speranze. Così un divertissement diventa un autentico capolavoro.

Davide Di Giorgio

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: The Wild Blue Yonder
Anno: 2005
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Henry Kaiser, Tanja Koop, Klaus Scheurich
Musiche: Ernst Reijseger, Mola Sylla, Concordu e Tenore
Durata: 81'
Uscita in Italia: 18 Novembre 2005
Interpreti principali: Brad Dourif, Capitano Donald Williams, Dr. Ellen Baker, Franklin Chang-Diaz, Roger Diehl.

0 Commenti

HERZOG - Grizzly Man, il principe degli orsi

8/7/2013

0 Commenti

 
Immagine
Grizzly Man, film documentario del 2005 sull’ambientalista americano Timothy Treadwell, può essere considerato tra i lavori più rappresentativi dell’intera poetica di Werner Herzog, nella raffigurazione di una Natura fondamentalmente indifferente e ostile e di un uomo che si trasforma in eroe folle. La pellicola si colloca, cronologicamente, tra Il Diamante Bianco (2004), che narra della rischiosa spedizione in dirigibile nella Guyana dell’ingegnere aereonautico Graham Dorrington, e L’Ignoto Spazio Profondo (2005 ), nel quale un alieno dalle sembianze umane e la sua gente approdano sulla Terra, in fuga dal proprio pianeta morente: un filo rosso palese, sia nella rappresentazione di colui che sfida se stesso e le forze di una Natura possente, sia nell’essere diverso, alieno, “altro”. 
In Grizzly Man, i maggiori tòpoi del cinema del regista tedesco si manifestano in tutta la loro pienezza, rimandando a titoli ormai leggendari come Aguirre Furore di Dio e Fitzcarraldo: Treadwell può essere considerato una sorta di alter ego irrazionale di Herzog, così come lo erano i personaggi interpretati da Kinski; in questo caso la forma documentaristica, e il ruolo del regista in quanto voce narrante, sottolineano le affinità e le differenze tra due uomini dominati dalla stessa forza, ma in modi a volte radicalmente opposti.    
Timothy Treadwell dedicò tredici estati della sua vita agli orsi, nel Parco Nazionale di Katmai, in Alaska. Dal 2000 iniziò a filmare sia se stesso che gli animali attorno a lui; nel footage da lui girato, che dà vita a circa il 70% del film, dichiarava di essere solo, mentre in realtà era spesso accompagnato dalla fidanzata, Amie Huguenard: i due morirono nel 2003, sbranati da un grizzly. L’idea alla base dell’opera non nacque da Herzog bensì da Jewel Palovak, ex compagna di Treadwell e membro del gruppo Grizzly People: il regista accettò sia per l’interesse verso il personaggio che per ragioni economiche, in quanto il lavoro gli offrì l’input per una fruttuosa collaborazione con Discovery Channel. 
La figura di Treadwell, il cui vero nome era Timothy Dexter, nato a New York nel 1957, è al tempo stesso affascinante e controversa: attore mancato, sprofondato nell’abisso di alcool e droghe in seguito a una delusione professionale, trovò “redenzione” nell’amore verso la natura e gli orsi, tanto forte quanto sottilmente morboso. Cambiò il proprio nome di nascita, inventandosi un’identità completamente nuova, dichiandosi orfano e nativo dell’Australia, portando avanti queste bugie anche con le persone a lui più vicine. Divenne celebre grazie alla sua attività di documentarista, creandosi un vero e proprio personaggio: eccentrico, teatrale, talvolta infantile, estremamente emotivo. 
Le mille facce di Timothy Treadwell emergono non solo da ciò che egli stesso girava con la videocamera, ma in egual misura dal contributo concreto di Herzog, ossia le interviste e soprattutto il commento con voce off. Il dialogo tra il cineasta e Jewel, a proposito della registrazione audio dei momenti della morte dell’ambientalista e della sua compagna (la videocamera era accesa ma oscurata dall’otturatore per una dimenticanza), è pregno di umanità e sinceramente straziante: Herzog riesce ad ascoltare, in cuffia, solo l’inizio della traccia; percepiamo chiaramente il suo shock nel sentire la voce della morte nelle urla delle vittime e nei grugniti dell’orso. La frase che egli dice a Jewel Palovak è emblematica e assai forte: “Non ascoltare mai questa registrazione, altrimenti diventerà l’elefante bianco che resterà nella tua stanza per tutta la vita” (il modo di dire indica qualcosa di molto prezioso ma al tempo stesso pesante come un fardello); la partecipazione di Werner è genuina, in quanto riconosce una parte di se stesso nella figura di Treadwell, che definisce Prince Valiant (il protagonista di un fumetto americano legato alla saga di Re Artù), dunque un guerriero nobile e valoroso, anche per le caratteristiche fisiche, come il caschetto di capelli biondi. 
Nel corso del narrato, si assiste a un vero e proprio cambiamento in Timothy, tramite le immagini e le parole del regista che sottolinea la differenza delle loro due visioni: l’uomo inizia una discesa verso la follia, nel suo protezionismo verso gli orsi, nel non vedere il pericolo in loro, umanizzandoli e ripetendo ossessivamente degli “I Love You” così insistiti da sembrare, a primo acchito, fittizi. Diventa dunque difficile comprendere dove finisca il realismo e inizi ad emergere il lato attoriale di Treadwell. Il dubbio viene chiarito dallo stesso Herzog, verso la fine del film: “L’attore aveva preso il sopravvento sul cineasta, ho già visto questa follia prima d’ora sul set. Lui però non sta combattendo contro un regista, bensì contro l’intera civilizzazione, il suo vero nemico”: chiarissimo il riferimento a Kinski, a cui Treadwell può essere avvicinato per molteplici motivi, e ancor più palese il richiamo ad Aguirre, in primis nel finale. 
Entrambe le opere, infatti, si concludono col protagonista ormai folle, Kinski in preda al delirio e circondato dalle scimmie (una delle sequenze più memorabili del cinema Herzoghiano) e Treadwell vittima della paranoia più cieca, in quella che fu la sua ultima ripresa prima di morire; lo vediamo insultare gli addetti del Parco nazionale, coloro con cui aveva collaborato per ben tredici anni, in preda all’ira, alla tristezza e alla sconfitta in una guerra che non poteva vincere, in primo luogo contro se stesso e poi contro la civiltà, della quale sentiva di non fare più parte. È evidente come ormai l’uomo si fosse immedesimato con l’animale, sentendosi egli stesso un grizzly, avvicinandosi a creature pericolose senza il minimo timore, certo del loro affetto e della comprensione del suo amore. Anche in questo le parole di Herzog, sull’inquadratura di un orso, probabilmente lo stesso che ha ucciso l’ambientalista e la sua donna, sono preziosissime: “Non ritengo esista un mondo degli orsi, in questo sguardo vedo solo la totale indifferenza della Natura e un sommario interesse verso il cibo”. 
Per il regista ci si trova di fronte a una Natura fredda, non compassionevole e in parte malvagia; una differenza notevole rispetto all’idealizzazione operata da Treadwell, che tratta gli orsi come bambini diventando egli stesso un infante incosciente. Il Principe Valiant che si schiera in difesa di Madre Natura e dei suoi figli ne esce dunque mortalmente sconfitto, nella sua irrazionale sfida contro il mondo civilizzato; ripensando a un film come Fitzcarraldo, si può constatare che cambia l’oggetto della battaglia ma il desiderio di fondo è il medesimo, ossia prendere il sopravvento sull’ambiente naturale che ci circonda.  
Grizzly Man si conclude con una serie di riflessioni da parte di amici e collaboratori dell’uomo ma, ancora una volta, le parole più significative provengono dall’inglese germanizzato di Werner: “Per Treadwell, tutto questo è stato un viaggio nella natura del suo Io e questo, per me, dà un senso alla sua vita e alla sua morte”; una frase fortissima, che ancor più di tante immagini espone la visione Herzoghiana dell’uomo che affronta la Natura in un faccia a faccia con se stesso. Inutile sottolineare quanto quest’uomo sia anche Herzog, che ha spesso rischiato la vita per girare le proprie opere, al di là di ogni convenzione filmica e talvolta etica.  
Pellicola controversa e incompresa, che ha suscitato numerose polemiche, è l'ennesima gemma di una filmografia che vede nell’eroe folle un protagonista dolente, a volte violento, ma sempre e comunque umano.  

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Speciale Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Grizzly Man
Anno: 2005
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Peter Zeitlinger
Musiche: Richard Thompson
Durata: 103'
Uscita in Italia: 24 Novembre 2006 
Interpreti principali: Timothy Treadwell, Werner Herzog, Jewel Palovak, Amie Huguenard, Carol Dexter

0 Commenti
    - SPECIAL -

    WERNER HERZOG,
    OLTRE IL CONFINE
    Immagine

    CATEGORIE
    DELLA SEZIONE

    Tutto
    Aguirre Furore Di Dio
    Anche I Nani Hanno Cominciato Da Piccoli
    Brad Dourif
    Bruno Ganz
    Bruno S.
    Claudia Cardinale
    Cuore Di Vetro
    Documentari
    Dove Sognano Le Formiche Verdi
    Encounters At The End Of The World
    Eva Mattes
    Fitzcarraldo
    Grizzly Man
    Into The Abyss
    Into The Inferno
    Invincibile
    Isabelle Adjani
    Klaus Kinski
    La Ballata Di Stroszek
    La Soufrière
    L'enigma Di Kaspar Hauser
    L'ignoto Spazio Profondo
    Michael Shannon
    My Son My Son What Have Ye Done
    Nosferatu
    Tim Roth
    Willem Dafoe
    Woyzeck

    Feed RSS

    SEGUI ODG SU
Powered by Create your own unique website with customizable templates.