ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
  • HOME
  • REDAZIONE
  • LA VIE EN ROSE
  • FILM USCITI AL CINEMA
  • EUROCINEMA
  • CINEMA DAL MONDO
  • INTO THE PIT
  • VINTAGE COLLECTION
  • REVIVAL 60/70/80
  • ITALIA: TERZA VISIONE
  • AMERICA OGGI
  • ANIMAZIONE
  • TORINO FILM FESTIVAL
    • TORINO 31
    • TORINO 32
    • TORINO 33
    • TORINO 34-36-37
  • LOCARNO
    • LOCARNO 66-67-68
    • LOCARNO 69
    • LOCARNO 72-74-75
  • CANNES
    • CANNES 66
    • CANNES 67
    • CANNES 68
    • CANNES 69
  • VENEZIA
  • ALTRI FESTIVAL
  • SEZIONI VARIE
    • FILM IN TELEVISIONE
    • EXTRA
    • INTERVISTE
    • NEWS
    • ENGLISH/FRANÇAIS
  • SPECIAL WERNER HERZOG
  • SPECIAL ROMAN POLANSKI
  • ARCHIVIO DEI FILM RECENSITI
  • CONTATTI

HERZOG - Into the Inferno (Dentro l'inferno)

31/10/2016

0 Comments

 
Foto
​Presentato poche settimane prima alla Festa del Cinema di Roma e uscito sulla piattaforma Netflix il 28 ottobre, Into the Inferno è un impressionante iter cinematografico che, a partire dagli uomini e dai loro legami ancestrali al fuoco, generatore e distruttore di vita, incapsula immagini magnetiche della forza fagocitante dei vulcani impressi nelle loro eruzioni, catalizzatori di mistiche credenze. Il derivato è un excursus dal taglio compartecipativo che cerca, allungando uno sguardo appassionato che riesce eppure a mantenere un importante distacco, di cogliere la qualità magica, primordiale che è ramificata nel concetto di natura stesso, in una tensione percepibile tra razionalità e pathos, senza mai riuscire, ovviamente, a posarsi definitivamente sull’uno piuttosto che sull’altro.  
Un’introduzione sonora maestosa e solenne conferisce all’opera l’aura sacra e simbolica del paganesimo spirituale, che si rivelerà essere l’oggetto sondabile e l’interesse primario di Werner Herzog nella missione documentaristica che lo ha nuovamente incontrato in una peregrinazione sistematica nelle isole Vanuatu, Oceano Pacifico.
​Non casualmente, il primo montaggio tra panoramiche vertiginose e close up sul magma sanguigno e pulsante si alternano attribuendo il “solito” - per il maestro tedesco -  primato ad una natura sconfinata che è in grado ancora di regolare, accompagnare, a volte soltanto lambire o invece dirigere le parabole umane delle tribù indigene (ma anche delle società più politicamente e gerarchicamente strutturate) che assegnano a un’assoluta potenza visiva del Dio Vulcano proprietà para-religiose e spirituali, generando fenomeni di percepito terrore reverenziale, momentanee esperienze extra-corporee e fedi radicate. Così il capo di una tribù australiana illustra come all’interno del cratere giaccia un vespaio di spiriti responsabili della detonazione della camera magmatica, colei che risale per liberarsi in una carica eruttiva distruttiva. 
Herzog indaga, dunque, lungi da intenti dichiaratamente informativi e muovendosi, sempre, come un funambolo, sulla divisione sottile che fa della realtà finzione (e viceversa), i rituali legati ai fenomeni vulcanici e, conscio di un’impossibilità onnicomprensiva connessa a una pretesa di verità o conoscenza, comunica un’impressione del mondo per abbozzi e sprazzi di interviste e tramite la voce fuori campo (la sua), ma soprattutto servendosi dell’immagine satura di un digitale acceso e vivo di contrasti del magma lucente e mortifero, che è abbagliante e seducente, dominante e stregato, più che macchia cromatica demoniaca da cui prendere le distanze. 
Al contrario, è Herzog stesso a viaggiare e a srotolare insieme allo spettatore, in maniera graduale e senza alcuna drammatizzazione, lo spettacolo luminescente della natura che viene avvicinata, democraticamente, dalla prospettiva scientifica del vulcanologo Clive Oppenheimer (non una novizia per il regista, che egli già conobbe durante le riprese di Encounters at the end of the world), al di là di meri dettagli conoscitivi, spaziando tra incursioni para-scientifiche (come l’ipotetica eruzione vulcanica che avrebbe messo a rischio l’intera razza umana millenni fa) e riprese sul campo di archeologi locali e non (dove l’interazione ironica tra colleghi che si coglie inonda lo spazio del dispiegamento della professione), mentre emerge sempre più limpido l’intento di captare, con encomiabile delicatezza e riecheggiando memorie di un romanticismo connaturato, forme e ispirazioni umane,  caratteri divinatori dell’esistenza. 
Herzog lo fa dando spazio a una coscienza del tutto metafisica dell’esperibile, con un approccio di certo più fenomenologico che investigativo in senso stretto, mentre ritaglia, significativamente, una parentesi sulla Corea del Nord e su quanto l’idolatria del dittatore sfoci in fenomeni ancora connessi a una sensazione sacrale e religiosa ancillare alla rivoluzione e a colui che la impugnò. Gli spiriti celesti che abitano il monte coreano pregarono affinché venisse inviato alla loro terra un essere illustre che promulgasse prosperità, materializzandosi poi nella figura di Kim Il-Sung. 
Herzog  è, insomma, conscio di come un’idea univoca che convogli materiali registrati, pensati, scritti sulla spregiudicatezza del tutto narcisistica della natura sia impraticabile, irriconoscibile, probabilmente impossibile; non v’è tentativo di giungere a una conclusione che non sia quella di una finzione che a sua volta si applichi alla realtà, la finzione cinematografica come quella dell’uomo sull’evidenza impenetrabile e mistificante dell’esistenza. Così l’opera si tramuta in una sorta di genealogia religiosa, laddove quest’ultima nasce dinnanzi allo scoglio invalicabile dell’incomprensibilità; e il Dio Vulcano condurrebbe, allora, a un’apocalisse-inceneritrice in grado di affermare nuovamente il suo indomabile potere. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Into the Inferno
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Interpreti principali: Werner Herzog, Clive Oppenheimer
​Fotografia: Peter Zeitlinger
Durata: 104’
Uscita italiana: 28 ottobre 2016

0 Comments

HERZOG - La Soufrière: aspettando l’apocalisse

6/3/2015

0 Comments

 
Immagine
La cultura tedesca è probabilmente quella che più di ogni altra ha saputo cogliere il nocciolo duro, l’essenza stessa del pensiero greco presocratico, vale a dire del sostrato conoscitivo e concettuale che costituisce il fondamento dell’Occidente. Hölderlin, Nietzsche, Heidegger sono alcune fra le figure più rilevanti ad avere evidenziato la decisiva importanza del pensiero cosmologico greco – sia come produzione poetica che filosofica – nella formazione linguistica, speculativa, politica ed etica dei popoli della compagine occidentale.
Anche nel cinema, non a caso, emerge con assoluta decisione il nome di un tedesco, Werner Herzog, come ultimo ed estremo nume tutelare di quella che fu la matrice originaria del nostro mondo. In tutti i suoi lavori documentari e in alcuni dei suoi più memorabili film narrativi – perlomeno quelli che, come Aguirre, Fitzcarraldo, Cobra Verde, Nosferatu (e in parte anche, sia pure con esiti alterni, Grido di pietra, Invincibile, Il cattivo tenente, Queen of the Desert), mettono in scena l’ambizione smisurata di un singolo – emerge inequivocabilmente il continuo riferimento ai valori, alla complessità e ai dilemmi della grecità antica.
Apolide per natura, più che per semplice vocazione, ricercatore instancabile dei confini estremi e inaccessibili della verità e dell’essere, Herzog sembra riecheggiare nella sua figura, al pari dei suoi personaggi visionari, emarginati e maledetti, il primo coro dell’Antigone di Sofocle, allorché viene descritta l’essenza dell’umano:

Di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia di più inquietante dell’uomo s’aderge. / Questi balza sul flutto schiumante / pel vento del sud invernale /e incrocia sulle creste / delle onde furiosamente spalancantisi. / Anche la più sublime divinità, la terra, / l’indistruttibile infaticabile, egli l’estenua […]. / Anche nel risuonar della parola / e nel tutto comprendere leggero come il vento / si ritrova, ed altresì nell’animo di dominar città. / E anche come sfuggire, ha pensato, l’esposizione ai dardi / dell’intemperie e degli spiacevoli geli. / Dappertutto aggirandosi, tutto esperendo per via, senza scampo, inesperto / perviene al nulla. / Dall’incombere, solo, della morte / con nessuna fuga può giammai difendersi, / pur se ad un male tenace gli sia riuscito abilmente di sfuggire. / Ottimamente esperto, il saper-fare / possedendo al di là della speranza, / cade talvolta in condizione vile / del tutto, altra ad eccelsa riesce. / Tra lo statuto fisso della terra / e il diritto giurato degli dei prosegue la sua via. / Dall’alto il luogo dominando, dal luogo escluso, / tale egli è, a cui sempre essente è il non-essente, / per amore del rischio. / Non divenga egli intimo del mio focolare, / né delle sue illusioni il mio sapere partecipe sia […]. (1)

Come sostiene Martin Heidegger riguardo ai versi riportati “L’uomo è, in una parola, tò deinótaton: ciò che vi è di più inquietante. Un modo siffatto di parlare dell’uomo lo coglie nei suoi estremi limiti e nelle scoscese profondità del suo essere. Questo aspetto scosceso ed estremo non è mai visibile agli occhi di chi si appaga della semplice descrizione e della mera constatazione dei fatti […].” (2)

1) Il testo dell’Antigone qui riportato fa riferimento alla traduzione/interpretazione che ne dà Martin Heidegger in Introduzione alla metafisica, tr. it., Mursia, Milano 1968, ed. economica Mursia, 1990, pp. 154-156.
2) M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 157.

Dal coro dell’Antigone non emerge però soltanto la dimensione primordiale dell’uomo, colta nel suo costitutivo antagonismo rispetto alla natura, la phýsis greca – un antagonismo che non implica una negazione della natura stessa, bensì la massima adesione alle sue intrinseche dinamiche conflittuali, a quell’orizzonte di cui la nascita e la morte sono gli estremi confini che si co-appartengono, all’assolutezza e profondità problematica dei suoi oscuri meccanismi vitali, allo squilibrio della dismisura, alla lotta perenne per la sopravvivenza in condizioni estreme – ma anche la possibilità che l’uomo stesso, all’opposto, abbracci la condizione addomesticata e pacifica della civiltà e della Legge, a partire dalla quale colui che ne rifiuti gli assunti e le responsabilità verrà respinto: “Non divenga egli intimo del mio focolare.”
Il focolare, la pólis, il vivere sociale e collettivo, l’equilibrio garantito dalla norma e dal divieto conducono l’umanità all’aggregazione regolata e coatta, priva di pericoli, ma sovente anche vuota di senso: il familiare in quanto differente per natura rispetto all’inquietante. Colui che respingerà la Legge, che non riconoscerà il diritto positivo del consorzio civile perderà il privilegio della cittadinanza, verrà bandito dalla comunità – rifiuto non di rado reciproco – e tornerà a errare nel mondo, privo di rifugio e conforto, come alle origini, ma animato dal bisogno primigenio di confrontarsi daccapo, perennemente, con la ricerca incessante della verità, che trova la propria ragion d’essere non tanto nell’irraggiungibile obiettivo, bensì nella propria attitudine etica, che nasce proprio dalla consapevolezza dell’inanità dello sforzo e della sua immensa bellezza fine a se stessa. Una verità che, partendo dal vocabolo greco che la designa, à-létheia (non-nascondimento, s-velamento), allontana la cristallinità della certezza piena, la luminosità dell’evidenza al di là di ogni possibile dubbio ed evoca, invece, la tensione problematica dell’essere delle cose e la sua complessità permeata dello scambio fra visibile e invisibile, della co-appartenenza reciproca di luce e zone d’ombra.
Gli smisurati e folli personaggi di Herzog, così come il regista stesso in prima persona, non hanno mai smesso questa ricerca, non sono mai venuti meno alla loro missione di “conquistatori dell’inutile”, di ricercatori di una verità “estatica” – come la definisce Herzog stesso – capace di trascendere i meri confini del fatto, del dato oggettivo, per raggiungere il sublime e terribile prodigio della rivelazione dell’essere. Per ciò stesso è inscritta nel loro destino la sconfitta, che, solo in quanto tale, riesce a far risplendere questi eroi indomabili quali tragici e sublimi titani perduti, gloriosi esseri senza pace né catarsi, sacrificati all’altare del loro terribile e personalissimo dáimon.

Picture
La Soufrière, documentario girato nel 1976, nell’imminenza di quella che avrebbe potuto essere una catastrofe naturale di proporzioni immani – il vulcano La Grande Soufrière, nell’isola di Guadalupa (Antille francesi), nella primavera di quello stesso anno, aveva dato allarmanti cenni di risveglio fino a portare, nei mesi successivi, le autorità a decidere di evacuare la parte meridionale dell’isola e in particolare il centro più importante, Basse Terre, nell’attesa di un’esplosione che avrebbe potuto corrispondere, secondo le stime degli scienziati, a un’intensità pari a quella di 5/6 bombe atomiche – costituisce, a un tempo, il film più estremo girato da Herzog, un lavoro che contiene in sé molti dei temi cari al regista bavarese, nonché una delle sue più notevoli riflessioni (successiva al momento della realizzazione del film e, forse, proprio per questo, ancora più riuscita, in quanto non programmatica, anche se assai di rado schematismo e rigidezza accompagnano l’idea che Herzog ha del cinema) sulle possibilità e i limiti dell’atto del riprendere la realtà nel suo farsi.

Fin dalle prime immagini, lo sguardo della mdp è dentro le cose, sull’isola, nella cittadina di Basse Terre: Herzog è attratto dall’abisso e non esita a scrutarlo. Quando l’attività del vulcano diviene intensa e l’apocalisse pare imminente, Herzog e i suoi due operatori, Lachman e Schmidt-Reitwein, perlustrano l’isola dall’alto in elicottero, ma presto vi fanno ritorno. Il cinema, per Herzog, non è mai finzione o approssimazione, ma sempre e solo impresa, titanica avventura, rischio non calcolato, sfida all’impossibile. 
Mentre l’esplosione annientatrice sembra approssimarsi, la mdp rivela come una città fantasma quello che fino a poco prima era un luogo vivo, dal quale gli abitanti sembrano essere stati rapiti da una forza misteriosa e aliena: semafori ancora funzionanti, insegne e segnali stradali perfettamente posizionati, negozi svuotati ma con i cartellini dei prezzi in bella mostra, abitazioni con televisori e frigoriferi accesi; manca solo l’uomo. Le vestigia di una civiltà moderna e improvvisamente scomparsa si mostrano in un silenzio innaturale, rotto, di quando in quando, dalla voce over di Herzog che fa da guida allo spettatore, talora descrivendo ciò che si mostra alla mdp, talora pennellando le suggestioni e le impressioni intime di un uomo che ha vissuto da protagonista l’esperienza, ma che ne parla, inevitabilmente, come di qualcosa di già compiuto, di irreversibilmente concluso. 
Le strade sono percorse da animali abbandonati – una scrofa coi suoi piccoli, un’asina col suo cucciolo, cani – finalmente liberi dal giogo dell’uomo, ma rimasti senza difesa rispetto all’incombere della natura: la mdp inquadra infatti anche la carcassa di un grosso cane ricoperto di mosche. La voce di Herzog informa inoltre lo spettatore che migliaia di serpenti, che vivevano nel folto della macchia sulle pendici del vulcano, spaventati dalle potenti scosse sono scesi fino al mare dove sono tutti annegati. Sull’isola non vi è più traccia di cibo né di possibilità di salvezza, eppure la vita continua, anche se circondata dalla morte e dall’abbandono, mentre la sommità del monte, coperta di spessi strati di vapore solforoso, continua imperterrita a incombere come un demone di epoche remote.
Gli animali non sono però gli unici esseri viventi rimasti sull’isola: tre uomini hanno deciso di non fuggire, per rimanere ad aspettare la fine, ed Herzog decide di incontrarli. I tre rappresentano l’altra faccia della medaglia della poetica herzoghiana, oscillante fra i poli opposti, ma complementari, di un rapporto con l’assoluto e con la totalità scandito dal superamento iperbolico del limite, dalla sfida folle e visionaria all’estremo oppure, al contrario, caratterizzato dalla quieta pacatezza e rassegnazione di chi già conosce o intuisce la propria disfatta di fronte al mistero del mondo. Si tratta delle due grandi tipologie archetipiche della poetica di Herzog: da un lato i personaggi superomistici che si confrontano con la propria sconfinata brama di potere, conquista e conoscenza di fronte all’altrettanto sconfinato enigma dell’assoluto (come Aguirre o Fitzcarraldo), dall’altro i personaggi che già hanno perso tutto, che, letteralmente, non appartengono più all’ambito dell’avere, ma a quello dell’essere, in quanto ciò che è rimasto loro non è altro che la nuda esistenza (come Kaspar Hauser, Stroszek o Woyzeck). 

Picture
Se il regista, con la sua presenza dietro e davanti alla mdp, ricopre il ruolo eroico di colui che, assieme ai suoi compagni, sfida la natura e le sue leggi rischiando la vita, i tre autoctoni propongono una sfida differente alla medesima natura e alle medesime leggi, con un atteggiamento diverso, quello di una saggezza ancestrale marcata dal pre-possesso intuitivo dello scacco dell’uomo di fronte all’arcana potenza del cosmo: tenui e rassegnati perché lungimiranti, inattuali, emarginati e dimenticati, antieroici ma colmi della dignità degli uomini liberi, pregni di saggezza e di vita anche se prossimi alla fine, giacché sanno che l’uomo “Dall’incombere, solo, della morte, con nessuna fuga può giammai difendersi.”
La Soufrière esprime, a tal proposito, un gustoso e a tratti grottesco paradosso, giacché l’apocalisse annunciata e attesa non vi sarà. Il vulcano, inspiegabilmente dal punto di vista scientifico, non esploderà – lo farà, senza vittime, tre anni più tardi – e questo rende il film un curioso e straniante lavoro di sapore beckettiano, valore aggiunto di un’opera magnifica ed estrema, non solo perché il pericolo incombente è comunque quanto mai prossimo e reale, ma soprattutto perché l’attesa della fine diventa occasione per lo sguardo di posarsi sull’incantata bellezza e la sovrumana potenza della natura, per sancire la vittoria del significante sul significato.
Herzog inserisce nel film alcune immagini fotografiche della catastrofica esplosione del vulcano La Pelée, avvenuta nel 1902 sulla vicina isola della Martinica, che aveva raso al suolo la cittadina di Saint-Pierre, uccidendo trentamila persone. Le fotografie di un evento già avvenuto e concluso, e che quindi non ha più luogo, echi immobili dal regno oscuro del passato, tracce di un mondo sepolto, dimenticato e fantastico fanno da controcanto al presente delle riprese, che invece mostrano un luogo privo di evento e che divengono, tramite l’attesa indefinita, anch’esse immagini sospese di una situazione immobilizzata, contemplazione del tempo puro, immagine-tempo priva di cronologia e di scansione degli eventi, verità estatica non zavorrata dal predominio del senso.
Il film si conclude con il riconoscimento, da parte di Herzog, della propria sconfitta: “Per noi, le riprese per questo film hanno assunto un aspetto patetico, e così tutto è finito con un nulla di fatto e nel ridicolo più completo. Ora diventerà il documentario di una catastrofe inevitabile che non si verificò.” Il fallimento della missione diviene però, in questo caso, fatalmente, il trionfo del cinema.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Anno: 1976
Durata: 30’
Regia: Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein, Edward Lachman
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Musiche: Rachmaninov, Brahms, Mendelssohn, Wagner

0 Comments

HERZOG - Invincibile: la visione del Golem

29/12/2014

0 Comments

 
Immagine
Molte sono le vite di una nazione, una soltanto quella degli uomini. Le nazioni possono nascere e morire più volte, gli uomini hanno un’unica possibilità. Nel corso del ‘900 la Germania muore una prima volta nel 1918: il trattato di Versailles sembra porre la pietra tombale sulle mire egemoniche tedesche e anche su qualsiasi possibilità di rinascita o rivincita. Poi il 1945: la disfatta del nazismo costituisce un secondo colpo, anch’esso mortale, per la Germania e per il suo popolo. Ma come detto, le nazioni hanno molteplici vite da spendere e riescono anche a rinascere dalle proprie ceneri.
È indubbio, comunque, che la conclusione della seconda guerra mondiale coincida con l’anno zero della Germania, con l’obliterazione del prestigioso passato del suo popolo, il quale finisce col subire la pericolosa e fuorviante sovrapposizione col nazismo tout court. Visto che, come diceva Pasolini, “La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita”, conferendole senso, giacché “Finché siamo vivi manchiamo di senso”, è indubbio che, per molto tempo, sia i tedeschi sopravvissuti, sia i popoli da essi assoggettati o combattuti durante la guerra, abbiano continuato ad avere come unico riferimento nel definire la Germania, nell’attribuire un senso, appunto, alla sua storia, la sciagura del nazismo e del secondo conflitto mondiale, la sua seconda e più tragica morte.
Anche la generazione dei cineasti tedeschi del secondo dopoguerra sembra non riuscire a trascendere questo cupo orizzonte e si sente costretta, non di rado, a fare i conti proprio con quel doloroso passato o, talora, a guardare oltreoceano per attingere a modelli letterari e filmici non contaminati dall’esperienza nazionalsocialista. È il caso, fra gli altri, di autori come Fassbinder, Wenders, Syberberg, Reitz. Werner Herzog rappresenta, in questo contesto, un’eccezione degna di nota, giacché i suoi film sono espressione di una poetica, che, fin dalle prime opere, appare purificata e liberata da qualsivoglia legame con la storia tedesca della prima metà del ‘900. Non che il regista bavarese risulti insensibile a tali problematiche, ma è indubbio che nel suo cinema si avverta un respiro universale, profondamente umanista e intensamente filosofico, non ghettizzabile in un unico frammento di storia, sia pure ampio e tragico. Anzi, è proprio l’eccessiva sensibilità che l’ha portato a valicare continuamente i confini spaziotemporali del proprio paese e della propria epoca, nonché, in certi casi, quelli del mondo.
Tant’è che quando Herzog, nel 2001 con Invincibile, decide di confrontarsi con gli oscuri trascorsi della Germania, lo fa trascendendone la dimensione aneddotica, cronachistica, retorica, scegliendo ancora una volta di focalizzare la propria attenzione sui suoi temi prediletti e di mettere in scena i personaggi cari al suo cinema.
Il film risulta ambientato fra la Polonia dell’est e Berlino, a cavallo fra il maggio del 1932 e l’inizio del 1933, nel periodo in cui Hitler è prossimo ormai a salire definitivamente al potere, ma la Storia è quasi sempre sullo sfondo o appare, di quando in quando, solo per palesare i propri tratti grotteschi – ad esempio con le figure di Himmler o Goebbels – per poi continuare a scorrere indifferente sullo sfondo, mentre balzano in primo piano le piccole storie degli uomini e, fra questi, di alcuni individui dotati di un’aura singolare.
Herzog, nel suo cinema, non ha mai smesso di raccontare le due forme di eroismo che contraddistinguono gli esseri umani per lui straordinari: la sfida allo smisurato, cioè il gettarsi nel cuore di tenebra dell’essere, del mondo nelle sue forme primordiali ed estreme – è il caso, ad esempio, di personaggi come Aguirre o Fitzcarraldo – protendendosi verso la “conquista dell’inutile”, cioè di ciò che gli uomini comuni definiscono tale, in quanto mancante di un effettivo tornaconto quantificabile; l’adesione all’indefinitamente piccolo – come accade, fra gli altri, a Kaspar Hauser o Bruno Stroszek – che si configura come il rovescio della stessa medaglia, vale a dire il rientrare direttamente nella sfera dell’inutilità, ma in questo caso a livello esistenziale, giacché, come dice Deleuze a tal proposito, “Quanto ha smesso di essere utile, comincia a essere, semplicemente”. (1)
Nel cinema herzoghiano di finzione, a predominare è quasi sempre solo una di queste due tipologie di personaggi, (2) alternativamente, ma in Invincibile è possibile riscontrare la convergenza di entrambe nell’alveo narrativo dell’opera, nonché il loro fluttuare, talvolta, da un personaggio all’altro: un elemento questo che rende il film una vera e propria summa del lavoro del regista bavarese. 
A fronteggiarsi, nella Berlino degli anni ’30 raffigurata da Herzog, sono Zishe Breitbart (Jouko Ahola), un fabbro ebreo polacco dalla forza eccezionale, e il medium Erik Jan Hanussen (Tim Roth), un nobiluomo di origine danese, che esercita le proprie facoltà paranormali nel Palazzo dell’Occulto e viene tenuto in gran considerazione dalle alte sfere naziste – specialmente dal Führer – giacché nei suoi vaticini si fa menzione della prossima ascesa al potere di Hitler.

1) Al di fuori del cinema di finzione, nei documentari, Herzog mantiene lo stesso atteggiamento e persegue le medesime ossessioni dei suoi personaggi smisurati, senza necessitare del loro tramite, ma percorrendo direttamente – attraverso il proprio occhio inesausto – gli estremi confini del visibile.
2) Un’eccezione di rilievo è senz’altro costituita da Nosferatu (1978), dove i personaggi risultano particolarmente sfaccettati e complessi e dove all’onnipotente – ma attenuato dalla malinconia – principe della notte fa da contraltare il personaggio di Lucy, fragile ma forte di fronte al sacrificio supremo (anch’esso inutile, peraltro), e quello di Jonathan Harker, diviso fra la propria origine borghese e l’ansia di avventura e scoperta, che lo rende degno e inevitabile erede del vampiro.

Entrambi i personaggi sono realmente esistiti, ma le vicende che li vedono sulla ribalta del proscenio filmico sono spesso frutto della fantasia di Herzog (specie per ciò che riguarda la figura del vigorosissimo fabbro ebreo, in realtà morto nel 1925), il quale non è interessato all’aderenza storica o cronachistica, bensì a fare in modo che i temi a lui cari trovino l’opportuna alchimia per svilupparsi. È proprio a partire dalla dialettica fra queste due figure, nonché fra le loro psicologie e motivazioni, che la poetica di Herzog si impone, per poi trovare negli altri personaggi principali i moltiplicatori della propria intensità.

Picture
Zishe, scoperto da un impresario berlinese nel suo villaggio polacco grazie alla forza eccezionale di cui è dotato, viene da questi precettato per diventare una delle attrazioni del Palazzo dell’Occulto, a Berlino, nelle vesti di novello Sigfrido. Il suo ruolo sarà essenzialmente quello di fungere da controcanto alle facoltà mentali di Hanussen, per enfatizzarne i poteri. Già da queste premesse è possibile scorgere la cifra che delineerà l’anima del film: l’identità di ogni personaggio emergerà per contrasto o reazione con quella degli altri. Per accentuare le proprie facoltà, Hanussen si mette in competizione con Zishe e sarà proprio da tale competizione che deriveranno la sua disfatta, nonché un parziale riscatto della sua figura.
Là dove la forza di Zishe è esposta, ingenua, primordiale, pre-verbale – Ahola sta in scena col proprio corpo, spesso esibito in tutta la sua potenza e, al contempo, in tutta la sua fragilità, senza fronzoli o sovrastrutture e compie davvero gli sforzi richiesti dal copione (Herzog è anche questo) – quella di Hanussen è sotterranea, retorica, verbale, teatrale, affabulatoria, frutto di una continua messinscena, di un vero e proprio lavoro attoriale. Non è un caso, infatti, che l’unico professionista, fra i due attori chiamati da Herzog per i ruoli principali, sia proprio Roth. Ciascuno dei due interpreti rappresenta quindi veridicamente ciò che ciascun personaggio richiede, per delinearne il nucleo profondo, l’essenza.
Entrambi i personaggi sono inoltre, ciascuno a proprio modo, dei visionari – come molti altri grandi (anti)eroi herzoghiani – ed entrambi appaiono pervasi da qualità smisurate, anche solo per il fatto di interagire, sia pure in modi diversi e per molti versi contrapposti, con un Moloch apparentemente invulnerabile come quello nazista. Hanussen, però, non predice il futuro, ma descrive il presente, allorché vaticina la salita al potere di Hitler (che avverrà pochi mesi dopo); per il resto non è altro che un abile illusionista, un prestigiatore che gioca coi sentimenti del proprio pubblico, vellicandoli e compiacendoli, senza alcuna effettiva capacità medianica, ma sorretto esclusivamente dalla propria arte affabulatoria; Zishe, invece, intuisce in pieno la pericolosità del nazismo, per sé e per il proprio popolo, e questa visione diviene, di fatto, la funesta profezia di un uomo dall’anima pura, dal cuore di vetro, una profezia che però quasi nessuno sarà in grado di capire.
Inoltre, mano a mano che Zishe accresce il proprio potere premonitore, Hanussen sembra smarrire la propria forza e sicurezza. La verità, su se stesso in primo luogo, Hanussen la ritroverà – in una sorta di paradosso del mentitore – quando, denunciato da Zishe come impostore, sarà costretto, in tribunale, a palesare la propria vera identità e, addirittura, le proprie origini ebraiche. Il vero nome di Hanussen è Herschmann Steinschneider, ebreo di origine ceca e grande falsario, mistificatore e manipolatore di folle. Solo una volta smascherato, egli darà prova di orgoglio e coraggio, di fronte all’uditorio del processo – con un memorabile monologo di Roth – e di dignità, allorquando riceverà Zishe nel Palazzo dell’Occulto ormai abbandonato e gli comunicherà la propria stima. Il riappropriarsi della propria identità occultata, sarà, per Hanussen/Steinschneider, per l’uomo smisuratamente ambizioso ridotto all’impotenza, per il falso visionario, l’occasione di vedere finalmente con chiarezza.
La maturazione di Zishe avviene grazie all’interazione con altre tre figure fondamentali: Marta (Anna Gourari) – l’amante di Hanussen – il fratello minore Benjamin (Jacob Wein), che l’ha raggiunto a Berlino, e il rabbino (Herbert Golder) della sinagoga della capitale. Tutti e tre questi personaggi sono anch’essi, a loro modo, dei veggenti e ciascuno di essi, così come Zishe, è dotato di un dono, la cui forza è intensificata da quella della visione. Il dono di Marta è la musica, cioè la grazia e la bellezza, che scuotono l’animo fanciullesco del protagonista, conducendolo a una nuova dimensione dello spirito. Marta è inoltre il tramite fondamentale nella presa di coscienza di Zishe circa il pericolo nazista: è lei a pregarlo di accompagnarla in una crociera organizzata da Hanussen col fine di compiacere alcuni dei più importanti notabili nazionalsocialisti – fra cui Himmler e Goebbels – per proteggerla da Hanussen stesso e dai suoi discutibili ospiti; è proprio durante la gita, infatti, che Zishe sente un Himmler ubriaco e ciarliero delirare sull’imminente incendio del Reichstag, la cui colpa sarebbe poi ricaduta sugli ebrei. Marta quindi risulta, per molteplici ragioni, un elemento fondamentale nel progressivo sviluppo della consapevolezza del protagonista.
Di notevole rilevanza risulta anche la figura del piccolo Benjamin, che desta in Zishe la forza di ribellarsi al conformismo antisemita, che gli era stato imposto attraverso l’obbligo di celare le proprie origini ebraiche e di spacciarsi come novello Sigfrido. L’arrivo a Berlino dell’amato fratello minore conduce quindi il protagonista a rivelare la propria vera identità e a proclamarsi nuovo Sansone. Il dono di cui Benjamin è in possesso è l’opposto di quello del suo gigantesco fratello: gracile di costituzione, ma dotato della parola, la Parola di Dio, che egli conosce a memoria, nonché di una saggezza senza tempo, che contrasta con la sua giovane età. Anche nel suo caso, però, così come in quello di Marta, a smuovere nel profondo l’animo di Zishe è l’amore verso il fratello e verso il proprio popolo, più che il convincimento legato alla parola.
Il protagonista è pura fisicità, predominanza dell’istinto e dell’intuizione, anima cristallina: gli arabeschi del linguaggio e della retorica non hanno presa su di lui. Tali elementi ne fanno emergere, a un tempo, la forza e la fragilità, che lo rendono umano e quindi – alla maniera delle altre figure centrali herzoghiane – destinato a una tragica fine. Anche se impermeabile alla potenza della parola, Zishe risulta sensibile al mito, al racconto dei trentasei giusti che gli fa il rabbino – in ogni generazione, il popolo ebraico dà i natali a trentasei uomini che portano in sé il dono della giustizia e il fardello di farsi carico delle sofferenze dell’umanità – prima del ritorno in Polonia. Il dono posseduto dal rabbino non solo accompagna la visionarietà, ma in essa si sostanzia, portandolo a scorgere, quindi a vedere, in Zishe, lo spirito e la forza dell’uomo retto e puro. Egli è l’unico che, anziché toccare l’affettività di Zishe, ne smuove il rispetto e quindi l’ascolto.
Zishe, udito il racconto, tornerà in Polonia per tentare di avvertire la propria comunità del pericolo incombente. Una volta radunata la propria gente, gli mancheranno però le parole per persuadere l’uditorio: il popolo ebraico non ascolta il proprio Golem, che non è in grado di esprimere compiutamente la verità, pur possedendola. La verità di Zishe non si situa, agli ottenebrati occhi della comunità, nella sua parola, ma nel suo corpo e sarà proprio quest’ultimo, apparentemente indistruttibile, a soccombere, dopo l’ennesima dimostrazione della propria forza, a causa di una banale scalfittura causata da un chiodo arrugginito, mentre ogni suo ammonimento cadrà nel nulla.
Quasi tutti i personaggi centrali del cinema di Herzog sono, ciascuno a proprio modo, dei giusti, perché puri di cuore, proiettati verso l’assoluto come inesauribile ricerca della verità, posseduti dal dono della veggenza e dalla maledizione di non essere ascoltati e compresi; perciò sono degli inattuali, degli apolidi solitari ed emarginati da comunità chiuse nella propria stoltezza. Il loro destino non potrà, quindi, che esser quello di vedere spazzate le proprie visioni dal vento dell’indifferenza e dell’oblio.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Invincible
Anno: 2001
Durata: 127’
Regia, soggetto e sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Peter Zeitlinger
Montaggio: Joe Bini
Musiche: Klaus Badelt, Hans Zimmer
Interpreti principali: Tim Roth, Jouko Ahola, Anna Gourari, Jacob Wein, Udo Kier

0 Comments

HERZOG - L'enigma di Kaspar Hauser: la prigione del mondo

7/8/2013

0 Comments

 
Immagine
Cosa significa raccontare una storia di cui si conosce soltanto l’inizio? Significa forse esaltare la potenza immaginifica della fantasia umana, lasciando campo libero alle infinite possibilità di cui essa è capace? Oppure rappresenta una forma di violenza psicologica, nel momento in cui si interrompe bruscamente quell’emozione e quel brivido che il racconto, qualsiasi racconto, porta con sé? O ancora, più plausibilmente, è uno schiaffo in faccia alle convenzioni, ai pensieri e alle idee di chi vuole che tutto segua un percorso prestabilito, additando violentemente chiunque non si dimostri intenzionato a seguirne le orme? 
Kaspar Hauser additato lo è stato davvero, per tutta la sua breve esistenza. Almeno, dal fatidico istante del suo ritrovamento (anzi, della sua apparizione) in poi, perchè in precedenza la sua vita si era svolta unicamente entro le mura di una prigione forzata e immotivata. Kaspar è la follia allo stadio primordiale, la cellula impazzita, la scheggia senza controllo; la cartina tornasole di un mondo dove tutto deve essere etichettato, definito, controllato, e dove – cosa ancora più grande, grave, spaventosa – si deve sempre e necessariamente trovare una giustificazione al diverso. Per rafforzare un credo, per difendere le fondamenta di un’istituzione (qualsiasi essa sia, non importa), per placare gli animi di un focolare domestico. 
L’enigma di Kaspar Hauser è il sesto lungometraggio di Werner Herzog, il primo dopo il seminale Aguirre, furore di Dio, che ne segnò indelebilmente lo stile e la poetica: se il capolavoro con Klaus Kinski è la summa filosofica ed espressiva del suo cinema, Kaspar Hauser è di certo il suo titolo più rarefatto, ellittico, essenziale. Il più spietato, almeno in termini di pessimismo nei confronti dell’Uomo e della Storia. Partendo da un fatto realmente accaduto (il vero Kaspar Hauser comparve all’improvviso in una piazza di Norimberga nel 1828, e la sua successiva rieducazione avvenne in maniera piuttosto simile a quella mostrata nel film), Herzog mette in secondo piano il titanismo dell’opera precedente, soffermandosi sul rapporto tra il suo protagonista e il mondo che lo circonda, in maniera splendidamente lucida e tagliente. 
Attraverso questa figura misteriosa ma dotata di una genuina spontaneità (appunto perché estranea alla società degli uomini), emerge una visione cristallina del Male all’opera sull’individuo, il quale si riduce a cavia da laboratorio inerme e passiva. Kaspar, che non reagisce alle insidie come gli altri si aspettano che faccia (non ha paura del fuoco, né dell’affondo di una spada), e che rifugge la logica deduttiva in favore di una strettamente pragmatica, basata sui fatti che può vedere e toccare (bellissima, seppur struggente, la sequenza con il maestro di matematica), diventa ovviamente un’attrazione da circo ambulante, nel quale la dignità e il rispetto della persona vengono costantemente calpestati in nome del profitto (deve contribuire al proprio sostentamento) e del cinismo umano. Adottato da un dottore intenzionato ad istruirlo, finirà solamente per essere rinchiuso in una prigione più grande: quella del mondo moderno, con le sue convenzioni e le sue regole da rispettare. 
L’enigma a cui fa riferimento il titolo è la sua vita prima del ritrovamento in piazza, ma anche e soprattutto lo specchio posto dinanzi a un universo di uomini e donne, nel quale tutto ciò che non è rappresentabile in maniera compiuta deve assolutamente essere controllato con la forza (non necessariamente fisica, anzi); ciò che vi viene riflesso è la verità della Storia, scritta con il sangue non solamente dei deboli, ma anche dei ribelli e dei sognatori (la dimensione onirica è l’unica nella quale Kaspar sembra riuscire ad esprimersi davvero). Su tutto regna una natura incredula ed estranea, testimone silenziosa degli orrori perpetuati dall’uomo in nome del mantenimento e della conservazione delle proprie certezze; la stessa natura sulla quale Kaspar vorrebbe lasciare il segno del suo passaggio, scrivendo il proprio nome attraverso alcune piante coltivate sul terreno, ma senza che queste riescano a sopravvivere perché verranno calpestate e distrutte. 
Non ci deve essere nessun enigma, né ora né mai: non è un caso infatti che, dopo l’autopsia effettuata sul suo cadavere, la malformazione del cervelletto e di alcuni organi interni venga identificata come la causa naturale della sua diversità. L’ordine viene così ricostituito, e tra i vicoli e le case dei cittadini bavaresi tutto può tornare come prima. “Ognun per sé, e Dio per tutti”: hanno vinto loro. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Jeder für sich und Gott gegen alle
Anno: 1974
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein
Musiche: Popol Vuh
Durata: 106’
Interpreti principali: Bruno S., Walter Ladengast, Willy Semmelrogge, Brigitte Mira

0 Comments

HERZOG - Cuore di vetro, la sperimentazione apocalittica

6/8/2013

0 Comments

 
Immagine
“La mistica oscilla tra la passione dell'estasi e l'orrore del vuoto. [...] L'estasi è una presenza totale priva di oggetto, un vuoto pieno. Un brivido attraversa il nulla, invasione di essere nell'assenza assoluta. Il vuoto è la condizione dell'estasi, come l'estasi è la condizione del vuoto”. (Emil Cioran, Lacrime e santi). 

Il tessuto narrativo di Herz aus Glas attinge a piene mani da una leggenda bavarese, e Werner Herzog, per raccontare la sua storia, si affida alla favola popolare, mantenendo la sua poetica in bilico tra ciò che è e ciò che non è; il visibile e l’invisibile sono le due direttrici scelte che accompagneranno lo spettatore in tutto il film, in una sorta di trance ipnotica, visionaria e onirica, su cui si regge l’architettura di quest’opera. La morte del maestro vetraio getta un piccolo villaggio della Baviera nello scompiglio: la tecnica di produzione del pregiatissimo vetro-rubino, su cui poggia le fondamenta l’economia del borgo, rimarrà un segreto, in viaggio verso l’Ade con il suo creatore, sepolto per sempre.

"La terra del vetro rubino: tutti gli uomini ballano avvolti da una luce rossa... lì ogni cosa è del colore dei rubini...".

Hias, pastore bavarese con il dono della preveggenza, è colui che vede ciò che altri non vedono, il Tiresia del villaggio, il cui sguardo è l’unico a non essere ammantato dall’alone del sogno, da uno stato onirico; un occhio che guarda oltre, verso il futuro e lo narra direttamente allo spettatore. Il profeta è avvolto dalla nebbia, come Il Viandante di Caspar David Friedrich, ma riesce a dissiparla osservando ciò che si nasconde in quel mare lattiginoso, nel futuro incerto e apocalittico degli abitanti del borgo.

“...il sole era basso e il gigante era solo l'ombra di un nano”.

Le scene emergono dalla pittura fiamminga, stilizzazione e visionarietà catturano lo sguardo che rimane incatenato alle immagini. È un cinema che brucia. Una materia pittorica che prende vita, si trasforma in materia organica, palpitante e viva; una celebrazione orgasmica della pura visione, attraverso un’estetica espansa oltre la visibilità che arriva dritta al cuore e lo frantuma in mille pezzi di vetro.
La costruzione delle scene, le ombre e le luci sui volti dei protagonisti, sono tele dipinte da Herzog da cui emergono inquietudini affascinanti che rapiscono gli occhi. Visi che sembrano rubati alle opere di Brueghel, Vermeer e De La Tour, ma con chiari rimandi ai giochi di luci e ombre dei volti del Merisi. Gli esterni sono pennellate romantiche di una natura eternamente protagonista e condizionante delle azioni umane, come è da sempre nel cinema di Herzog, un perenne Sturm und Drang, animi burrascosi immersi in una natura suggestiva; Hias vive a stretto contatto con la natura, quasi in simbiosi, le sue visioni hanno luogo in una sorta di esasperazione panica.
Si dice che per espressa volontà del regista tutti gli attori abbiano recitato sotto ipnosi, tutti tranne Joseph Bierbichler (Hias), l’unico in grado di vedere, l’unico a non essere colto dalla follia collettiva che condurrà il paese alla distruzione. Lo stato di trance degli interpreti, insieme alla musica dei Popol Vuh, contribuiscono a conferire un’atmosfera sospesa e psichedelica all’opera in cui l’immagine si confonde nell’immaginifico, in cui il sogno diviene realtà e la realtà è forse parte di un sogno; lo sottolineano la lentezza dei movimenti dei protagonisti, i dialoghi surreali, la narrazione lenta e poco scorrevole.
La condizione umana, il suo tendere naturalmente alla distruzione, il nichilismo imperante e i simbolismi filosofici rendono Cuore di vetro un film non facile, in cui il regista percorre un arduo linguaggio narrativo che trova la sua forza nella sperimentazione e nell’immagine. L’opera si apre con oscuri presagi ma la chiusura lascia comunque un barlume di speranza nei confronti dell’umanità, che può redimersi e riuscire a trovare la giusta via nella salvezza, nella solidarietà tra gli uomini, in una sorta di titanismo leopardiano. 
“Così fatti pensieri / quando fien, come fur, palesi al volgo / e quell’orror che primo / contra l’empia natura / strinse i mortali in social catena, / fia ricondotto in parte / da verace saper, l’onesto e il retto / conversar cittadino, / e giustizia e pietade, altra radice / avranno allor che non superbe fole, / ove fondata probità del volgo / così star suole in piede / quale star può quel ch’ha in error la sede” (La Ginestra, Giacomo Leopardi).

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Herz aus Glas
Anno: 1976
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog, Herbert Achternbusch
Fotografia: Jorg Schmidt-Reitwein
Musiche: Popol Vuh
Durata: 93’
Uscita in Italia: DVD 2004
Interpreti principali: Clemens Scheitz, Joseph Bierbichler, Stefan Guttler

0 Comments

HERZOG - Encounters at the End of the World: il pianeta invincibile

5/8/2013

0 Comments

 
Immagine
L’oblio dell’uomo. O l’incrollabile fede nell’essere umano. Impervie strade conducono alla saggezza, come alla conoscenza. Il fragile e impercettibile equilibrio della vita negli spazi gelidi e deserti dell’Antartico.
Encounters at the end of the world, dedicato al critico cinematografico Roger Ebert, è l’ideale seguito de L’ignoto spazio profondo (2005), ispirato a Herzog da Henry Kaiser, che del lavoro precedente fu direttore della fotografia. È proprio con lui, solo con lui, che Herzog ha compiuto il lungo viaggio ai confini del mondo. Per scoprire, esplorare, incontrare. 
Fuori dalla mappa. L’estremo.
Si può analizzare il documentario in una duplice prospettiva: come racconto puro e nudo sulla natura, e come accorata dichiarazione d’affetto per l’umanità. Per quella che l’avanguardista James Broughton chiamava una “società di esploratori”. I filmmakers. Gli indagatori dell’invisibile, dell’inarrivabile. Di più, gli uomini capaci di spingersi sempre oltre. I “professional dreamers”, sognatori professionisti, che rendono possibile la realizzazione di ciò che sulla carta sembra appena un sogno. Il sogno, dopotutto, è solo una versione perfetta della realtà.
L’Antartico è un mondo a sé, ma viene proposto allo spettatore come una linea di confine tra la verità inviolabile della società contemporanea e la fede di una distesa ghiacciata. Silenziosa. Imperscrutabile. Comprensibile ai cuori coraggiosi, ai devoti, agli occhi attenti e lunghi. 
Nell’Antartico di un'età congelata e quasi immortale, senza tempo né spazi a definirne i confini, il passato e il futuro, la McMurdo Station è l’ambiente lavorativo e umano entro il quale Werner Herzog si addentra, si avventura, in cerca di storie straordinarie da fissare ma anche di ciò che più può legare la natura violenta e selvaggia alla passione degli uomini per essa. Nella McMurdo Station si lavora, studia, spera, ricerca. Si impara a sopravvivere prima che a respirare, a conoscere la durezza della vita nell’Antartico, con tutte le sue complessità ma anche le sue mirabili panoramiche, la poesia e il malinconico destino degli animali, abbandonati a se stessi, appassionati e infelici, proprio come gli uomini.
Il silenzio del gelo si sposa con il minimo commento musicale di Henry Kaiser, il suono della vita e della morte risalgono dalle profondità, udibili solo all’orecchio dell’uomo. Il resto è attesa. Frammenti che emergono rari, fini, una crepa nella superficie.
Pochissime volte nel film viene pronunciato il termine ormai inflazionato “global warming”, diventato più una moda che un vero allarme per la grandezza dell’universo che tutti noi abbiamo la fortuna di abitare. Herzog entra nel futuro, o meglio apre una porta, accende una luce. Allo spettatore la sensibilità di cogliere quel faro, pur in lontananza.
Encounters at the end of the world ci riconcilia con questa realtà. Con la straordinaria bellezza di ciò che ci circonda, con il mistero, la vita, lo strano e intricato rapporto tra uomini e creature degli abissi, uomini e natura inospitale, fredda, a tratti assente. È la filosofia dell’iceberg, forse. L’elemento da sconfiggere, toccare, che spaventa, il cui urlo, sostiene Douglas MacAyeal, bisogna saper ascoltare. Bisogna incidere il ghiaccio, per poter entrare. Si affonda nell’acqua liquida come si entra in chiesa. La sacralità dei luoghi perfetti è solo da rispettare, capire, per poter onorare.
Ecco l’occhio della cinepresa, allora. Ecco la purezza e la maestosità di Herzog documentarista. Lontano dall’ambiguità tra finzione e documentario de L’ignoto spazio profondo, Herzog compie qui una scelta precisa, di campo e di azione, ma anche di riflessione. Una scelta che paga. Straordinarie e toccanti immagini, impreziosite dall’efficace colonna sonora, si fondono con le brevi interviste agli esploratori al confine del mondo. I protagonisti di questo incontro in immagini dove l’occhio dell’uomo raramente giunge.
Sono tanti i luoghi della mente, tanti i mondi delle idee, afferma il filosofo e scienziato Stefan Pashov in uno stralcio della sua intervista. Vivere l’Antartico equivale a fare l’Ulisse, a vivere ciascuno la propria odissea interiore.
È l’Antartico il luogo ideale in cui ritrovarsi. Il luogo della selezione naturale. Questo afferma Herzog. Nulla è più lontano del Polo Sud. Il film dunque si relaziona con il paesaggio come ambiente e filosofia di vita. Quanto è grande, immensa, perfetta la natura e quanto piccoli, ignoranti, insensibili, incerti e spaventati siamo noi. Gli esseri umani, creature fragili e infinitamente piccole nella porzione di universo distante e incontaminata, bianca, fredda, bagnata. In perenne mutamento eppure costante. Ostinata. Così fragile. Invincibile.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale Encounters at the end of the world
Regia Werner Herzog
Sceneggiatura Werner Herzog
Anno 2007
Durata 99 minuti
Genere Documentario
Fotografia Peter Zeitlinger
Musiche Henry Kaiser e David Lindley

0 Comments

HERZOG - Dove sognano le formiche verdi: il canto della Terra

3/8/2013

0 Comments

 
Immagine
Là, nel deserto australiano, esiste un posto dove gli aborigeni pregano, all'interno di un supermercato, davanti a vernici e detersivi, perché una volta in quel punto sorgeva un albero sacro. In quella terra lontana dagli occhi del mondo i nativi rischiano la morte per difendere la loro terra, restando ancorati ai principi universali che ne governano le azioni e i pensieri. 
Eppure la civiltà occidentale avanza, inesorabile, con le sue ferraglie, l'arroganza, il potere infido di una presunta supremazia conquistata con la forza: bisogna spianare, setacciare, abbattere, dominare, poiché sotto, nel buio, potrebbero esserci ricchezze golose e imperdibili. Le giornate talvolta trascorrono lente, ferme, immobili: il geologo responsabile dei lavori può occupare il tempo soltanto ascoltando alla radio le registrazioni di telecronache di partite di calcio, o visionando cassette porno con cui immaginare donne molto, troppo distanti. Ma non c'è pace in quella Terra: gli aborigeni ne esigono la proprietà, e sono disposti a tutto per mantenere inalterato l'habitat in cui sognano le formiche verdi; svegliarle significherebbe, secondo il loro Credo, distruggere l'intera umanità.
Werner Herzog dentro e oltre i confini, ancora una volta, con un'opera indispensabile nell'eccezionale quadro stilistico e ideologico della sua filmografia; un lavoro che rifugge qualsiasi oratoria a tesi, dedicandosi invece a sottolineare sfumature, contrasti, contraddizioni tatuate sulla pelle dei bianchi e anche degli aborigeni. Da una parte l'uomo evoluto, o presunto tale, con i suoi abiti eleganti, gli avvocati, la burocrazia, i ristoranti di lusso e gli ascensori che peraltro si bloccano in continuazione, con vivo imbarazzo dei magnati dell'industria mineraria; dall'altro gli aborigeni, totemici simboli delle tradizioni remote disintegrate dalla modernità, immobili come statue davanti alle gru, cantori della Fede ed eterni guardiani del segreto che si nasconde nelle viscere feconde della Natura, eppure non insensibili alle lusinghe della tecnologia (gli orologi, gli aerei). 
Nessuno è privo di colpa, nell'opera herzoghiana, nessuno è intoccabile: resta però impresso a fuoco il senso atavico del rispetto, dell'essenza di realtà che andrebbero lasciate così come sono, cullate nella loro eternità. Ma l'esigenza dell'uomo è arare le distanze, cercare la vita annullando la vita stessa, urlare il proprio diritto allo sfruttamento e alla smitizzazione. Lì, nel deserto australiano, la Leggenda delle formiche verdi ha forse esaurito il proprio tempo, ed è destinata a estinguersi, come l'ultimo sopravvissuto di una tribù del quale più nessuno comprende e può tradurre la lingua.
A un certo punto, verso la fine, c'è una scena che può riassumere l'intero film, nonché porsi come atto simbolico di una larga parte della poetica del maestro che tanto amiamo: durante il processo che coinvolge la compagnia e gli aborigeni, questi ultimi chiedono il permesso di mostrare al giudice un oggetto sacro, il più importante della loro religione, rimasto sottoterra per oltre 200 anni. Tuttavia pretendono che l'aula per qualche minuto si svuoti, affinché il potere universale dell'icona non sia inquinato e disperso da troppi occhi. Il giudice acconsente, quasi tutti escono. Gli aborigeni portano l'oggetto, avvolto da un panno. Lo scoprono. L'inquadratura invece di studiarne i dettagli si sofferma sui volti stanchi, segnati dalla battaglia ma ancora fieri e lucidi, poi stacca alla sequenza successiva. È come se avessimo abbandonato l'aula anche noi. Non vediamo l'oggetto. Non ce lo possiamo permettere. Non ne abbiamo il diritto, così come nessuno avrebbe il diritto di stuprare e ammazzare le radici dell'umanità.
Il cinema di Herzog, a metà anni Ottanta, dopo aver disegnato la morte nel concepimento dell'Arte stessa in pellicole memorabili come Aguirre e Fitzcarraldo, si prepara alla svolta documentaristica con la quale, attraverso lavori come L'ignoto spazio profondo e Grizzly Man, le barriere del mostrabile saranno una volta per sempre divelte e vaporizzate. Dove sognano le formiche verdi naviga tra le rapide di un cinema in divenire, affianca fiction e realtà cullandole entrambe con parsimonia, e ci dice, con fare perentorio e straordinario, che esistono luoghi in cui la magia del creato ancora tenta di sopravvivere, fino allo stremo, cantando un requiem intriso di coraggio e malinconia.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Wo die grünen Ameisen träumen
Anno: 1984
Durata: 100'
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Bob Ellis, Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Attori: Bruce Spence, Wandjuk Marika, Roy Marika, Ray Barrett

0 Comments

HERZOG - Anche i nani hanno cominciato da piccoli: incubo in miniatura

2/8/2013

0 Comments

 
Immagine
Anche i nani hanno cominciato da piccoli è in assoluto il film più provocatorio e disturbante di Werner Herzog. Più di novanta minuti tutti incentrati su nani malefici che danno libero sfogo a un campionario di sadismo interminabile e inaudito, sfasciano tutto ciò che si ritrovano a portata di mano, urlano e sghignazzano compiaciuti delle loro azioni turpi, sguazzando in un marasma di crudeltà in cui ogni forma di umano raziocinio è stata ormai messa al bando.
Un microuniverso di soli nani come quello cui Herzog dà corpo si presterebbe - e di fatto a suo tempo si è prestato - a essere tacciato di compiacimento e di uso furbastro e strumentale della condizione di minorità fisica, con domande del tipo: perché proprio i nani e per di più solo e soltanto loro? Sono davvero così necessari? E se al loro posto ci fossero stati degli umani “normali”, la forza vera o presunta del film sarebbe stata la stessa? Domande a essere sinceri di assai dubbio valore, alle quali si può rispondere sinteticamente tirando in ballo un elemento che al cinema conta moltissimo, specie nell’ambito di una poetica radicale come quello herzoghiana: l’importanza del gesto cinematografico, dell’atto di girare come slancio e motore anzitutto etico, anche e soprattutto nelle scelte più rischiose e meno conciliatorie.
La decisione di fare un film con protagonisti dei soli nani, dunque, contiene in sé la volontà specifica di proporre un mondo dall’etica ribaltata, in cui l’anti-etica senza via d’uscita ha preso il sopravvento a tal punto da poter ammettere e avallare solo degli scherzi della natura. E allora ecco sopraggiungere l’uso funzionale e simbolico della deformità, sulla scia di quell’idea morale relativa ai nani contenuta anche in un celebre verso di De André che è perfino superfluo citare, tanto è iconico e risaputo.
I folletti pestilenziali di Werner Herzog rappresentano dunque il collasso anarchico di ogni buon senso, la legittimazione di qualsiasi stomachevole stortura che detenga il potere o che lo faccia proprio con gesti gretti o poco leciti. I freaks respingenti di Herzog conquistano la ribalta assoluta della scena, compiendo una sorta di vendetta contro una società e un immaginario che tendono ad escluderli da qualsiasi loro segmento.
Le vocine campionate, l’aggredire le carcasse, il massacro di un maiale e la crocifissione di una scimmia: Anche i nani hanno cominciato da piccoli sarà anche un trip profondamente inquietante, al quale tanto devono certe atmosfere lynchane e moltissimi aspetti dello sguardo sul mondo e sul cinema di Harmony Korine (che di Herzog è amico e compagno di merende), ma è anche un pamphlet lucido e spietato come pochissimi altri nella storia del cinema. Il film più swiftiano della filmografia di Herzog, un trattatello all’acido muriatico che nella dimensione iperrealistica lascia filtrare perfino una vena satirica impossibile e per certi versi impensabile. Eppure è innegabile che allo shock reiterato all’infinito di un film che non concede tregue o sconti, circolare fino allo stremo e uguale a se stesso dall’inizio alla fine, si vada ad affiancare uno humour distruttivo che odora di disfattismo e pessimismo cosmico nei riguardi dell’uomo e del suo destino.
La Natura matrigna appare definitivamente corrosa dal veleno che la corrompe, le galline mangiano altre galline ormai cadaveri, ne soffocano altre ancora, insolentiscono loro simili già azzoppate, infierendo in nome di un male necessario. Tutto buono, tutto giusto, tutto ammissibile, in un modo o nell’altro: una sarabanda di orrori in cui tutto è cominciato in un tempo lontanissimo, considerando anche che i nani, come dopotutto recita il titolo, hanno iniziato da piccoli, ossia da sempre, fin da quando sono venuti al mondo, condannati (d)alla loro condizione di eterna fissità e bassezza fisica.
È un film imprigionato nelle sue spire serpentesche, Anche i nani hanno cominciato da piccoli. Un vero e proprio incubo senza spiegazione o ragione (d’esistere), alogico ma a suo modo obbligatorio e necessario, come tutti i brutti sogni veramente autentici, che più spesso di quanto si creda finiscono con l’essere rivelatori di qualcosa che forse in fondo sappiamo ma che non possiamo né vogliamo ammettere. In quel dromedario incapace di rialzarsi c’è racchiusa e rannicchiata un’umanità instabile e malferma, che non può più vantare una sicurezza tale nei propri mezzi da ergersi in piedi con decisione, privata della speranza per il futuro che ha da venire e schiava del sonno della sua stessa ragione. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica   

Titolo originale: Auch Zwerge haben klein angefangen (Even Dwarfs Started Small)
Anno: 1970
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Thomas Mauch
Montaggio: Maximiliane Mainka
Durata: 96'
Interpreti principali: Helmut Döring, Gerd Gickel, Paul Glauer

0 Comments

HERZOG - La ballata di Stroszek e le anime perdute

31/7/2013

0 Comments

 
Immagine
Tassello tra i più preziosi della filmografia di Werner Herzog, La ballata di Stroszek è un film nato quasi per caso. Una specie di risarcimento ad personam, verrebbe da dire, offerto da Herzog a un rabberciato musicista tedesco dopo avergli prima proposto e poi negato all’ultimo momento il ruolo da protagonista in Woyzeck, una parte andata infine al solito feticcio herzoghiano Klaus Kinski.
Quella che in fin dei conti è solo la parabola di un outcast emarginato dalla società propriamente detta, indirizzato dal fato e dal degrado sul sentiero dell’oblio e dell’autodistruzione, acquisisce in questo caso una verità tale da disperdere progressivamente la percezione della mimesi cinematografica: il copione, scritto su misura dal regista tedesco per il suo attore Bruno S., che aveva ormai preso un permesso speciale dall’acciaieria in cui lavorava per girare Woyzeck, confonde infatti la fiction con la veridicità, sovrapponendo i connotati caratteriali effettivi dell’interprete dilettante già visto in Kaspar Hauser alle caratteristiche dell’alter ego filmico che Herzog gli ricama addosso con pedissequa aderenza. Un’operazione che si inscrive perfettamente nello spirito estremo e non conciliato della poetica herzoghiana e in una delle ossessioni classicamente legate alla settima arte più indagatrice: le zone d’ombra tra vero e falso, da evidenziare in ogni loro sfumatura e scanalatura, affondando a piene mani e senza remora alcuna nel documentario, sia esso presentato in forma pura e canonizzata o, come in questo caso, malcelata e spuria.
Il risultato è un film capace di scuotere lo spettatore, non solo formalmente, con l’energia di una pietra scagliata con forza (l’espressione tedesca più veloce e immediata per esprimere questo concetto sarebbe, non a caso, rammstein, come la nota band), imprigionandolo dapprima nella ieraticità dei suoi tempi dilatati e poi inchiodandolo con vigore all’anima luttuosa di una ballata di tanta morte e pochissimo, centellinato amore. La dicotomia primaria, però, è quella applicata ai luoghi: le praterie del Wisconsin da un lato e la Germania dall’altro, spazi ugualmente opprimenti nei quali la figura sgualcita e sdrucita del protagonista vaga spiazzata, come un pesce fuor d’acqua nel più inadeguato degli acquari. Il realismo che nessuno sconto fa alla deturpata realtà tedesca sembra dispiegarsi in un maggiore afflato visionario e immaginifico quando ci si apre ai territori del Nordamerica, reinventati alla luce di una sorta di magia indecifrabile. È, però, solo un’apparenza di addolcimento: lo sguardo di Werner Herzog sull’american dream tradisce infatti senza troppe cerimonie il pessimismo di fondo dell’autore, nonostante i laghetti e i miracoli accennati di piedi che fluttuano sulle acque.
L’esito finale della parabola umana di Stroszek, senza rivelare nulla, ne è ovviamente l’ulteriore conferma: la non reversibilità di questo percorso antropologico così particolare ma anche così universale lo rende un viaggio esemplare e simbolico, chiuso in se stesso e meravigliosamente prigioniero di un magnetismo animale che aggredisce le immagini dalla prima all’ultima sequenza, le sfibra, le logora, sottrae loro ogni flebile raggio di ottimismo. Fu l’ultimo film che Ian Curtis degli Joy Division vide prima di ammazzarsi, il 18 Maggio 1980. Ed era uno dei titoli che il frontman suicida amava di più al mondo. Non a caso.
De La ballata di Stroszek rimane pertanto il senso non troppo vago di un loop esistenziale, di un identikit prosaico in forma di lirica pietrosa, di un cinema che chiama in causa continuamente chi guarda, ostile alla ricezione passiva e semplificata e decentrato piuttosto verso il germogliare di un dramma tutto interiorizzato. Ci sono il tentativo (fallimentare) di aggrapparsi alla vita, il suono della campane, le musichette collassate, disturbanti e desolate di un congedo memorabile, in cui la giostra di un luna park indiano diventa l’ultimo atto meccanico messo in moto manualmente da un gesto dello stesso Stroszek, nonché, per estensione, l’ultimo lampo di vitalità che emerge in filigrana da un film che sulla vita stessa agisce con indistruttibile volontà di sottrazione. Come ha scritto Jim Knipfel, si tratta di uno dei finali più “bizzarri e indimenticabili” della storia del cinema, con quel “pollo che probabilmente sta ancora danzando”.
Nel volto dai lineamenti ferini e in fondo anonimi di Stroszek è scolpita una dose senza pari di non appartenenza, di vagabondaggio apolide: non stupisce, dunque, che questo sia da ritenersi il film di Herzog forse più autobiografico in assoluto, il più doloroso, il meno facilmente cicatrizzabile, il più rappresentativo del suo instancabile desiderio di ricerca. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica  

Titolo originale: Stroszek 
Anno: 1977
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Thomas Mauch
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Durata: 115'
Interpreti principali: Bruno S., Eva Mattes, Clemens Scheitz

0 Comments

HERZOG - Fitzcarraldo, il Dio e il suo sogno

29/7/2013

0 Comments

 
Immagine
Fitzcarraldo, uscito nel 1982 in seguito a una lavorazione lunga (ben quattro anni) e notoriamente travagliata, è una delle opere più conosciute, nonché maggiormente  controverse e impegnative, del grande regista tedesco. La figura dell’irlandese Brian Sweeney Fitzgerald, detto Fitzcarraldo poiché gli abitanti della foresta amazzonica peruviana, di lingua spagnola, non riuscivano a pronunciare il suo nome, rappresenta uno dei tòpoi principali del cinema di Herzog e, in questo caso più che mai, il riflesso diretto dello stesso Werner. 
Arte e vita si fondono in continuazione, in quest’opera immensa e tormentata fin dalla sua nascita: le riprese ebbero inizio nel 1979, ma la troupe fu costretta a uno stop forzato a causa dell’opposizione di un gruppo politico legato alla tribù degli Aguaruna, con minacce di morte e voci diffamatorie ai danni di chi stava lavorando al film. La produzione fu obbligata a fermarsi per un anno, per poi riprendere con Jason Robards nel ruolo del protagonista e Mick Jagger nei panni di Wilbur, un attore folle e un po’ tardo; Robards si ammalò in modo grave, i medici gli proibirono di tornare sul set, e anche Jagger abbandonò. Tutto ciò costò a Fitzcarraldo un’ulteriore battuta d’arresto, e Herzog decise di gettare via il girato, nonostante costituisse già il 40% dell’opera. 
Ricominciò dunque da zero, nell’aprile del 1981, con Klaus Kinski, il suo attore feticcio, già visto all’epoca in capolavori come Aguirre e Nosferatu, a ricoprire la figura centrale: è lecito domandarsi cosa sarebbe stato il film con Robards (e Jagger) al posto del bizzarro attore germanico, ma la risposta è quasi automatica: la sostituzione è stata probabilmente provvidenziale. Kinski è perfetto, ancora una volta l'insostituibile alter-ego di Herzog in un’opera che non è errato definire metacinema: Fitzgerald (ispirato a un personaggio realmente esistito, Carlos Fermin Fitzcarrald, un magnate della gomma peruviano che spostò una nave via terraferma facendola smontare) è lo specchio di Herzog in ogni singolo istante del film. Il sogno folle e impossibile di Fitzcarraldo, uomo che ama incondizionatamente l’opera e Caruso, ossia costruire un teatro nella foresta amazzonica, è il medesimo sogno artistico del regista, nient’altro che portare a termine quest’impresa filmica, titanica, rischiosa, spesso ai confini dell’etica. “Se io abbandonassi il progetto sarei un uomo senza sogni, e non voglio vivere in quel modo. Vivo o muoio con questo progetto.” Queste le parole di Herzog (e potrebbero essere le stesse del protagonista) così come le sentiamo in Burden Of Dreams (Il Fardello dei Sogni), documentario sempre del 1982 firmato da Les Blank, fondamentale per meglio comprendere non solo la pellicola ma le numerose vicissitudini che ebbero luogo attorno a essa. 
Herzog e la sua troupe furono pesantemente attaccati dalla stampa tedesca, con veementi accuse di sfruttamento degli indios; si può restare spiazzati nel vedere la determinazione con cui il cineasta decide di far muovere la nave su per la montagna, la stessa identica caparbietà di Fitzgerald, nonostante il pericolo che il perno possa cedere con conseguenze disastrose per le persone nelle vicinanze. Non è crudeltà, ma è la forza che solo i sognatori sanno avere: chi conosce bene il cinema di Werner Herzog lo sa, e riesce dunque a discernere. 
Fitzcarraldo (e almeno in parte anche il suo regista, poiché sul set vennero utilizzate tre imbarcazioni) sposta dunque una nave da un lato all’altro di una montagna, invasato dalla potenza del sogno, dell’ideale (“chi sogna, può muovere le montagne”, è una delle frasi-chiave del film), in una società di ricchi commercianti rozzi e ignoranti. È una sorta di folle selvaggio, che vive in riva al fiume in compagnia del suo maiale, attorniato da bambini incantati dalla voce di Caruso che esce dal grammofono; Molly (Claudia Cardinale), tenutaria di un bordello di lusso, è la sua amante, sodale e finanziatrice del suo progetto: acquistare la barca (battezzata Molly Aida) al fine di guadagnare denaro lavorando e vendendo il caucciù e poter così costruire il teatro. Fitzcarraldo riunisce uno scalcinato equipaggio e si mette in viaggio sull’imbarcazione malconcia: un’impresa giudicata suicida, a causa degli indios ostili presenti lungo il corso del fiume. Indios che, in realtà, fissano la barca immobili, come mesmerizzati. Qui entra in scena il Fato, lo strano e imperscrutabile gioco delle coincidenze: secondo un mito la popolazione indigena attende un “grande Dio bianco” a bordo di una candida nave, per portarli via da un “mondo che è solo illusione, poiché dietro si cela la realtà che è fatta di sogni”. Un altro concetto cardine, che coincide perfettamente con la visione di Fitzgerald, il quale decide di utilizzare con astuzia l’opportunità che gli si presenta di fronte.  
Gli indios salgono a bordo, li credono Dei, ma così come l’uomo “civilizzato” non è in grado di dominare la Natura, allo stesso modo non può arrogarsi il diritto di cambiare le convinzioni profonde di coloro che la abitano: il capo della tribù, dopo una notte di bisboccia dell’equipaggio, slega l’imbarcazione dall’attracco, lanciandola per le pericolosissime rapide denominate Pongo das Mortes. Fitzcarraldo attribuisce il gesto a una volontà di compiacere gli spiriti fluviali, dopo che egli li ha sfidati. Questo è un altro grande messaggio del film, in netto contrasto con ogni tipo di accusa: non si può  soverchiare l’immmenso potere naturale né coloro che ne fanno parte. Qui risiede il cuore dell'opera herzoghiana. La Molly Aida si infrange sulle rive, così come i sogni del protagonista, almeno apparentemente; Don Aquilino, in forza del miracoloso attraversamento delle rapide, ricompra la nave, e col denaro Fitzgerald corona un surrogato di ciò che portava nel cuore: chiama una compagnia operistica di secondo piano per mettere in scena I Puritani di Bellini proprio sulla Molly Aida. Realizza dunque ciò che anelava, anche se soltanto per il tempo di una rappresentazione. 
Fitzcarraldo ci regala una serie di sequenze indimenticabili, in primis quelle in cui vediamo Kinski sul tetto della nave, intento all’ascolto estasiato dell’amato Caruso: la meravigliosa musica, il lento movimento di macchina che diventa tutt’uno con quello, ipnotico, dell’imbarcazione, rimangono impressi come un marchio a fuoco nella memoria e nel cuore, indelebili, indimenticabili. Magnifico lo score dei Popol Vuh, ancora una volta necessari all’opera herzoghiana, così come in Nosferatu, e capaci di non restare nell’ombra della magniloquenza operistica che tende a dominare il film. 
Una pellicola controversa, spesso criticata, dalla genesi difficile, ma proprio per questo potentissima, perché reca in sé la folle forza del sogno: un Kinski imprenscindibile, se stesso più che mai e più che mai simbiotico e opposto a Herzog. Un altro film per il quale si riesce a trovare una sola parola da rivolgere a questo regista titanico e unico: grazie, per aver scelto il cinema; altrimenti il vuoto sarebbe stato incolmabile. 

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Fitzcarraldo
Anno: 1982
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Thomas Mauch
Musiche: Popol Vuh
Durata: 158'
Interpreti principali: Klaus Kinski, Claudia Cardinale, José Lewgoy, Miguel Ángel Fuentes

0 Comments
<<Previous
    - SPECIAL -

    WERNER HERZOG,
    OLTRE IL CONFINE
    Immagine

    CATEGORIE
    DELLA SEZIONE

    Tutti
    Aguirre Furore Di Dio
    Anche I Nani Hanno Cominciato Da Piccoli
    Brad Dourif
    Bruno Ganz
    Bruno S.
    Claudia Cardinale
    Cuore Di Vetro
    Documentari
    Dove Sognano Le Formiche Verdi
    Encounters At The End Of The World
    Eva Mattes
    Fitzcarraldo
    Grizzly Man
    Into The Abyss
    Into The Inferno
    Invincibile
    Isabelle Adjani
    Klaus Kinski
    La Ballata Di Stroszek
    La Soufrière
    L'enigma Di Kaspar Hauser
    L'ignoto Spazio Profondo
    Michael Shannon
    My Son My Son What Have Ye Done
    Nosferatu
    Tim Roth
    Willem Dafoe
    Woyzeck

    Feed RSS

    SEGUI ODG SU
Powered by Create your own unique website with customizable templates.