ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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TORINO 33 - Ni Le Ciel Ni La Terre, di Clément Cogitore

26/11/2015

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Un giorno sette uomini per sfuggire alle persecuzioni di un tiranno invocarono l'aiuto di Dio, e allora Allah li prese con sé e li condusse in una grotta, lasciandoli cadere in un lungo e impenetrabile sonno; insieme a loro v'era un cane, accovacciato all'entrata e anche lui dormiente, con l'espressione digrignante per proteggerli da possibili intrusioni. 
​
Clément Cogitore e il suo sceneggiatore Thomas Bidegain (Il profeta, Un sapore di ruggine e ossa, Dheepan di Jacques Audiard) partono da lontanissimo con Ni Le Ciel Ni La Terre, presentato al TFF nella sezione Torino Film Lab e interpretato da giovani attori francesi già affermati (il dardenniano  Jérémie Rénier) o in rampa di lancio (Kevin Azais, Les combattants), attualizzando un'antica leggenda che dà il titolo ad una sura del Corano, detta per l'appunto “sura della caverna” dove, questa volta, i sette sono quattro soldati francesi e tre talebani. Ascrivibile al filone dei war movies, nell'opera prima del regista francese invero sono l'arte della guerra e le tecnologie il fulcro narrativo. 
Siamo in Afghanistan e, avvicinandosi il ritiro delle truppe, il capitano dell'esercito Antarès Bonassieu e la sua squadra sono assegnati a una missione di controllo in una valle remota del confine Warkhan, alla frontiera con il Pakistan. Nel mezzo, un piccolo e pacifico villaggio di pastori, scrutati nel piccolo delle mansioni giornaliere e nei momenti di raduno collettivi, a cui partecipano anche i militari, in sintonia con i loro bisogni e attenti al quieto vivere. L'occhio di Cogitore inquadra con rigore estetico tenendosi a distanza e concedendosi il tempo dovuto a catturare il silenzio assordante che scorre tra le rocce desertiche; tutto tace, salvo qualche colpo di avvertimento ai locali, gli unici attimi in cui si attenuano staticità e solitudine. 
Ben presto però affiora sullo schermo l'aspetto ritualistico, l'imprescindibile fedeltà al valore soprannaturale della religione, vero primo punto di rottura nell'opera quando reale e immaginario si mescolano dando vita a un'altra battaglia, più sottile, ma altrettanto vitale. Dapprima il cane, poi alcuni soldati in rapida sequenza; l'oscurità inghiottisce chi cede alla stanchezza sulla terra di Allah; la si può presidiare, scandagliare in ogni angolo o altura, ma è vietato assopirsi, pena la scomparsa in un non luogo sconosciuto, come rivela un giovane al comandante. Bonassieu ostenta sangue freddo, ma il suo volto e quello dei sopravvissuti celano una paura contagiosa, tormentati tutti dallo stesso sogno, e ostinatamente alla ricerca di una verità ineffabile. 
Lo sguardo dell'autore, da testimone in disparte a compartecipe della vicenda, avanza senza inciampi sviluppando un dramma ricolmo di tensione e misticismo, che muove oltre ogni consueta rappresentazione filmica del tema vista finora. Ha ragione Cogitore quando afferma che “il modo in cui facciamo la guerra racconta anche chi siamo”. Uomini inquieti e inermi di fronte al pensiero della morte, che adoperano sistemi di sorveglianza all'avanguardia ed esperienza sul campo tuttavia inefficienti; paradigmatica la scena in cui, alla luce del sole, un gruppo di ribelli islamici mimetizzati sbuca fuori a ridosso dei francesi, affetti da cecità percettiva. 
Alla fine le due fazioni rivali si alleano, ma nelle profondità sotterranee non vi è null'altro che vuoto, metaforicamente senza fine, ovvero la possibilità stessa del cinema di rappresentare l'irrappresentabile; il suo peculiare modo di trascendere il reale per raccontare una speranza, forse, soltanto pensata e ragionevolmente utopica. Il film nella sua parte conclusiva sussurra la riflessione in maniera diretta, a dimostrazione di come lo stile del giovane Cogitore, videoartista e fotografo oltre che regista, risente dell'uso della voice off d'ispirazione godardiana, ribadendo il suo personale mondo che non sta né fuori, né dentro quello che conosciamo.
​E se di colpo le guerre svanissero nel nulla?

Vincenzo Verderame

Sezione di riferimento: Torino 33

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Scheda tecnica

Titolo originale: Ni Le Ciel Ni La Terre (The Warkhan Front)
Anno: 2015
Regia: Clément Cogitore
Sceneggiatura: Clément Cogitore, Thomas Bidegain
Fotografia: Sylvain Verdet
Musica: Eric Bentz, Francois-Eudes Chanfrault
Durata: 100'
Attori: Jérémie Rénier, Kévin Azais, Swann Arlaud, Marc Robert

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TORINO 33 - Me and Earl and the Dying Girl, di Alfonso Gomez-Rejon

25/11/2015

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Ennesimo filmettino indie, si potrebbe dire, questo Me and Earl and the Dying Girl (diretto da Gomez-Rejon, non poco casualmente partorito dai lidi televisivi statunitensi e qui alla sua seconda opera cinematografica); eppure, se lo si pensa spogliato da ogni topos del genere, i cui limiti abbondano reiterandosi in maniera spesso fin troppo pretenziosa nella loro gemellarità, ed eludendo i plausi scontati, ma giustificabili, ricevuti al Sundance, il testo si presta, se non a una lettura stratificata (soprattutto laddove la natura stessa evita un introiettare eccessivamente verticale), almeno a un apprezzamento delle sue virtù di facciata, di accoglimento estetico, di giradischi oliato pensato e racchiuso in se stesso.  
Lo si evince dall'ormai sconfinato pozzo d'appartenenza semantica, il fatto che un film di questo tipo possa compiacersi nel suo essere, come tutti gli altri, perfettamente funzionale e servizievole nei confronti di un ultra-citazionismo esibito di cinefilia (qui) isterica, a rimbalzare forsennatamente giochi iper-testuali; e tuttavia, epurandolo dalle sovrapposizioni di superficie furba ed accattivante, quello che da noi è mutato in Quel fantastico peggior anno della nostra vita (e per una volta, avrebbe potuto esser peggiore anche il traslato) lavora soprattutto come un'intelligente macchinetta ironica, nel suo essere macchietta e rielaborazione camuffata di cliché al contempo, ma giovandosi di un impianto comico divertito (e divertente), mitragliando raffiche di battute a ritmo soppesato e servendosi del solito scrittore-sceneggiatore che dall'omonimo libro ne ha tratto uno script d'integra efficienza.

Lontano, lontanissimo da qualsiasi tentativo più o meno recente di contestualizzare tragicomiche storie (e sempre, sempre lacrimevoli) di teenager sfigati e ben vestiti ammalati di cancro (sovviene il bruttissimo Now is Good e l'altrettanto mozzo Restless), qui si racconta del liceale Greg alle forzate prese con la vicina di casa Rachel (Olivia Cooke) ammalata di leucemia, para-eroi di questi universi trasognati, e dei sei mesi della loro neo-nata amicizia; a fare da controcampo, il "collega" di sempre Earl, con cui Greg spartisce i dolori dell'essere giovane outsider in una scuola ancor più roboante di comparse umane dissociate (il dark, l'insegnante di storia che ne fa dei protégé, la ragazza prorompente e irraggiungibile) e parodiche. 
Entrambi piccoli geni dello stop-motion, fuso nei loro caricaturali remake di opere classiche dell'idolatrato cinema, il film si riavvolge programmaticamente, tra gli schiaffi di una camera virtuosa e mobile e il concatenarsi di fatti irriverenti e una sceneggiatura che tenta di distruggere, almeno per buona parte dell'opera, ogni potenziale dislivello drammatico insito nella sua materia prima. Rachel imparruccata come la più bella Natalie Portman, Greg a imitare Herzog e a parlare con il poster di Wolverine; tutto sembra non voler protendere verso un raccoglimento conclusivo fin troppo manualistico, e forse nemmeno obbligato (la ragazza morente, appunto), mentre per metabolizzare lo sfortunatamente adagiato e soffocato finale ci si guarda guardare Greg e Doinel e la loro corsa verso il mare, a desertificare futuri e a bearsi di una formazione adolescenziale forse compiuta nei suoi panni più melanconici, seppur scevra di sotterraneità rischiose che possano collimare con la leggerezza di fondo. Ancora una volta a dirsi come vivere (in un film). 
L'affossamento nell'ultima (inevitabile?) tristesse, proiettata su un muro d'ospedale e sul volto piangente di Rachel, a morire osservando il cortometraggio che gli amici hanno confezionato per lei, con sovraesposto tentativo (riuscito) di caricare il filmico sul filmico, si intreccia con un'acquisita e conquistata autoaffermazione del proprio io in evoluzione (esattamente come accadeva  in The Perks of being a Wallflower), a formare un arco completo di cognizione ego-riferita e di cultura relazionale.
​Nulla di nuovo, si dirà. Ma l'ammiccamento, almeno in questa sede, riesce a non devastare gli argini del consentito, evitando di sfregiare il narrativo e conservando una robustezza di forma specifica parzialmente coesa e intonata, senza patinare, senza elucubrare morbosamente (si vorrebbe azzardare Mistress America, in altre zone). Tutto il possibile empatico e l'economia narrativa, a sguazzare nell'invidiabile sfrontatezza di un humor nero e il suo sottotesto - con Brian Eno a curarne una più che modesta seppur presentissima soundtrack - fanno il resto. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Regia: Alfonso Gomez- Rejon
Interpreti: Thomas Mann, Olivia Cooke, Rj Cyler
Sceneggiatura: Jesse Andrews
Fotografia: Chung-hoon Chung
Musica: Brian Eno
Anno: 2015
Durata: 105'
Uscita italiana: 3 dicembre 2015

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TORINO 33 - Evolution, di Lucile Hadžihalilović

25/11/2015

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Un luogo indefinito. In un tempo altrettanto indefinito. Un piccolo villaggio in un'isola affacciata sull'oceano, abitata solo da bambini e dalle rispettive madri. Senza alcuna traccia di uomini. Una terra misteriosa che abbraccia in ogni istante le acque. Un ospedale in cui i bambini vengono periodicamente ricoverati affinché le infermiere possano compiere su di loro bizzarri e inquietanti esperimenti. Strani riti notturni che coinvolgono le madri presenti sull'isola. Istinti primordiali a braccetto con orribili trattamenti volti alla rigenerazione della razza e a una sorta di procreazione assistita. Silenzi e angosce, granchi e stelle marine. Uno dei bambini/cavia, Nicolas, unico a comprendere come ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in tutto ciò che accade, e unico a provare in qualche modo a indagare per scoprire la verità.

Questa, in termini molto generici, la trama di Evolution, una delle più liete sorprese di Torino 33. Diretto da Lucile Hadžihalilović, nata in Marocco ma residente in Francia da molti anni, compagna e collaboratrice di Gaspar Noé e già autrice nel 2004 dell'apprezzatissimo Innocence, il film vede la luce dopo una lunga gestazione, dovuta alla difficoltà di trovare i finanziamenti necessari per la realizzazione. Una fatica a cui è facile credere, data l'estrema complessità narrativa dell'opera e i suoi tanti significati nascosti.
Amniotico, ansiogeno, androgino, il lavoro della Hadžihalilović cala sin dal primo istante la vicenda in una dimensione parallela in cui la realtà incubale del racconto devia verso contorni sfumati, incerti, guardinghi, ardui da decriptare eppure estremamente affascinanti e coinvolgenti.
Il mondo di Evolution stritola e annulla i confini tra sesso maschile e femminile, ribaltando l'ancestrale ruolo riproduttivo della donna a (s)vantaggio di bambini ingravidati artificialmente allo scopo di estrarre dai loro corpi piccoli feti che più avanti nel tempo sostituiranno poi le donne proseguendo lo sviluppo della nuova razza. O almeno, questa è solo una delle possibili interpretazioni di una pellicola che glorifica se stessa nel non-detto, instillando una mole di dubbi nella testa dello spettatore ma trovando insieme il modo di ipnotizzarlo, in virtù di una messinscena melliflua e capace di cavalcare onde di terrore senza peraltro mai perdere di vista la brillantezza compositiva. Non a caso, in conferenza stampa, l'autrice ha dichiarato di essere cresciuta nutrendo un sostanzioso amore per quel cinema horror in grado di coniugare ferite emotive ed eleganza estetica; una passione trasposta in scena con risultati ottimali.
Senza compromessi, con coraggio e determinazione, la Hadžihalilović mette sul piatto una ricetta eterea e opprimente, dicotomia che si espande attraverso icastiche inquadrature ad ampio raggio, poetiche scene subacquee e inserti di notevole impatto visivo (la Tv che trasmette la registrazione di un parto cesareo ripreso nei minimi dettagli, la cronenberghiana asportazione dei feti, lo yuzniano baccanale orgiastico compiuto dalle madri a contatto con la Madre Terra). Lo spettatore si trova racchiuso in una bolla conturbante che lascia defluire mutevoli sensazioni dai volti angosciati dei bambini/vittime, dai disegni con cui Nicolas immagina cose comuni (giraffe, automobili) che in realtà mai ha potuto vedere, ma anche dai tratti elfici delle (presunte) mamme e dagli sguardi asettici delle infermiere, tra le quali spicca il viso di Roxane Duran, giovane promessa del cinema francese già vista in 17 filles, Respire di Mélanie Laurent e La famille Bélier. Tutto intorno l'oceano, strumento di vita e infinita rinascita, nonché immenso guardiano di raccapriccianti sperimentazioni compiute in nome di uno scopo che a conti fatti non abbiamo il potere di conoscere fino in fondo.
Fluido, languido, disturbante nella semi-immobilità che lo avviluppa, Evolution porta con sé un messaggio di morte e resurrezione, fusione e riqualificazione, sino ad abbracciare un epilogo, coerentemente aperto a livello interpretativo, in cui il piccolo Nicolas e l'infermiera Stella si lasciano almeno un'ultima scelta: completare la mutazione e accoccolarsi una volta per sempre giù, nel morbido grembo marino, o invece risalire su, verso il sole e il futuro che verrà. Qualunque esso sia.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Regia: Lucile Hadžihalilović 
Sceneggiatura: Lucile Hadžihalilović, Alanté Kavaïté, Geoff Cox
Anno: 2015
Fotografia: Manu Dacosse 
Montaggio: Nassim Gordji-Tehrani 
Scenografia: Laia Colet 
Attori: Max Brebant, Roxane Duran, Julie-Marie Parmentier
Durata: 81'

ESTRATTO DELLA CONFERENZA STAMPA DI
LUCILE HADZIHAILOVIC, TORINO, 24/11/2015
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TORINO 33 - Love & Peace, di Sion Sono

24/11/2015

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Il cinema come identità: è la chiave con cui Sion Sono affronta di volta in volta i soggetti più disparati, alla ricerca di quell'elemento comune che permetta la definizione di un personaggio o una comunità. Perché non è questione di bizzarria a tutti i costi, né della ricerca dello stupore fine a se stesso: la posta in gioco è sempre il cosa ci definisce in quanto esseri umani e società, nei suoi punti critici e in quelli virtuosi. La particolarità è il patto di tacita legittimazione che Sono chiede allo spettatore, la possibilità di unire punti altrimenti considerati lontani e che permettono di tracciare una mappa coerente ma allo stesso tempo aperta alle più svariate possibilità – da cui la sua tendenza a una produzione prolifica e molto diversificata.
​
Prendiamo questo ultimo Love & Peace, ad esempio: c'è Ryoichi, un timido impiegato vessato dai colleghi d'ufficio che diventa una superstar pop dopo aver espresso il suo dolore per la perdita dell'amata tartaruga Pikadon. Particolare da non trascurare: il nome dell'animale è lo stesso che designa le bombe atomiche e quindi crea l'equivoco della star “impegnata”. Pikadon, intanto, finisce in una sorta di rifugio degli animali e dei giocattoli dimenticati, ma continuerà a cercare la felicità del suo padrone.
Un protagonista “mutante”, dunque, che si lega a doppio filo a una tartaruga che di per sé si fa carico di una mutazione fisica e concettuale: perché, in fondo, è l'animale che nel buddhismo simbolizza la felicità e che al cinema è Guardiano dell'universo (vedi alla voce: Gamera). Ecco, il segreto dell'identità per Sion Sono è a metà strada fra la rappresentazione mitologica che chiama in causa cultura e Storia, e l'immaginario derivato dal cinema che permette la traslazione in una chiave poetica. Il messaggio di speranza e di incitamento a costruire un mondo migliore, verso la realizzazione della propria felicità, si sposa perciò a una cifra più divertita e in grado di esaltare la meraviglia.
In tal senso, Love & Peace si offre come una tenera favola natalizia sulla traccia delle memorie perdute: che sono quelle storiche (le Olimpiadi del 1964 che hanno generato il boom economico, lo sgancio delle bombe atomiche del 1945) ma anche quelle personali, del legame infantile fra l'uomo e il giocattolo o l'animale domestico, destinato a essere infranto dalle logiche voraci della società “adulta” e consumistica. La parabola di Ryoichi è in fondo questa, da personaggio introflesso e ripiegato su un mondo di sogni, a icona di massa che oggettiva il desiderio proprio e altrui, ma perde di vista il suo vero io, secondo una logica – non a caso – un po' dickensiana. La forza di Sono è il candore con cui racconta tutto questo, come una favola dimenticata e che può ancora trasmettere un messaggio di speranza; ma anche come un universo poetico che alla modernità preferisce il tocco un po' retrò dell'effetto artigianale, delle marionette, delle barbe finte, delle parrucche e della suitmation (i figuranti nelle tute di gomme per creare il mostro di turno).

L'approdo finale al kaiju eiga è così lucido e doveroso, trattandosi in fondo di uno dei generi attraverso cui il cinema di genere nipponico ha definito la propria identità, anche e soprattutto in rapporto ai modelli orientali (il film sembra quasi una sorta di versione “adulta” di Gamera the Brave, di Ryuta Tasaki): è come se, con aria divertita, il regista giapponese spingesse il suo pubblico a guardarsi allo specchio, laddove il riflesso è l'immaginario partorito da un meccanismo spettacolare che cerca di recuperare la cifra più genuina della vita. Anche per questo la storia è un continuo saliscendi, un passare repentino dalle dinamiche più “grandi” (anche in rapporto al gigantismo di Pikadon), a quelle più piccole, personali e “intime”: da cui la deriva sentimentale di un amore fra Yoichi e la collega Yuko, nascosto eppure esplicito, ma destinato a restare l'unico filo narrativo non urlato, discreto, che non trova nemmeno la più completa delle risoluzioni, affidandosi al fuoricampo e alla speranza dello spettatore.
Il doppio passo è in fondo reso esplicito dalla marcia finale di Pikadon, fra il gigantismo dei palazzi che ricreano il gioco da tavolo del rapporto iniziale con Ryoichi: si scherza, ma non troppo, e il cinema spettacolare torna a essere veicolo di pulsioni più profonde. In fondo così si faceva un tempo, giusto per restare in tema di memoria...

Davide Di Giorgio

Sezione di riferimento: Torino 33

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​Scheda tecnica

Titolo originale: id.
Anno: 2015
Regia: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono (ispirato all'omonimo manga)
Fotografia: Nobuya Kimura 
Musica: Yasuhiko Fukuda 
Durata: 103'
Attori: Hiroki Hasegawa, Kumiko Aso, Toshiyuki Nishida

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TORINO 33 - The Hallow, di Corin Hardy

23/11/2015

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Al Torino Film Festival arriva dall’Irlanda The Hallow, opera prima di Corin Hardy. E subito diviene chiaro come l’appartenenza geografica sia un aspetto tutt’altro che secondario della pellicola, ancorata com’è al folklore e alla mitologia popolare di un territorio che si trasforma quasi in personaggio a se stante, con le sue foreste e la sua campagna che sembrano nascondere un segreto, una minaccia (o una storia) dietro ogni albero e cespuglio. 
La vicenda è quella di Adam, giovane botanico che si reca nei boschi insieme alla moglie e al figlio neonato; il suo lavoro consiste nel catalogare e scegliere quali alberi dovranno essere abbattuti e quali no, in vista di una privatizzazione della foresta da parte di un governo messo in ginocchio dalla crisi economica. Ma gli abitanti del luogo sanno cosa si nasconde in quei luoghi millenari, e sanno anche che è bene non risvegliare ciò che la natura e il Tempo hanno messo a tacere. 
Corin Hardy esplicita immediatamente la connotazione politica della vicenda, senza mancare di citare persino la Grecia e la difficile situazione di alcuni paesi dell’eurozona. Lo fa persino troppo spudoratamente, sfiorando un didascalismo che sulle prime sembra appesantire un film che, fortunatamente, volta presto le spalle alla dimensione sociale e politica per sfociare nell’orrore più puro: quello composto da creature mostruose e maligne che si nascondono nell’oscurità di un ambiente bucolico che, da solo, richiama alla memoria tutta una lunga tradizione gotica. E allora The Hallow si palesa ben presto per quello che realmente è, ovvero un cinema di mostri dal sapore ricercatamente retrò: senza CGI, derive giovanilistiche o facili ammiccamenti. 
L’adesione al genere e ai suoi stilemi è pura e cristallina, e Hardy dimostra un talento visivo considerevole, riuscendo nell’impresa di mettere in scena un orrore ancestrale sfruttando al meglio il paesaggio e la provincia irlandese. Un cinema che non si limita a raccontare una terra, bensì che si immerge in essa (anche letteralmente) senza paura di mostrare il fango e il sangue; è certamente questo l’aspetto più interessante del film, che Hardy dedica coerentemente a Stan Winston, Ray Harryhausen e  Dick Smith, ovvero i simboli di un pensare il cinema fantastico e dell’orrore che non può assolutamente prescindere dall’artigianato. 
Rimane in ogni caso l’amaro in bocca per un prodotto che a tratti vorrebbe espandere la dimensione del proprio discorso, andando a sfiorare tematiche come il rapporto uomo/natura e l’istinto di sopravvivenza insito all’interno del nucleo famigliare: idee certamente non nuove e ormai fin troppo abusate, ma che in ogni caso rimangono appena accennate, in favore di una rilettura più immediata e meno autoriale del genere. Un film riuscito a metà, ma un’opera prima che rimane comunque un ottimo biglietto da visita per un talento visivo da tenere in stretta considerazione per il futuro (e infatti pare che Hardy sia già stato ingaggiato per dirigere il più volte rimandato remake de Il corvo). 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Titolo originale: The Hallow (conosciuto anche come The Woods)
Anno: 2015
Regia: Corin Hardy
Sceneggiatura: Corin Hardy, Felipe Marino
Fotografia: Martijn Van Broekhuizen
Montaggio: Nick Emerson
Musica: James Gosling
Durata: 97’
Attori: Joseph Mawle, Bojana Novakovic, Michael McElhatton, Michael Smiley

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TORINO 33 - Paulina (La Patota), di Santiago Mitre

22/11/2015

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“Una delle sfide che La patota ci pone riguarda il rispetto delle decisioni che non condividiamo. È facile rispettare scelte identiche a quelle che avremmo fatto noi stessi, ma è praticamente impossibile provare a comprendere ciò che riteniamo sbagliato. Perché Paulina prende quella decisione? Cosa sta cercando, e cosa vuole dimostrare? Ce lo siamo domandati in ogni momento del film e continuiamo a farlo anche adesso.”

Le parole di Santiago Mitre, regista argentino classe 1980, qui al suo secondo lungometraggio dopo El estudiante (2011, premiato a Locarno), ben riassumono il senso profondo racchiuso all'interno di Paulina (La Patota), film reduce dalla vittoria alla Semaine de la Critique dell'ultimo festival di Cannes e ora presentato in concorso a Torino. Un lavoro che naviga con coerenza nel mare dell'incertezza, ponendo diverse domande senza peraltro fornire risposte, lasciando in eredità riflessioni mutevoli racchiuse negli occhi dolenti ma sempre determinati della sua protagonista.
Paulina ha 28 anni, è figlia di un potente giudice e ha un brillante futuro di avvocatessa davanti a sé. Eppure decide di deviare dalla comoda strada che ha di fronte, per partecipare a una missione umanitaria destinata all'insegnamento dei diritti fondamentali a ragazzi disagiati che vivono in una zona periferica situata al confine tra Argentina, Paraguay e Brasile. La sua decisione manda su tutte le furie il padre, incapace di comprendere per quale motivo la figlia possa anche solo pensare di perdere il proprio tempo con adolescenti sbandati invece di mettere a frutto i suoi studi e dare sostanza alla carriera di successo che l'attende. 
Paulina prosegue nel suo intento, si trasferisce nella scuola dove dovrà insegnare, fa amicizia con alcune colleghe, prova a inserirsi nella nuova e difficile realtà. Quando le cose iniziano a ingranare, sulla donna si abbatte la sventura: una notte viene assalita da cinque ragazzi del luogo, e stuprata da uno di essi. Lo shock è dirompente, ma superate le prime traumatiche ore Paulina volta le spalle a qualsiasi prassi relativa alla giustizia, finge di non sapere chi siano i suoi aguzzini, torna a insegnare come se niente fosse accaduto, e quando apprende che a causa della violenza subita è rimasta incinta, dimostra di non essere affatto sicura di voler abortire. 
Il bambino di Paulina è un essere che ha diritto alla vita, a discapito delle orribili circostanze in cui è stato concepito. Per questo motivo l'idea dell'aborto le risulta indigesta. Alla donna oltretutto non interessano né la vendetta, né tantomeno lo stancante iter giudiziario necessario a condannare i colpevoli. Ciò che le preme è soltanto comprendere i perché dell'accaduto. Trovare proprie risposte, proprie verità. Superare il terrore e ragionare sui fatti e le circostanze. Forse anche concedere una possibilità di redenzione ai suoi carnefici. Ma soprattutto, con intima urgenza, capire.
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Sorretto dalle buone interpretazioni di Dolores Fonzi (la protagonista) e Oscar Martinez (il padre progressista che tale poi tanto non è), il film di Mitre intavola sin da subito un dialogo aperto con lo spettatore, mettendo sul piatto un'ampia gamma di dilemmi morali senza peraltro, fortunatamente, arrogarsi il dovere di fornire interpretazioni, chiarimenti o conclusioni. Il tema portante della pellicola, ovvero l'incapacità che spesso abbiamo di sforzarci nell'accettare le scelte altrui, per quanto sulla carta folli esse siano, diviene specchio riflettente di una realtà fragile in cui la violenza porta con sé cause non visibili a una prima lettura, ma abbastanza evidenti qualora se ne vogliano approfondire i connotati. Lo sguardo mai domo di Paulina, prima e dopo il nero evento, rappresenta in toto il cuore pulsante di una donna che ancora trascina con sé un'incrollabile fiducia nell'uomo, in quanto creatura depositaria di diritti sacrosanti e inalienabili per il solo fatto di essere una parte attiva e presente del mondo. Un dogma cristallino, solido e feroce, al punto di non crollare neanche dopo l'abiezione.
Compatto, denso, privo di fronzoli e pervaso da una tensione silente ma palpabile, il lavoro diretto e sceneggiato dall'autore argentino scivola dalla notte al giorno, dal pianto alla speranza, dalla paura alla coraggio, dall'istinto alla razionalità, senza mai perdere di vista il sentiero intrapreso e senza mai togliere alla sua figura di riferimento l'inesausto desiderio di camminare, respirare, imparare, analizzare, perdonare. Con fierezza e dignità. Forse sola contro tutti. Ma sempre a testa alta.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 33

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Scheda tecnica

Titolo originale: La Patota
Anno: 2015
Regia: Santiago Mitre
Sceneggiatura: Santiago Mitre, Mariano Llinás
Fotografia: Gustavo Biazzi
Montaggio: Delfina Castagnino, Leandro Aste, Joana Collier 
Musica: Nicolás Varchausky 
Durata: 103'
Attori: Dolores Fonzi, Oscar Martinez, Esteban Lamothe, Cristian Salguero, Verónica Llinás

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TORINO 33 - Il programma ufficiale

16/11/2015

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​Lo scorso 9 novembre 2015 è stato annunciato presso la Casa del Cinema di Roma il programma per questa tangibilmente attesa 33esima edizione del Torino Film Festival, ideale (e reale) locus amoenus privilegiato da gran parte dei soliti frequentatori di festival cinematografici da molti anni. Non ce ne vogliano i festival “minori”, ma nemmeno le istituzioni rinsecchite e le rassegne (quasi) neo-nate e già stanche. 
Questa previsione sulla carta, a distanza di una settimana di riflessione e di irreprimibile hype, si dispiega, al solito, in tutta la sua bella potenzialità, con un’ampia e disparata gamma di titoli provenienti dalle cinematografie internazionali e mettendo a lucido monumenti del passato. Tra quest’ultimi si scomodano, nella sezione “Cose che verranno” e sotto il denominatore dello sci-fi distopico, un manipolo di nomi delle cui visioni ci si bea sempre gli occhi, a partire dall’Alphaville godardiano al mai abbastanza goduto “Stalker” di Tarkovskij, ai classici di Miller e di Scott, fino ai dissotterramenti più che dovuti di Fleischer e Watkins. 
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Pur non archiviando con fretta, ma obbligatoriamente proseguendo dall’esterno al cuore pulsante di questa parata torinese, e sedando (per ora) l’immancabile frenesia quando si lambisce l’asiatico e determinate zone di culto, svettano, rimbombano in tutta la loro caratteriale e inquieta marca autoriale, i tre (!) titoli in lista del poliedricissimo Sion Sono. Costretto a distribuire tra i festival del mondo uscite cinematografiche polpose e numerose e schizofrenicamente diversissime l’una dall’altra (si ricordano sempre ben volentieri le sue sei opere pronte al rilascio), Torino, già memore della rassegna interamente dedicata al regista nel 2011, propone “Tag”, a metà tra horror e fantascienza, possibilmente sanguinolento e impazzito; “Love & Peace” che cambia registro, probabilmente dissolvendosi in una comedy/musical dispersa in una polvere (mai troppo) zuccherosa; “Shinjuku Swan”, che come prima Tokyo Tribe tenta l’adattamento da un manga, assimilandone forse la tenuta ritmica e l’impianto coloristico (auspicando, noi, in risultati dissimili). Basterebbe già, in sé, a dichiararne la non fortunata (perché ormai abituale) superiorità in campo di alchimia filmica. Citiamo, però, e in modalità del tutto obbligata, “The Assassin” del taiwanese Hou Hsiao-hsien, premiato quest’anno a Cannes con il Prix de la mise en scène, per la cui misurata e liquida regia è lecita una fiduciosa aspettativa. A lui s’aggiunge Apichatpong Weerasethakul (polimorfo autore che spazia dalla regia alla video arte) con il suo “Cemetery of Splendour”, che si promette lavoro umbratile, riflessivo e stratificato nell’affrontare fantasmi autobiografici e antichi spiriti. 
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In prossimità inglese (e, a seguire, americana), invece, scorgiamo un numero quasi imbarazzante per orizzontalità di titoli, tra i quali si fatica a sbrogliare e districare per assoggettarsi a un qualsivoglia orientamento. La vastità è tale che a isolare i nomi arbitrariamente o con selettività si compierebbe dell’eguale torto, perciò ci limitiamo a segnalare le sovraesposizioni, le appetibilità, gli echi più lunghi. Quasi a campione, a ruota libera, estraendo: Sarah Gavron (che esordì nel 2007 sempre in loco piemontese con “Brick Lane”) e il suo “Suffraggette”, fresco della triade di un cast felicemente ultra-femminile (Mulligan, Bonham-Carter e Streep); John Crowley, giovane regista di cui si ricorda il più che discreto “Boy A”, 2007, con “Brooklyn”, tormentata love story imbastita in scenari 50s; “High-rise” di Ben Wheatley, dal suo canto, oltre a un cast a fuoco (la Miller e Hiddleston), assicura una degenerazione paranoide in odore di algidità e perfezionismo della mise en scène; in sentore già statunitense, “Burnt” di John Welles, produttore d’una infinità di pellicole di successo, scardinato da un cast impazzito e diseguale (Bradley Cooper, Sienna Miller, Uma Thurman, Alicia Vikander, Lily James), a narrare l’autoaffermazione esistenziale e lavorativa di uno chef impantanato nelle sue galere mentali; trionfante al Sundance di quest’anno, “Me and Earl and the Dying Girl” di Alfonso Gomez-Rejon, che s’evince già godibile indie-teen-movie scapestrato e disfunzionale; ancora una donna a dirigere un’altra (meravigliosa) donna, nonché una Kate Winslet rossa e incattivita sotto le fila dell’australiana Jocelyn Moorhouse, con “The Dressmaker”.

Pregne anche le file dall’impronta orrifica e i lidi strettamente documentaristi, tra i quali indichiamo, per la prima delle categorie, Sean Byrne e il suo “The Devil’s Candy”, già autore del notevolissimo “The Loved Ones”, 2009, e “The Girl in the Photographs” di Nick Simon, nonché ultima fatica in qualità di produttore esecutivo per Wes Craven; nella sezione documentaria isoliamo il canto d’amore per la gente honkonghese di Cristopher Doyle, idolatrato direttore della fotografia per Wong Kar-wai, Jim Jarmusch e Gus Van Sant, e una lista davvero eterogenea di autori francesi, italiani, spagnoli, e ancora. 
Si fa un gran parlare, d’altronde, della colossale trilogia-fiume del portoghese Miguel Gomes, sorta di rielaborazione storico-sociale in chiave satirica de “Le Mille e una Notte”, mitologie innescate dalle angosciose sorti di un regista che si vede costretto a introdurre un narratore, dal quale si dipanerà poi un excursus nella terra portoghese, teatro di visionarietà drammatica. 
Ridotte, invece, le presenze francesi e dense quelle italiane, anche se ricolme, per entrambi le nazioni, di scie documentarie. Da una parte, l’opera prima dello sceneggiatore di Jacques Audiard (“Sulle mie labbra” e il recentissimo Dheepan), Frédéric Grivois, un film d’animazione e, per l’appunto, numerosi documentari; dall’altra, “La felicità è un sistema complesso” di Gianni Zanasi, immaginabile commedia nera, insieme al film di pre-apertura “Bella e perduta” di Pietro Marcello (e, comunque, moltissimi altri). 
Come sempre, si destina grande affidamento agli esordi, alle promesse, agli autori nascosti da ammirare per la prima volta. 
Davvero, buon (gran) Torino. 

Laura Delle Vedove

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