Dopo la buona accoglienza ottenuta al Tribeca Film Festival, approda anche a Torino Big Bad Wolves di Aharon Keshales e Navot Papushado (Rabies), revenge movie che lavora sulle coordinate tra i generi e sulla loro interscambiabilità.
Dopo un violento interrogatorio culminato con una serie di sevizie e torture, la polizia è costretta a rilasciare il principale sospettato per il rapimento e l’omicidio di una bambina, un timido professore di religione. Uno dei detective però è talmente convinto della sua colpevolezza da pedinarlo e agire per conto proprio, fino a quando non verrà coinvolto nel folle piano criminale ordito dal padre della bambina uccisa.
Comincia quasi come un Mystic River israeliano, seriorissimo e nerissimo, per poi lasciarsi progressivamente contaminare da toni grotteschi al limite della commedia. Keshales e Papushado dimostrano una competenza tecnica fuori dal comune, sottolineando la componente drammatica della prima parte con tutta una serie di soluzioni stilistiche (largo uso di carrelli, dolly e colonna sonora pomposa) talmente ossessive da risultare addirittura stucchevoli: progressivamente però lasciano intravedere i reali intenti alla base dell’operazione, trasformando il noir in farsa, la violenza in assurdità e il dramma in grand guignol.
Big Bad Wolves si rivela quindi una sorta di cinema da camera, a metà tra Le iene e un kammerspiel Polanskiano (e non è un caso che il film sia stato apprezzato moltissimo da Quentin Tarantino), che forse si rivela più interessante da un punto di vista sociopolitico che non da quello metalinguistico: dietro gli sviluppi di questo teatro delle crudeltà si nasconde infatti uno sguardo sulla violenza della società mediorientale e sulle dinamiche che nascono e si sviluppano all’interno di essa. L’ironia dei personaggi e dei loro dialoghi arriva a coinvolgere il rapporto tra ebrei e musulmani, tra vittima e carnefice, tra violenza che genera, inevitabilmente, altra violenza. Tutto però resta molto sulla superficie, fermandosi al livello primordiale della battuta e della risata facile, inserito all’interno di una struttura orchestrata con una certa perizia tecnica e un ritmo sostenuto che, sulle prime, sembrano attribuire al film più pregi di quanto effettivamente meriti; non sempre infatti l’alternanza dei vari registri prosegue in maniera così libera e folle come a tratti ambirebbe ad essere.
Il film di Keshales e Papushado si arresta così ai nastri di partenza, risultando un prodotto (almeno parzialmente) fuori dagli schemi, e che non sempre trova nell’assurdo e nel grottesco la giusta chiave di lettura di un mondo impazzito e fuori controllo, nel quale la violenza è l’unico linguaggio comprensibile e dove la verità non si conferma mai per quello che sembra apparire in un primo momento (il dettaglio rivelatore nel finale).
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Torino 31
Scheda tecnica
Titolo originale: Mi mefahed mezeev hara
Regia: Aharon Keshales, Navot Papushado
Sceneggiatura: Aharon Keshales, Navot Papushado
Attori: Lior Ashkenazi, Tzahi Grad, Doval'e Glickman, Rotem Keinan
Musiche: Haim Frank Ilfman
Fotografia: Giora Bejach
Anno: 2013
Durata: 110'
Dopo un violento interrogatorio culminato con una serie di sevizie e torture, la polizia è costretta a rilasciare il principale sospettato per il rapimento e l’omicidio di una bambina, un timido professore di religione. Uno dei detective però è talmente convinto della sua colpevolezza da pedinarlo e agire per conto proprio, fino a quando non verrà coinvolto nel folle piano criminale ordito dal padre della bambina uccisa.
Comincia quasi come un Mystic River israeliano, seriorissimo e nerissimo, per poi lasciarsi progressivamente contaminare da toni grotteschi al limite della commedia. Keshales e Papushado dimostrano una competenza tecnica fuori dal comune, sottolineando la componente drammatica della prima parte con tutta una serie di soluzioni stilistiche (largo uso di carrelli, dolly e colonna sonora pomposa) talmente ossessive da risultare addirittura stucchevoli: progressivamente però lasciano intravedere i reali intenti alla base dell’operazione, trasformando il noir in farsa, la violenza in assurdità e il dramma in grand guignol.
Big Bad Wolves si rivela quindi una sorta di cinema da camera, a metà tra Le iene e un kammerspiel Polanskiano (e non è un caso che il film sia stato apprezzato moltissimo da Quentin Tarantino), che forse si rivela più interessante da un punto di vista sociopolitico che non da quello metalinguistico: dietro gli sviluppi di questo teatro delle crudeltà si nasconde infatti uno sguardo sulla violenza della società mediorientale e sulle dinamiche che nascono e si sviluppano all’interno di essa. L’ironia dei personaggi e dei loro dialoghi arriva a coinvolgere il rapporto tra ebrei e musulmani, tra vittima e carnefice, tra violenza che genera, inevitabilmente, altra violenza. Tutto però resta molto sulla superficie, fermandosi al livello primordiale della battuta e della risata facile, inserito all’interno di una struttura orchestrata con una certa perizia tecnica e un ritmo sostenuto che, sulle prime, sembrano attribuire al film più pregi di quanto effettivamente meriti; non sempre infatti l’alternanza dei vari registri prosegue in maniera così libera e folle come a tratti ambirebbe ad essere.
Il film di Keshales e Papushado si arresta così ai nastri di partenza, risultando un prodotto (almeno parzialmente) fuori dagli schemi, e che non sempre trova nell’assurdo e nel grottesco la giusta chiave di lettura di un mondo impazzito e fuori controllo, nel quale la violenza è l’unico linguaggio comprensibile e dove la verità non si conferma mai per quello che sembra apparire in un primo momento (il dettaglio rivelatore nel finale).
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Torino 31
Scheda tecnica
Titolo originale: Mi mefahed mezeev hara
Regia: Aharon Keshales, Navot Papushado
Sceneggiatura: Aharon Keshales, Navot Papushado
Attori: Lior Ashkenazi, Tzahi Grad, Doval'e Glickman, Rotem Keinan
Musiche: Haim Frank Ilfman
Fotografia: Giora Bejach
Anno: 2013
Durata: 110'