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IL COLTELLO NELL'ACQUA - Tensioni sopite

12/11/2013

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«Ci sarà qualcosa, più tardi, che si riempie di te e si alza a una bocca. Dal delirio frantumato mi sollevo e guardo la mia mano, come traccia il solo unico cerchio.»

(Paul Celan, da Zeitgehöft. Späte Gedichte aus dem Nachlass, 1976)

In un nero vinilico, tra larghe pennellate di grigi corposi e stratificati, si delineano due figure, un uomo e una donna, marito e moglie; in sottofondo scorrono le note gelide di un sassofono, il jazz di Komeda, che introduce lo spettatore nell’algida atmosfera di Il Coltello nell’acqua. Corpi vicini, avvolti da glaciali silenzi, volti che si palesano lentamente emergendo dall’oscurità; da subito si avverte una forte tensione psicologica, sottolineata dal mutismo e dallo stridere delle note in sottofondo. Una quiete apparente cela tempeste e uragani, pari a quelle che gonfiano i mari in Snow Storm: Steam-Boat off a Harbour's Mouth (1842) o in The Shipwreck (1805), di Joseph Mallord William Turner.
La tensione affiora dalle prime scene e mette in luce un rapporto di coppia in cui gli equilibri sono palesemente sbilanciati: la supremazia dell’uomo nei confronti della moglie, notevolmente più giovane, è sottolineata da un atteggiamento quasi dittatoriale, riflesso di una dialettica tipica della famiglia medio borghese dei primi anni ‘60. Andrea (Leon Niemczyk), giornalista sportivo, e sua moglie, Cristina (Jolanta Umecka), sono diretti in macchina verso i laghi Masuri; il loro viaggio è inaspettatamente interrotto da un giovane autostoppista (Zygmunt Melanowicz), che trascorrerà con la coppia le successive ventiquattro ore, a bordo del loro yacht.
Lo sguardo di Roman Polanski, in completa dissonanza con quello che era l’orientamento del cinema polacco di quegli anni, preferisce soffermarsi sul rapporto di coppia e focalizza l’attenzione sui corpi, sulle dinamiche psicologiche ed emozionali che si instaurano tra i tre personaggi; traccia i segmenti di un triangolo umano dotato di angoli acuti. Andrea incarna perfettamente lo stereotipo dell’uomo d’affari, rigido, poco incline al dialogo e più propenso al comando e all’impartire ordini, ad imporre la sua superiorità di “maschio” sia nei confronti della moglie che verso il giovane autostoppista, con il quale instaura un rapporto che oscilla tra la competizione e, a tratti, una complicità che stenta a prendere piede. Cristina, giovane e bella, tollera e subisce il carattere del marito e sembra quasi rassegnata alle imposizioni dell’uomo, come si palesa nelle sequenze in cui i due guidano insieme la barca tra le onde del lago; un rapporto quasi militaresco, tra mozzo e capitano. L’arrivo del terzo metterà in luce le problematiche sopite all’interno della coppia: come un coltello che si insinua tra i due squarcerà il velo di Maya, gettando luce su frustrazioni e stati emotivi repressi, spesso taciuti.
Il giovane, come in Teorema di Pasolini, sovverte le regole preesistenti all’interno della coppia, è un elemento esterno affascinante ed anarchico, metafora della libertà e della leggerezza, l’esatto contrario di ciò che rappresenta Andrea. Spesso Polanski lo ritrae, soprattutto nelle sequenze sulla barca, come elemento di spartizione e divisione della coppia, al centro della scena, mentre la sua figura si staglia contro il cielo. La navigazione tra i flutti del lago illumina le identità dei tre, in un crescendo emozionale continuo pronto ad esplodere. L’improvvisa tempesta sancisce il crollo delle barriere e delle sovrastrutture emozionali, la pioggia monda lo strato superficiale delle personalità dei tre e mette a nudo l’Io di ognuno.
Costretti in uno spazio ancora più stretto, nella cabina della barca, il confronto è inevitabile. La mdp si fa più vicina ai due uomini, posti uno di fronte all’altro in un momento ludico; sullo sfondo Cristina si spoglia, l’attenzione del giovane si sposta sulla donna, l’atmosfera sensuale si tinge palesemente di morbosità. I due, così caratterialmente distanti tra loro, sono in competizione anche sul piano sentimentale: il ragazzo è attratto da Cristina, che non disdegna le attenzioni del giovane, l’alternativa anarchica al suo rapporto matrimoniale, colui che forse incarna una seconda possibilità; ma la donna è consapevole che la libertà offertale dal giovane è solo apparente e preferisce vivere nell’ipocrisia di un rapporto abitudinario, algido ma solido. 
I chiaroscuri dipingono la psiche degli unici tre soggetti dell’opera, un triangolo in cui si confrontano tre generazioni distanti, tre psicologie in forte contrasto tra loro, in un gioco ambiguo e sensuale, caratterizzato da tensioni pronte ad esplodere, come accadrà nella seconda parte del film. Il triangolo è la figura perennemente presente in quest’opera, disegnato ora dalla mdp all’interno delle scene, ora più esplicito, come quando, sulla barca, i due uomini si sfidano con il coltello in un gioco: la posizione delle braccia di Andrea disegna un triangolo, all’interno del quale, in lontananza, in un campo profondissimo c’è Cristina che gioca nell’acqua. Il triangolo come la lama del coltello dell’autostoppista o come le vele issate sulla barca, o come, ancora, la sequenza in cui il giovane steso sulla poppa dell’imbarcazione diventa una perfetta metafora geometrica.
L’occhio di Polanski indugia sul rapporto tra uomo e donna, ma soprattutto sulle complicate strutture dell’animo umano; le immagini sono rigide e trasmettono dolore e tensione emotiva, la mdp è ferma, fissa l’immagine come un occhio che non vuole distogliere la propria attenzione in uno spazio dilatato da un campo medio, soffermandosi ora sul paesaggio ora sui personaggi. È la coppia borghese, con la sua ipocrisia e le sue menzogne, al centro dell’analisi polanskiana: il rapporto contaminato dalla finzione non potrebbe vivere se non di questa, la realtà e la verità restano escluse dalle dinamiche matrimoniali di Cristina ed Andrea.
Il coltello nell’acqua è il primo lungometraggio del regista polacco, formatosi presso la Scuola nazionale di cinema di Lodz, che ha preparato un’intera generazione di cineasti come Andrzej Wajda, Jerzy Skolimowski, Krysztof Zanussi. Polanski non indugia, al contrario di quanto fatto dai registi polacchi di quegli anni, come Wajda nel film Cenere e Diamanti (Papiol i diament, 1958), nella messa in scena dell’impegno civile e politico; piuttosto che al realismo predilige rivolgere il proprio sguardo alle dinamiche psicologiche tra gli uomini, in particolare sui rapporti di coppia, elemento che tornerà come costante della sua cinematografia. In Knife in the water si avverte l’influenza dei suoi primi lavori, i cortometraggi realizzati come regista nel suo periodo di studi alla scuola di cinema, come Due uomini e un armadio, 1958 e Quando gli angeli cadono, 1959, così come contiene l’ossatura che caratterizzerà i suoi film successivi.
Le tematiche ossessive del regista si palesano già in questa prima opera: l’acqua, la circolarità, il duellare continuo tra realtà e finzione, la claustrofobia e i rapporti all’interno della coppia. Gli spazi in Il coltello nell’acqua sono sempre più ridotti, si parte dall’abitacolo della macchina alla barca isolata in mezzo al lago, per poi stringersi nel cabinato dell’imbarcazione, e si finisce tornando nuovamente all’interno della macchina per l’ultimo confronto tra Andrea e Cristina, sottolineando la circolarità del tempo e dello spazio e la vittoria dell’ipocrisia matrimoniale. Si avvertono in questo film i rimandi stilistici alle opere che caratterizzarono il cinema della prima metà degli anni Sessanta, da Antonioni alla Nouvelle Vague francese, ma Polanski mantiene un linguaggio autoriale personale. I richiami al linguaggio narrativo ed alla messa in scena di Plein Soleil (1960), di René Clément, si palesano sia nelle continue umiliazioni subite dal giovane da parte del più maturo Andrea sia nell’ambientazione.
Seppur mantenga un approccio strutturale dallo stile rigoroso ed impeccabile, questo primo lungometraggio di Polanski è uno splendido esempio modernista, vicino, per alcuni versi, al cinema hollywoodiano, un esordio impreziosito dalla collaborazione nella stesura della sceneggiatura e nei bellissimi dialoghi di Skolimowski. Un’opera che poggia le fondamenta su una fotografia caratterizzata da un bianco e nero netto, tagliente e molto contrastato, che sottolinea le relazioni oppositive dei tre personaggi.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Nóż w Wodzie
Anno: 1962
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Roman Polanski, Jerzy Skolimowski
Fotografia: Jerzy Lipman
Musiche: Krzyszstof Komeda
Durata: 94’
Interpreti principali: Leon Niemczyk, Jolanta Umecka, Zygmunt Malanowicz

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MACBETH - L'urgenza di un'anima straziata

7/10/2013

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Roman Polanski è, senza dubbio, il più importante esponente del cinema polacco, un’industria che ha vissuto un profondo isolamento politico, culturale ed economico, aggravato dalla divisione che il continente europeo subì in seguito alla costruzione del muro di Berlino nel 1961. Nonostante questi presupposti, a partire dagli anni Cinquanta la Polonia vede la nascita di una nuova produzione filmica – riconducibile all’opera di Wajda e Munk – basata sulle conseguenze del secondo conflitto mondiale e su un certo smarrimento storico tipico dei paesi mitteleuropei. A questa prima generazione ne succede poi una nuova che cerca, negli anni Sessanta, di impostare le coordinate per un più netto e deciso rinnovamento stilistico.
Dopo aver terminato gli studi in regia alla scuola di Lodz, e dopo alcuni pregevoli cortometraggi, Polanski debutta nel 1962 con Il coltello nell’acqua, lavoro molto criticato in patria che spinge il regista, parigino di nascita, ad abbandonare la sua patria e condurre una carriera nomadica tra Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti d’America. Proprio all’apice della sua carriera, dopo il successo di Rosemary’s Baby, il cineasta si trova in uno dei momenti peggiori della propria vita: la moglie Sharon Tate, insieme ad alcuni amici, viene brutalmente uccisa a Bel Air mentre è all’ottavo mese di gravidanza, per mano di Charles Manson e della sua setta.
Polanski, però, con grande coraggio e dedizione all’arte che meglio rappresenta, decide di tornare al lavoro, probabilmente l’unica e inevitabile scelta per un uomo di cinema, e nel 1971 realizza la propria versione di Macbeth. La messa in scena ideata per la tragedia shakespeariana risponde a un’esigenza di fedeltà, di assecondamento del testo e, ancor di più, a un vero e proprio assoggettamento all’opera di William Shakespeare – «Se prendete un libro che amate, che ritenete interessante o geniale, allora credo sia necessario avere la modestia di sottomettersi al libro» (Roman Polanski).
Il rispetto che l'autore ripone nella sceneggiatura e nelle immagini del suo film non è però passivo; egli introduce infatti un aspetto cupo e crepuscolare che permea l’azione e i suoi personaggi e aggiunge alcune sequenze oniriche colme di violenza e di morte. Quella di Duncan, per esempio, relegata al fuori campo da Shakespeare, nel film di Polanski ha connotazioni sinistre e morbose che rendono la conquista del trono, da parte di Macbeth, terribile e maledetta.
La tragedia shakespeariana, storia di un assassinio ignobile, sospinto da brama e pazzia, è il pretesto per il regista parigino per confrontarsi con gli abissi della mente di un omicida, permettendogli di esorcizzare la sua vita reale tramite l’incessante lavorio della sua arte. Pregevole e significativa è quindi la scelta di porre in primo piano le vicende e i pensieri del carnefice Macbeth – esaltando i dialoghi e gli a parte originali – e non, per esempio, utilizzare il tessuto scrittorio della tragedia per dare risalto alla vicenda personale di Macduff che, similarmente al privato di Polanski, viene a scoprire che durante la sua assenza la sua famiglia è stata uccisa. Ed è Ross a comunicare l’indicibile: «Il tuo castello è stato colto di sorpresa, tua moglie e i tuoi bambini sono stati selvaggiamente trucidati […]».
Nessun uso strumentale, quindi, dell’intreccio narrativo o di parte di esso, bensì una messa in scena che sottostà alla cifra stilistica più fedele al testo, ma che è capace di aggiungervi anche un’insolita vena grottesca soprattutto nelle sequenze di combattimento, prive di qualsivoglia regalità o spirito cavalleresco. Scontri volgari e goffi si intrattengono tra il giovane Siward, Macbeth e, infine, Macduff, colui che metterà fine al regno del nuovo Re di Scozia. Una rivincita però senza gloria.
Macbeth non viene generalmente annoverato tra i lavori più significativi di Polanski, a causa di una presunta mancanza di visione autoriale su un testo che altri registi, Welles (Macbeth, 1948) e Kurosawa (Il trono di sangue, 1957), hanno saputo interpretare con più rigore drammatico o con maggiore personalità. Ma questa opera filmica risulta essere il frutto di un’urgenza più umana che creativa – un «Reagisci da uomo», così come Malcom suggerisce a Macduff –, che negli scambi tra vita e arte trova la sua collocazione ideale e dalla quale scaturisce la sua importanza.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Macbeth
Anno: 1971
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Roman Polanski, Kenneth Tynan
Fotografia: Gilbert Taylor
Musiche: The Third Ear Band
Durata: 140’
Uscita in Italia: 3 novembre 1972
Attori principali: Jon Finch, Francesca Annis, Martin Shaw

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