ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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BFM 34 - La Californie (In California), di Charles Redon

10/3/2016

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​Charles filma la sua fidanzata, Mathilde, ballerina di danza classica. All'inizio è solo un gioco, ma poi si trasforma in qualcosa d'altro. Una vera ossessione. Mathilde sogna di diventare prima ballerina all'Opéra di Parigi, ma ogni anno ai provini viene scartata, o perché troppo giovane o perché troppo magra. Soffre di disturbi alimentari sin da quando era ragazzina, cerca in tutti i modi di trovare la perfezione nel suo corpo e nel suo lavoro, si allena duramente per sfondare. Charles la spia, la pedina, la riprende in ogni momento della vita quotidiana: mentre mangia, mentre si esercita, mentre si cambia, mentre dorme, anche quando è nuda sotto la doccia.
​Charles ama Mathilde, è preoccupato per i suoi problemi con il cibo, ma soprattutto è irresistibilmente attratto dalla possibilità di filmare qualsiasi gesto e azione che la riguardi. Mathilde lo lascia fare, anche se in certi momenti inizia a essere stufa di questo occhio meccanico che la fissa in ogni istante. I due si trasferiscono in California, dove Mathilde trova un importante lavoro come prima ballerina; per lei finalmente arrivano il successo e una certa fama, cosa che accresce ulteriormente la “dipendenza” di Charles. Tra loro aumentano le incomprensioni e si acuisce un certo distacco; lei trova un amante e lascia momentaneamente Charles. Lui continua a spiarla anche da lontano. La fissazione scivola verso il masochismo.

Presentato nella sezione Visti da Vicino, riservata ai documentari, La Californie è senza dubbio uno dei titoli più originali e interessanti selezionati in questa edizione del Bergamo Film Meeting. A realizzarlo e interpretarlo Charles Redon, classe 1984, insieme alla fidanzata Mathilde Froustey, complice di un lavoro durante il quale finzione e realtà sanno trovare un felice punto di incontro. Se infatti nella parte iniziale sembra di assistere a un doc incentrato sul complesso rapporto affettivo tra due persone, nel corso nella narrazione l'opera cambia pelle, mutando in un vero e proprio film nel quale si racconta una storia, con tanto di svolte, colpi di scena e variazioni di prospettiva.
​L'ossessione di Charles nei confronti di Mathilde annulla i confini del pudore, infilandosi in un campo aperto dove nulla ci viene nascosto: il ragazzo riprende la compagna in ogni istante, sul lavoro e tra le pareti di casa, per le vie della città e in ospedale, ma anche nei momenti più intimi, mentre ne esplora il sesso con le dita, mentre la penetra, sfidando ogni eventuale interrogativo morale. In principio viene infatti da chiedersi se sia giusto filmare una persona con tale morbosità, e mostrarne pubblicamente pregi e difetti, problematiche e fragilità; il dubbio peraltro svanisce quando ci si rende conto che Mathilde ha dato il pieno assenso a inserire nel film ogni scena a cui abbiamo assistito, cosa infatti confermata dallo stesso Redon dopo la proiezione.
Eliminate dunque le eventuali perplessità di cui sopra, va dato atto a Redon di aver assemblato, tassello per tassello, un notevole disegno artistico in cui la struttura portante del documentario si fa altro da sé, percorrendo strade prima parallele e poi convergenti, lungo le quali si compie un viaggio che esplora le fisime di due persone che si spogliano di ogni maschera per scendere in profondità nei meandri di se stesse.
​Mathilde si scontra con il cibo e le frustrazioni del mestiere; Charles cerca a tutti i costi la qualità dell'immagine e la rappresentazione del corpo della compagna; tra i due l'amore muta in battaglia, ci si allontana e riavvicina, si prova affetto ma anche vivo disgusto, attrazione e odio, voglia di imporsi e desiderio di punirsi, in un saliscendi emotivo che tocca picchi inattesi (l'incontro di Charles con una Mistress) e finisce per appassionare come se si stesse assistendo a un film di pura invenzione, sino a giungere a un epilogo forse sorprendente, che non sveliamo nel caso in cui un distributore coraggioso decidesse di portare La Californie in Italia (cosa peraltro improbabile). 
Nell'incontro con il pubblico post-visione Redon, presente in sala e assai loquace, si è reso disponibile per soddisfare le curiosità degli spettatori. A un certo punto gli è stato chiesto “ma lei, in questo film, ci ha detto la verità o ci ha mentito dall'inizio alla fine?”. La risposta è stata molto significativa: “il film è tutta una bugia. O meglio, è una «sovrabugia», perché in tutto quello che avete visto c'è un insieme di realtà e finzione, vita vera e costruzione scenica, immediata sincerità e scelte di montaggio. Un qualcosa che va oltre alla bugia e che allo stesso tempo va oltre alla verità”. 
Proprio qui, in questa affascinante amalgama stilistica, risiede l'estremo interesse di un lavoro coraggioso e stimolante che mostra, ancora una volta, come il cinema possa travalicare qualsiasi definizione e limite.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia: Charles Redon
Anno: 2015
Durata: 78'
Montaggio: Suzana Pedro
Attori: Charles Redon, Mathilde Froustey

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BFM 34 - Parasol, di Valéry Rosier

9/3/2016

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​“L'intenzione qui è quella di mostrare come noi, in quanto esseri umani, ci comportiamo di fronte alla solitudine, al vuoto e all'assurdo che noi tutti abbiamo nelle nostre vite... Uno dei tre episodi del film si ispira a mia nonna: un giorno, all'età di 82 anni, si comprò un camper, perché aveva deciso di voler girare il mondo. Un po' di tempo dopo scoprimmo che aveva una relazione, un fidanzato, di 40 anni più giovane. Lei mi ha dimostrato che a qualunque età c'è sempre tempo per inseguire i propri sogni”.

Le parole di Valéry Rosier, regista belga classe 1977, in parte sintetizzano il concetto di fondo di Parasol, suo primo lungometraggio di finzione, presentato in concorso al Bergamo Film Meeting e ambientato in un villaggio turistico di Palma di Majorca. Lì, in un luogo in un certo modo fuori dai confini della quotidianità, si alternano tre storie che vedono protagonisti personaggi assai diversi tra loro, ma accomunati da un profondo senso di solitudine e voglia di evasione.
Annie è una signora ultrasettantenne, “scappata” da casa per inseguire un uomo con cui ha avuto un'avventura galante, anche se quest'ultimo pare non voglia più avere nulla a che fare con lei; Alfie è un ragazzo mal adattato alle regole della comunità, in cerca di divertimento ed esperienze sessuali ma incapace di seguire le basilari norme di integrazione; Péré è un uomo separato dalla moglie che guida un trenino turistico, lavoro mortalmente noioso e ripetitivo, cercando di trovare un modo per trascorrere qualche ora in più in compagnia di sua figlia, affinché lei possa considerarlo un padre migliore di quanto sia mai stato.
Tra sole e mare, spiagge e sport, palme e selfie, karaoke e locali notturni, i destini di queste tre anime si inseguono durante la (scarsa) durata del film, senza peraltro mai arrivare a convergere, come di solito accade invece in questo tipo di struttura narrativa. Rosier sceglie di non incrociare mai le diverse storie, lasciando che esse si alternino dall'inizio alla fine, in un saliscendi emozionale che senza soluzione di continuità estrapola porzione di vite nelle quali il desiderio di reinventarsi cozza con le difficoltà pratiche.
Annie insegue disperatamente l'uomo con cui ha avuto un flirt. Il figlio le telefona, preoccupato, ma lei gli chiude il telefono in faccia. Non vuole tornare a casa, le interessa solo riavere l'amante con cui ha trascorso momenti lieti e focosi. Le vengono proposte attività da svolgere con gli altri anziani ospiti del villaggio, ginnastica di gruppo e gite con tanto di cappellini e canzoncine da intonare in compagnia, ma a lei tutto ciò non interessa: vuole sentirsi ancora giovane e bella, vuole aprire le ali e godere di un po' di libertà. Alfie accetta la compagnia di due ragazzi inglesi pronti a sfruttare la sua goffaggine, si lascia trascinare attraverso una lunga notte di bagordi, finge di aver avuto esperienze sessuali in realtà mai provate e annega nei fumi dell'alcool, salvo poi ritrovarsi più solo che mai. Péré racconta bugie e si prende rischi di ogni tipo pur di poter prolungare per qualche ora la compagnia dell'amata figlia prima di riportarla dalla ex consorte, poiché la sua bambina è l'unico antidoto per dare un senso a un'esistenza altrimenti misera e priva di qualsiasi slancio.  
Annie, Alfie e Péré: personaggi maldestri, circondati dalla vacuità della non-affermazione di sé, ripresi da Rosier con uno stile frammentato, che scivola verso un epilogo moderatamente speranzoso alternando sequenze veloci e brevi inquadrature contemplative con cui scrutare la sofferenza che si nasconde dietro la maschera dei loro volti. Protagonisti che combattono per ingoiare il proprio patetismo e rinascere, scegliendo peraltro i metodi più sbagliati per dare corpo ai progetti. Figurine al contempo empatiche e asettiche, farsesche e grottesche, capaci di suscitare un mix di ilarità e pietà, artefici di sconfitte quasi autoinflitte nel tentativo di scrollarsi di dosso la ruggine che ne incrosta i cuori. 
Rapido e conciso, anche in virtù della limitata durata, Parasol è un lavoro efficace per come mostra con mano abbastanza sicura alcuni squarci contemporanei di emarginazione individuale e collettiva, tema quest'ultimo mai così attuale, in un'era in cui la fasulla socializzazione telematica affloscia i rapporti reali, riducendo spesso i legami a cibi precotti privi di odore e sapore. 

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia: Valéry Rosier
Sceneggiatura: Valéry Rosier, Matthieu Donck, François Verjans
Musiche: Cyrille de Haes e Manuel Roland
Anno: 2015
Durata: 73'
Attori: Alfie Thomsone, Yoko Père, Julienne Goeffers, Christian Care, Delphine Theodore

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BFM 34 - Toz Bezi (Dust Cloth), di Ahu Öztürk

8/3/2016

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​Nesrin e Hatun sono due donne delle pulizie di origine curda. Vivono a Istanbul, cercano un lavoro stabile senza trovarlo, e alcune volte durante la settimana lasciano per qualche ora la loro umile casa per andare a riordinare e lucidare appartamenti situati nel quartiere benestante della città. La loro quotidianità è tutt'altro che semplice: Nesrin, da poco abbandonata dal marito, si trova a dover curare e crescere da sola la figlia Asmin, con occupazioni saltuarie, nessuna assicurazione sanitaria e pochissimi soldi a disposizione; Hatun, donna forte e pragmatica, sogna di comprare un alloggio di migliore qualità, ma è circondata da un marito fannullone e da un figlio sfaticato. Le due, amiche nel profondo, condividono ansie e paure, momenti di relax e delusioni. La situazione intanto, soprattutto per Nesrin, si fa sempre più dura, tanto che la donna arriverà a prendere una decisione dolorosissima e radicale.

Presentato in concorso al BFM 34, Toz Bezi (in italiano letteralmente “straccio per la polvere”), primo lungometraggio della regista Ahu Öztürk, già selezionato quest'anno alla Berlinale, conferma una volta di più il buono stato di salute del cinema turco, che oltre ai successi internazionali di Nuri Bilge Ceylan (Palma d'Oro a Cannes nel 2014 per Winter Sleep) può contare su un'ottima base di giovani autori e autrici capaci di raccontare con molto acume piccole storie di degrado urbano e sconforto sociale.
Il film della Öztürk, basato sull'amicizia tra due donne delle pulizie che vivono tra insicurezze, speranze e croniche difficoltà economiche, pare faticare a imporsi, almeno all'inizio; l'impressione dura però molto poco, perché ben presto si entra a tutti gli effetti nel marasma che avviluppa le protagoniste, divise tra sogni di improbabile realizzazione e problematiche che rischiano di farle affondare sempre più. 
In una società attuale come quella turca, in cui le divisioni tra le classi si ampliano ogni anno che passa, il contrasto tra la povertà delle due donne e il lindore asettico delle case che vanno a pulire risulta devastante. L'impossibilità di trovare un lavoro fisso e ben pagato, i salti mortali che Nesrin deve compiere solo per riuscire a saldare l'affitto di un misero appartamento e i bisogni primari della figlia, i progetti ambiziosi e assai poco fattibili di Hatun, simboleggiano le acque agitate di vite in cui i momenti di pace si fanno attendere e si esauriscono in pochi minuti, inondati dalle asfissianti necessità che ogni giorno bussano alla porta.
La regista e sceneggiatrice, con pochi fronzoli e tanta sostanza, crea due ritratti di donna di notevole interesse, accomunati da un'amicizia sincera ma divisi da evidenti contrapposizioni caratteriali: tanto Nesrin è infatti fragile e insicura, orgogliosa e debole, quanto Hatun è invece convinta di sé e perfino strafottente (“mio marito non mi lascerebbe mai, perché indossa i vestiti che io gli lavo e mangia ciò che io gli cucino; farebbe qualunque cosa per me"). Le antinomie trovano un punto di incontro nei pochi attimi di quiete, un tè con sigaretta dopo la cena o un pettegolezzo sulle avventure adultere dei proprietari degli appartamenti in cui fanno le pulizie; lievi spiragli di luce e sorriso nella coltre di buio che le circonda. È proprio nella semplicità di questi gesti e di queste parole che l'autrice riesce a impostare la giusta alchimia tra finzione scenica e pubblico, trovando un equilibrio utile per preparare lo spettatore ai momenti più toccanti che dovranno giocoforza presentarsi.
Compatto, solido ed efficace, anche grazie alla bravura delle sue attrici, Toz Bezi (in cui compare pure Serra Yilmaz, nel ruolo di una signora borghese gretta e meschina) si lascia apprezzare senza riserve, portandoci per mano nei foschi destini di due protagoniste che lottano per dare un senso a esistenze umili che non si sono affatto scelte. Al termine della visione non sappiamo con precisione che ne sarà di loro, ma almeno siamo certi che, in un modo o nell'altro, non smetteranno di dare la caccia a un futuro migliore.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Ahu Öztürk
Fotografia: Meryem Yavuz
Anno: 2015
Durata: 98'
Attori: Asiye Dinçsoy, Nazan Kesal, Serra Yilmaz, Didem Inselel, Asel Yalin

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BFM 34 - Omaggio a Anna Karina al Bergamo Film Meeting

1/2/2016

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​Ogni anno il Bergamo Film Meeting si conferma sempre uno degli appuntamenti cinefili più belli e interessanti di tutto il panorama nazionale. Un evento imperdibile, che a ogni edizione propone tantissime idee pregevoli e innumerevoli suggestioni con cui glorificare il cinema d'autore del presente e del passato, regalando ad appassionati e addetti ai lavori un programma ricchissimo e stimolante.

Anche l'edizione 34 del festival bergamasco, in calendario dal 5 al 13 marzo, non fa eccezione, a partire da un ampio omaggio dedicato a Anna Karina, attrice di origine danese arrivata in Francia nel 1958, musa godardiana per eccellenza, nella vita come nell'arte, e protagonista di molti capolavori del cinema internazionale.
La Karina ha recitato in 8 film di Godard, di cui è stata anche compagna dal 1961 al 1968, a partire da Le Petit Soldat. Oltre al suo marito e mentore, negli anni ha lavorato, tra gli altri, con il compianto Jacques Rivette, purtroppo scomparso da pochi giorni (Suzanne Simonin, la religieuse), e con Luchino Visconti (Lo straniero), Agnes Varda (Cléo de 5 à 7), Roger Vadim (La ronde), Franco Brusati (Pane e cioccolata), Fassbinder (Roulette cinese), Schlöndorff (Michael Kohlhaas), Tony Richardson (Laughter in the Dark), George Cukor (Justine), Jonathan Demme (The Truth About Charlie), senza dimenticare le sue prove come regista, da Vivre Ensemble (1973). Molti di questi titoli saranno proposti durante il festival, per un corposo omaggio di complessivi 12 film. La Karina, attrice di cinema ma anche di teatro (per Rivette e Bergman) nonché cantante (a fianco di Serge Gainsbourg) sarà presente a Bergamo.

Questa apprezzabilissima idea segue altre proposte simili già sviluppate con successo negli ultimi anni (il polar francese, la strepitosa retrospettiva integrale di Robert Guédiguian) e sarà soltanto una tra le tante suggestioni presenti al BFM. Ci saranno infatti anche una retrospettiva dedicata al maestro del cinema ungherese Miklós Jancsó, i consueti focus su registi europei contemporanei poco conosciuti in Italia, il concorso lungometraggi, i documentari, eventi collaterali, mostre, proiezioni per le scuole, per un totale di oltre 140 film, in cui navigare senza tregua tra scoperte attuali e glorie del passato. Una manifestazione di irresistibile fascino, ormai quasi un miracolo in un paese dove gli eventi di miglior livello culturale scompaiono uno dopo l'altro. 
Anche quest'anno non mancheremo di partecipare, per poi fornirvi un resoconto delle opere più sorprendenti, come già accaduto nel 2014 e nel 2015 su queste pagine con ottimi titoli (mai distribuiti nelle sale) come La dune, Silmäterä, Modris, Amnesia e Walking with Red Rhino.

Sul sito ufficiale tutte le indicazioni sul festival e, prossimamente, il programma completo.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Report

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BFM 33 - Walking with Red Rhino - A spasso con Alberto Signetto, di M. Moretti

14/3/2015

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Rinoceronte. Un animale grosso, ingombrante, infido, poco addomesticabile. Ma anche coraggioso, tanto da sfidare spesso bestie più grandi di lui. Un animale in cui si è sempre riconosciuto perfettamente Alberto Signetto, protagonista di Walking with Red Rhino, bellissimo documentario diretto da Marilena Moretti e presentato in anteprima al Bergamo Film Meeting.

Regista. Filmmaker indipendente. Documentarista. Videomaker. Metteur en scène. Chiamatelo come vi pare. Alberto Signetto era tutto questo, e molto di più. Un “cineasta marginale”, come lui stesso si è definito. Un uomo che ha trascorso un'intera vita inseguendo il suo sogno d'amore per l'arte, voltando le spalle a ogni convenzione, a ogni facile scorciatoia, per continuare sino all'ultimo a portare avanti le sue idee di sperimentazione, contaminazione del linguaggio, libertà espressiva, rappresentazione del cinema come inesauribile strumento di scoperta e creazione.
Nella sua carriera Signetto ha fatto un po' di tutto: reportage di concerti dei Rolling Stones per la RAI, documentari di carattere industriale, videoclip dei Righeira, film surrealisti. Sempre con una straordinaria originalità e sempre sul margine del rischio. Spesso oltre. Signetto ha vissuto per tanti anni in condizione di indigenza economica, tirando avanti come capitava, traslocando in continuazione da una casa all'altra, con pochissimi soldi in tasca ma tante idee sempre a bollire nel cervello.
Alla fine degli anni Settanta si fece assumere come assistente/tuttofare volontario per poter essere presente sul set dell'ultimo film di Anghelopoulos. Adorava Godard, Raoul Ruiz, Jean Rouch e Robert Kramer, simbolo dell'underground. Aveva una conoscenza cinefila sterminata, da cui nascevano citazioni continue anche nei momenti più impensabili. Voleva fare un film filosofico su Bataille, ma sapeva che se l'avesse proposto a qualsiasi produttore sarebbe stato sbattuto fuori a calci nel sedere. Girava film impossibili da immettere sul mercato, senza comunque mai rinnegare la propria volontà di scavare nei sentieri dell'immaginario, perché “le storie sono già state raccontate tutte; a me interessano i concetti”. Era un uomo sagace, con la battuta sempre pronta, una cultura sopraffina e un po' di sana immodestia. All'estero era apprezzato ma in Italia, al di fuori della sua Torino, non lo conosceva quasi nessuno.

Sono soltanto piccoli frammenti di ciò che era e rappresentava Alberto Signetto, morto nel 2014 per un tumore. Una vita piena di sbagli, pazzie, “vaccate che puntualmente rimpiangevo il giorno dopo ma che adesso sono solo felice di aver fatto”. Marilena Moretti lo ha seguito per tre anni, incontrandolo in più occasioni, assemblando poco alla volta un documentario nel quale diversi stralci di intervista si alternano con vari spezzoni dei lavori di Signetto. La regista ha continuato a filmarlo sino a poche settimane prima della morte, avvenuta al termine di una battaglia dura, deprimente, che ha profondamente segnato il fisico di Signetto trasformandolo nella controfigura del grosso uomo che era, ma che fino all'ultimo respiro non gli ha tolto la sua anima di combattente.
Per quasi due ore la Moretti ci porta nel complesso e affascinante universo di Red Rhino, nei filmati d'epoca, nei suoi ricordi, nelle sue case, in una peregrinazione che ormai negli ultimi anni era diventata “una vita che trascorre tra un trasloco e l'altro”. Ci conduce per mano nel caos lucido di tutto il materiale raccolto da Signetto nel tempo, una sterminata collezione di giornali, libri, riviste, videocassette, posters, gadget cinefili, pass dei festival a cui era invitato: un meraviglioso guazzabuglio che inorgogliva Alberto ma lo preoccupava anche, perché “queste sono le mie cose: le tocco, le annuso, le uso, le voglio sempre con me, e ho paura che vadano perse chissà dove”. 
Poi, a un certo punto, il documentario ci catapulta dentro la malattia di Signetto, ossessionato dalla voglia di cinema al punto di filmare le sue stesse sedute di chemioterapia e addirittura filmare il suo stesso sangue sparso sul pavimento subito dopo una violenta emorragia.
La parte finale assume contorni vibranti, commoventi: in un giorno d'ottobre la Moretti lo va a trovare, capisce che potrebbe essere l'ultima volta che lo vede, che il percorso in qualche modo condiviso con lui per oltre tre anni è giunto al termine; così si prepara all'addio, gli dice “devo ringraziarti, per moltissime cose” e si ferma, muta, incapace di proseguire, dominata dall'emozione. La stessa emozione che proviamo noi spettatori. 
È l'epilogo di un lavoro da lodare e applaudire, utilissimo sia per raccontare la vita di un uomo che avrebbe meritato ben altri riconoscimenti rispetto a quelli che (non) ha avuto, sia per porsi come rappresentazione di tutte quelle persone che sempre, contro tutto e contro tutti, lottano per portare avanti le proprie convinzioni. Persone cocciute e indomabili, rinoceronti pronti a caricare l'uomo bianco pur sapendo che probabilmente saranno sopraffatti. Una volta e poi un'altra. Ancora e ancora. Ma che si leccheranno le ferite e ripartiranno, di nuovo. Fregandosene di ciò che il mondo sussurra alle loro spalle. A testa alta. Mai domi. Mai rassegnati. Mai davvero sconfitti.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Marilena Moretti
Montaggio: Paolo Favaro, Danilo Pettinati
Produzione: Rossofuoco Film
Anno: 2014
Durata: 109'
Pagina Facebook del film: Walking with Red Rhino

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BFM 33 - Anderswo (Anywhere Else), di Ester Amrami

11/3/2015

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“Saudade” è un termine intraducibile. O meglio, ha molti significati: malinconia, nostalgia di un luogo, mancanza di un qualcosa che si ha la sensazione di aver perso per sempre; in realtà, però, la parola stessa non ha una vera e definita traduzione, così come altri vocaboli a cui Noa sta lavorando per la sua tesi di laurea, incentrata sulla creazione di una sorta di dizionario di espressioni non-traducibili. Al contempo la Saudade è anche il sentimento che naviga a vista nel cuore della ragazza, israeliana trentatreenne che da diversi anni vive a Berlino insieme a Jörg, trombonista con il quale condivide una relazione solo in apparenza soddisfacente e serena. 
Noa è inquieta, triste, scontenta di un presente che non le appartiene (più). Decide dunque di tornare per qualche giorno in Israele, dalla sua famiglia, nella speranza che il calore della terra in cui è nata le dia un po' di pace e una nuova spinta. Ma i rapporti non idilliaci con la madre, il fratello e la sorella le fanno velocemente capire che nemmeno quello è il posto giusto per lei. L'unica parente con cui Noa ha un legame speciale è l'amata nonna, che però si ammala gravemente proprio quando la ragazza è in procinto di tornare a Berlino. Così Noa prolunga il suo soggiorno israeliano, raggiunta a sorpresa da Jörg, per assistere la nonna e al contempo continuare a cercare di sistemare il caos emotivo che la sovrasta.

Presentato in concorso al Bergamo Film Meeting, Anderswo è il primo lungometraggio di Ester Amrami, autrice nata in Israele ma da molto tempo residente a Berlino, un po' come la protagonista del suo film, centro focale di un eterogeneo gruppo familiare in cui in fondo tutti sono accomunati dall'infelicità. Noa è lo specchio in cui si riflettono molteplici anime in subbuglio: una madre soffocante e vulcanica, una sorella in perenne stato di semi-depressione, un fratello che lavora nell'esercito ma vorrebbe solo andarsene altrove, un padre paranoico, una nonna segnata dai lutti. Intorno a loro Israele, l'identità forte di un popolo fiero delle proprie traduzioni e le evidenti contrapposizioni con quella fredda Germania a cui Noa si è abituata più per necessità che per voglia.
Lì, a casa, la temperatura è molto più alta rispetto a Berlino; fa caldo, c'è più sole, l'aria è più pulita, il cibo è migliore. Eppure bastano pochi giorni (anzi, poche ore) a Noa per accorgersi che nemmeno il suolo patrio è in grado di donarle quelle certezze smarrite chissà dove, quella pace volata via nel grigiore della vita, quella direzione verso un futuro che al momento pare non avere alcuna strada. Anderswo è il ritratto, genuino ed essenziale, di una giovane donna in transito nei non-luoghi della coscienza, alla disperata e infruttuosa ricerca di un senso che possa abbracciare sia l'oggi che il domani, dando un sapore nuovo a un'esistenza sbiadita. 
Per costruire il loro film la Amrami e lo sceneggiatore Momme Peters intavolano due linee di condotta, la commedia e il dramma esistenziale, cercando in più punti un ideale incrocio stilistico; operazione senz'altro riuscita. L'introspezione psicologica della protagonista e dei personaggi che la circondano non scava molto in profondità, ma l'unione tra spunti dolorosi, situazioni grottesche, improvvise tenerezze e scatti rivolti alla risata crea un oggetto filmico fresco, piacevole, denso ed efficace, anche grazie alle convinte interpretazioni degli attori coinvolti, in particolare Neta Riskin (l'irrequieta Noa) e Hana Laslo (la scatenata madre). 
Da queste figure in perenne disequilibrio nasce una bella riflessione dedicata all'alienazione del mondo contemporaneo, contenitore di esseri smarriti in un limbo spazio-temporale in cui spesso si resta invischiati e intrappolati come farfalle senza più ali.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia: Ester Amrami
Sceneggiatura: Momme Peters
Fotografia: Johannes Praus
Musiche: Fabrizio Tentoni
Attori: Neta Riskin, Golo Euler, Hana Laslo, Hana Rieber
Anno: 2014
Durata: 87'

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BFM 33 - Amnesia, di Nini Bull Robsahm

11/3/2015

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Kathrine e Thomas sono due scrittori. Sposati. Lui ha già pubblicato diversi libri di successo, lei sta cercando di terminare il suo primo romanzo. Decidono di andare a trascorrere un paio di giornate in uno chalet isolato in un'isola al largo della costa norvegese, per godere della tranquillità necessaria per scrivere. Una volta sul posto, dopo qualche ora apparentemente serena, nasce tra i due una discussione dovuta al fatto che lui vorrebbe avere un figlio, mentre lei al momento non se la sente. Contrariato per il rifiuto di Kathrine, Thomas mette in mostra la sua vera anima, prepotente e violenta. La litigata esplode in una colluttazione durante la quale Thomas viene spinto, cade e batte la testa. Al risveglio, ha perso la memoria. Non ricorda più nulla. Dopo un attimo di riflessione Kathrine coglie l'occasione e finge di non conoscerlo, affermando di averlo per caso trovato svenuto e di averlo soccorso. L'amnesia di Thomas diventa per Kathrine l'opportunità di trovarsi di fronte un uomo nuovo, spaesato e confuso, dolce e docile, con cui provare a iniziare un rapporto diverso e magari felice. Ma quando lui riacquista la memoria, la rabbia esplode peggio che mai.

Dopo un esordio co-diretto insieme a un altro autore, Amnesia rappresenta il primo lungometraggio realizzato in totale autonomia dalla norvegese Nini Bull Robsahm, classe 1981. La regista afferma di aver avuto l'idea che sta alla base del film durante una notte di insonnia, quando all'improvviso si è immaginata la storia di due coniugi isolati in uno chalet e di uno dei due senza più memoria. Un espediente narrativo sulla carta molto interessante, con cui intavolare un complesso discorso riguardante gli equilibri di potere che si innescano in una relazione e i diversi livelli di manipolazione tra realtà e fantasia che si attuano nelle dinamiche comportamentali del sentimento.
Presentato in concorso al Bergamo Film Meeting, il lavoro della Bull Robsahm sfrutta i contorni del cinema da camera, utilizzando sue soli attori e un'unica location per sviscerare le molteplici ambiguità di un racconto sospeso sul difficile equilibrio tra sincerità e bugia, legami reali e ruoli immaginari, abusi di fiducia e segreti del non-detto. Per dare corpo e sostanza ai suoi intenti l'autrice svia le facili derive del melodramma, scegliendo invece una rappresentazione cupa, oscura, tagliente, che abbraccia le coordinate del thriller avvicinando in più punti perfino l'horror, in un crescendo paranoico in cui in ogni istante restano aperti i dubbi riguardanti la verità di ciò a cui si sta assistendo.
Thomas ha realmente perso la memoria oppure sta soltanto fingendo? La riacquista, come pare, nel momento in cui scopre che lei gli aveva nascosto il cellulare e la carta d'identità o gli era già ritornata in precedenza? E se sì, quando? Chi sta bluffando? Fino a che punto? Sono tutte perplessità che navigano sul filo della tensione, in un gioco a rimpiattino nel quale i due protagonisti si scambiano il ruolo di vittima e carnefice, burattino e burattinaio, danzando in una macabra pièce che alterna rari momenti di luce a intensi squarci di ipnotica angoscia.
La regista scandinava dimostra di avere ben chiara la propria idea di sviluppo del soggetto: limita giustamente la durata (70 minuti) per evitare tempi morti e indovina uno stile asciutto che fa dell'ambiguità un simbolo della paura, giovandosi dell'interpretazione di due attori bene in parte. Da sottolineare soprattutto la prova di Christian Rubeck, bravissimo a reggere più ruoli in uno, passando in pochi frames da tenero compagno a spietato aguzzino, da sperduto uomo senza nome a ghignante mostro di shininghiana memoria, transitando da un estremo all'altro più volte con impercettibili ma decisive variazioni di sguardo. Se poi è vero che alcune ripetizioni appaiono non necessarie (il sesso brutale), va anche detto che la prospettiva della Bull Robsahm, tra influenze polanskiane e palpitazioni sospese a mezz'aria, riesce a essere brillante e solida, creando una bolla filmica soffocante in cui ci si perde tra le incertezze di una nebbia densa e vischiosa.
Il massacro psicologico a cui vanno incontro Thomas e (soprattutto) Kathrine sfocia in un epilogo radicale, che lascia invece delle perplessità per l'eccessiva dose di violenza espressiva, non coerente e non giustificata nel confronto con la lodevole e sottile ambiguità che aveva invece ottimamente dominato tutto il resto della messinscena. Una pecca di cui dolersi, comunque non sufficiente a eliminare i pregi di un lavoro che sa aprire con acume gli anfratti bui del rapporto di coppia, eterna recita a cui tutti noi, chi più chi meno, siamo ogni giorno costretti a prendere parte.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Nini Bull Robsahm
Fotografia: Axel Mustad, Havard Byrkjeland
Musiche: Henrik Skram
Attori: Pia Tjelta, Christian Rubeck
Anno: 2013
Durata: 74'

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BFM 33 - Modris, di Juris Kursietis

10/3/2015

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Non è semplice vivere in Lettonia. Soprattutto d'inverno. Fa un freddo tremendo, la città offre pochi svaghi e poche opportunità lavorative, e il mondo sembra remarti contro a ogni passo. 
Hai una ragazza, ma non sei capace di lasciarti amare. Hai una madre con cui non c'è il benché minimo dialogo e un padre (forse) chiuso in prigione non si sa bene dove. La scuola non insegna nulla che ti interessi davvero. Ti arrangi come capita, disegnando graffiti sui muri, con il portafoglio quasi sempre vuoto, e quando per sbaglio hai qualche moneta la butti via alle slot machines, perché come se non bastasse hai pure il vizio del gioco. 
Così vaghi senza uno scopo, raccatti quello che capita e quando ti ritrovi con l'acqua alla gola arrivi perfino a rubare e rivendere il calorifero di casa, giusto per acciuffare quel minimo di grana utile per annullarti davanti a una di quelle diaboliche macchinette arraffa denaro. Ma quando la tua stessa madre ti denuncia per furto, e il giudice ti mette in regime di libertà vigilata, scopri che tutto diventa ancora più difficile, soprattutto perché vivi in uno Stato dove sono sufficienti un viaggio in treno senza biglietto e una birra consumata per strada per rischiare un'immediata condanna a due anni di carcere. A questo punto, al limite estremo della sopportazione, ti sale nel cuore un unico obiettivo: trovare quel padre che non hai mai conosciuto.

Presentato in concorso alla trentatreesima edizione del Bergamo Film Meeting, Modris è il lungometraggio d'esordio di Juris Kursietis, già sceneggiatore e autore di documentari e spot pubblicitari. Basato su una storia vera, raccontata al regista da un amico avvocato, il film segue le vicende di un diciassettenne che morde i freni della giovinezza in una capitale dell'Est rigida e incolore come il lungo inverno che la domina. Un luogo algido, neutro, inospitale, dove i pochi affetti non trovano corrispondenze costanti e il vizio del gioco assume i toni simbolici di un atto di ribellione nei confronti di un'adolescenza amara, obnubilata da un gelo profondo, sia intimo che ambientale.
Girato con uno stile asciutto e moderno, il lavoro di Kursietis parte dall'influenza di Gus Van Sant per giungere sulle orme di quei pedinamenti semi-documentaristici tanto cari al primo cinema dei Dardenne, con particolare riferimento al magnifico Rosetta. La macchina da presa azzanna dunque il volto del protagonista Kristers Piksa, attore per caso (è stato scoperto dal regista mentre frequentava un corso per diventare cuoco, ed è stato scelto per la parte senza avere alcuna esperienza di recitazione), seguendolo da vicino per coglierne ogni movimento tra le strade cementificate (e ghiacciate) di Riga. 
I silenzi e le incomprensioni con la madre sfociano nella denuncia, radicale tentativo di insegnamento e intimidazione che conduce a esiti contrari rispetto alle speranze, generando un flusso di non-accettazione con cui le già flebili possibilità di inserimento nella società affogano nel mare del rifiuto. Da qui in poi l'obiettivo primario di Modris, la ricerca del padre, diventa l'unico scopo di giornate in cui vige un senso di pre-rassegnazione verso un mondo ostile nel quale ci si sente estranei ovunque, perfino a casa propria, ostaggi di una tempesta che probabilmente si potrà concludere solo con un inevitabile naufragio. 
Il film di Kursietis corre con abbondanti quantità d'ossigeno soprattutto nella prima mezzora, ficcante e concreta al punto giusto, salvo poi assestarsi in un territorio medio e accusare un paio di scivolate (ad esempio la scena di sesso lungo i binari della ferrovia) che comunque non vanno a inficiare il positivo esito di un racconto di formazione intenso, sofferto e diretto con mano discretamente sicura. Il realismo della messinscena, il volto scavato del protagonista, le improvvise ombre di impossibile salvezza, i pochi attimi di illusoria spensieratezza, la riemersione di conflitti latenti che non si possono sconfiggere, giocano e si abbracciano in uno scacchiere filmico che non indovina tutte le mosse ma disputa una buona strategia d'insieme, trovando il colpo risolutore in una magnifica inquadratura finale in cui l'immobile silenzio vale più di qualsiasi parola. Lì, in quell'attimo sospeso, sboccia l'unico fiore che potrà forse crescere dall'arido suolo della Lettonia; un petalo d'amore tra le rovine dell'abbandono.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regiia: Juris Kursietis
Sceneggiatura: Juris Kursietis
Fotografia: Bogumil Godfrejow
Attori: Kristers Piksa, Rezija Kalnina, Sabine Trumsina
Anno: 2014
Durata: 98'

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BFM 33 - Il programma: profumi d'Europa

5/3/2015

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Si apre sabato 7 marzo l'edizione numero 33 del Bergamo Film Meeting, manifestazione che come ogni anno riesce a ritagliarsi un ruolo pregevole e a suo modo unico nell'affollato panorama festivaliero italiano, grazie alla sempre viva attenzione rivolta al cinema di qualità e al lancio di autori troppo poco conosciuti qui da noi.
Mai come quest'anno il BFM riconferma il suo orientamento rivolto al cinema europeo, da cui provengono la quasi totalità dei 120 film che saranno proiettati dal 7 al 15 marzo; una scelta coerente e decisa che sottolineiamo e condividiamo con assoluto piacere, scrollandoci di dosso ogni facile suggestione commerciale proveniente d'oltreoceano.
Il programma è come sempre ricchissimo; nove giorni di maratona cinefila in cui navigare dalle prime ore del mattino fino a tarda sera alla scoperta di tematiche articolate, storie per tutti i gusti e registi che in molti casi mai avevano trovato un simile spazio in Italia. 
Si inizia con il concorso lungometraggi, con sette film diretti da autori giovani, tutti in anteprima nazionale, incentrati su temi prettamente contemporanei, presentati all'Auditorium di Piazza Libertà e poi replicati al Cinema San Marco: Anderswo, dalla Germania; Why Can't I Be Tarkovsky?, dalla Turchia; Loreak, dalla Spagna; Modris, dalla Lettonia; Gente de Bien, ambientato in Colombia ma diretto da un autore di scuola francese; Amnesia, dalla Norvegia; Afterlife, dall'Ungheria.
Prosegue poi per il secondo anno Europa: femminile singolare, l'interessantissima sezione dedicata ad autrici europee di cui viene proposta la totalità delle opere. Quest'anno l'attenzione è concentrata sull'inglese Andrea Arnold (premio Oscar per il cortometraggio Wasp e premio speciale della giuria a Cannes sia per Red Road che per Fish Tank), sulla bosniaca Aida Begic, sull'ungherese Agnes Kocsis e sulla portoghese Teresa Villaverde. Se togliamo la Arnold, ormai apprezzata a livello mondiale, abbiamo tre autrici note agli addetti ai lavori ma pressoché sconosciute al pubblico; l'opportunità di scoprire la loro filmografia sarà dunque alquanto ghiotta.
Come sempre si riconferma la sezione Visti da vicino, con numerosi documentari indipendenti quasi tutti inediti in Italia, in molti casi seguiti da un dibattito in sala con i rispettivi autori. Non mancano poi proposte riservate ai bambini e ai ragazzi delle scuole, con proiezioni ad hoc tra le quali non possiamo non rimarcare la scelta di inserire in programma il bellissimo Bande de filles di Céline Sciamma.
Lodevoli le retrospettive di questa edizione, a partire da un'ampia rassegna dedicata al Polar francese, con circa 20 titoli realizzati tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Sessanta, pellicole esemplificative di un genere che ha saputo raccogliere gli elementi base del poliziesco provenienti dagli States per poi rimodellarli secondo la sensibilità transalpina, trovando una ricetta originale entrata a pieno diritto nella storia del cinema d'Oltralpe. Tra gli imperdibili titoli in programma, Quai des Orfèvres di Clouzot, Le trou di Becker, Classe tous risques di Sautet, Le doulos di Melville e Le desordre et la nuit di Grangier. 
Accanto al polar ci sarà inoltre una seconda retrospettiva intitolata Dopo la prova e composta da opere incentrate sul concetto stesso di messinscena, sui complessi meccanismi della rappresentazione e sulle commistioni tra cinema e teatro. Anche in questo caso in programma capolavori da non perdere come Stage Fright di Hitchcock, Deathtrap di Sidney Lumet, Dopo la prova di Bergman e L'esquive di Kechiche. 
Non è finita qua: a Bergamo ci saranno anche una personale dedicata a Pavel Koutsky, importante autore di cinema d'animazione ceco poco conosciuto in Italia; alcune anteprime di sicuro interesse (ad esempio Une nouvelle amie, il nuovo film di François Ozon); proiezioni speciali dedicate alla riapertura dell'Accademia Carrara (con l'anteprima nazionale di National Gallery di Wiseman e la riproposizione in quattro puntate di Belphégor, Il fantasma del Louvre, la miniserie Tv che nel 1965 inquietò profondamente gli spettatori francesi); la consueta fantamaratona, quest'anno neanche a farlo apposta di venerdì 13, con Christopher Lee in Theatre of Death di Samuel Gallu e un meraviglioso Vincent Price in Theatre of Blood di Douglas Hickox. Non mancheranno infine, come sempre, incontri con gli autori ed eventi collaterali.

Appuntamento dunque a Bergamo da sabato 7 a domenica 15 marzo, e qui sulle pagine di Orizzonti di Gloria per le recensioni in diretta dall'evento di alcuni tra i film più significativi in concorso. 

Il programma completo e le modalità d'ingresso sul sito ufficiale. Qui sotto il divertente trailer di presentazione del festival.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Report

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BFM 32 – Silmäterä, di Jan Forsström

15/3/2014

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Marja è una giovane madre single. Durante la notte lavora consegnando giornali, e di giorno si prende cura della piccola figlia Julia. La sua vita non è affatto semplice, tra le difficoltà di una situazione economica a dir poco precaria e la mancanza di sostegni concreti. La nuova vicina di casa, Karin, stringe una bella amicizia con Marja e inizia a darle una mano. Ciò nonostante la quotidianità della ragazza-madre è sottoposta a un continuo stress, mitigato soltanto dall'amore infinito che ella nutre nei confronti di Julia. 
Le traballanti certezze di Marja crollano quando all'improvviso si presenta alla sua porta un uomo con cui aveva avuto una breve relazione tempo addietro. L'uomo comprende come Julia possa essere sua figlia, e inizia a pretendere di poterla vedere e conoscere. A quel punto Marja, nel terrore di perdere l'unica creatura a cui non può e non vuole rinunciare per nessun motivo al mondo, comincia a smarrire ogni razionalità, fino a compiere un gesto estremo.

Silmäterä, presentato in concorso al Bergamo Film Meeting e tratto da una storia realmente accaduta una dozzina di anni fa, è diretto con buona mano dal finlandese Jan Forsström, classe 1975, sceneggiatore di successo al debutto nella regia di un lungometraggio. L'autore, traendo spunto dalla vicenda di cronaca ma apportando diverse modifiche, narra una dolente storia in cui, per usare le sue stesse parole, “volevo mostrare come talvolta l'amore possa diventare pericoloso”.
È proprio lungo il confine tra affetto e ossessione che il film dispiega le sue carte, procedendo con sufficiente sensibilità tra l'analisi sociale volta ad analizzare la complessa vita di giovani madre colpite dalla crisi economica e l'intimità violata di una donna cresciuta troppo in fretta. Marja è l'emblema di un corpo di madre in un cuore di ragazza, un'anima sola che si nutre del volto della figlia come ossigeno vitale con cui combattere le declinazioni invasive di un humus territoriale diffidente e spietato. Il lavoro notturno, le poche ore di incerto riposo diurno, le spese a cui far fronte, l'impossibilità di progetti a lungo termine, le necessità emozionali e logistiche della figlia: troppi fattori da gestire, troppe necessità a cui porre rimedio. Marja fatica ad accettare le già poche proposte di aiuto, sorretta da un orgoglio che diventa frenetica ambizione di potercela fare unicamente con le proprie energie, e cammina lungo il destino in bilico su una sottile linea incavata nella necessità di amare la figlia con ogni forza a disposizione. 
L'arrivo del padre di Julia, spinto da intenzioni molto meno bellicose di quanto sembrerebbe, è sufficiente per soffiare via un castello di carte costruito senza margini né basi solide; da lì in poi la vita di Marja diviene una guerra impossibile da vincere e combattuta contro fantasmi perlopiù inesistenti. La seconda parte del film, avvolta da una spirale di tensione psicologica dai ritmi adeguati, ci offre il ritratto di una madre sempre più dispersa nelle nebbie della follia, sino ad approdare a un gesto inconsulto che spezzerà anche l'ultimo tratto di speranza. A quel punto i teneri baci e le carezze tra lei e Julia si annulleranno a fronte di una camminata a piedi nudi in strada, lungo la notte, diretta verso un domani in cui nulla potrà mai più essere somigliante ai sogni ormai spezzati.
Più interessante che bello, il film di Forsström si perde talvolta in sottolineature eccessive, dando l'impressione di non scavare quanto potrebbe, preferendo invece adagiarsi su semplificazioni di scrittura rivolte verso il lato prettamente emotivo dello spettatore. Nonostante questo il lavoro dell'autore finlandese si lascia comunque apprezzare, sia per la ricchezza delle sfumature sia per l'intensità con cui, utilizzando stilemi vicini al thriller, riesce a raccontare con tocco delicato l'interiorità sanguinante di due ritratti femminili verso cui non si può restare indifferenti. Con loro e per loro l'amore divora la realtà e straripa oltre gli argini, dirigendosi verso un triste e inevitabile abbandono.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival


Scheda tecnica

Titolo originale: Silmäterä (Titolo internazionale: The Princess of Egypt)
Regia e sceneggiatura: Jan Forsström
Fotografia: Paivi Kettunen
Montaggio: Jan Forsström
Anno: 2013
Durata: 89'
Attori: Emmi Parviainen, Luna Leinonen Botero, Mazdak Nassir, Ylva Ekblad, Miika Soini

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