Ci sono segreti dentro alle case. Segreti spiacevoli, dolorosi, infami, nascosti agli occhi di chi ignaro cammina per le strade. Ci sono prigioni da cui è difficile evadere, soprattutto se sei una donna sposata con figli, in una nazione dove il divorzio è da poco stato introdotto e la mentalità cattolica è ben radicata.
Poi c’è l’innocenza. Quella virtù naturalmente insita nell'età dell’infanzia, destinata purtroppo con ogni probabilità a perdersi via via che si cresce. Un’innocenza che in certe situazioni rischia però di evaporare troppo in fretta, contro la propria volontà, senza colpa dinanzi a scene terribili e faticose da comprendere. Traumi le cui conseguenze restano e resteranno impresse sulla pelle e nel cuore, alla stregua di cicatrici impossibili da estirpare.
Ecco i temi al centro di Rita, lungometraggio d’esordio in veste di sceneggiatrice e regista per Paz Vega, presentato in anteprima a Locarno nella cornice di Piazza Grande. Conosciuta sia dal pubblico europeo che dalle platee americane, forte di interpretazioni divise tra commedie erotiche e drammi, da Lucia y el sexo a Hable con ella (Parla con lei), da La masseria delle allodole a Vallanzasca, da Spanglish al delizioso 10 Items or Less (10 cose di noi), l’attrice e modella spagnola ha pensato per lungo tempo a questo film. Non ha avuto fretta, ha atteso le condizioni giuste, riuscendo alla fine a realizzare un lavoro che colpisce l’anima dello spettatore per la durezza del contenuto, ma pure per la sua dolcezza.
Con la macchina da presa quasi sempre ad altezza di bambina seguiamo la piccola Rita, 7 anni. Nella cameretta dove dorme con il fratellino Lolo c’è un disegno attaccato al muro che rappresenta la sua famiglia contornata da un grande cuore. Loro due, il papà e la mamma. Un idillio che purtroppo non trova fondamento nella realtà. Rita è ordinata, premurosa e attenta nello svolgere le faccende di casa, si entusiasma per una gita in piscina o un giro sulle giostre, vorrebbe andare al mare, vuol bene alla nonna, dice le preghiere e da brava sorella maggiore aiuta il fratello se lo vede in difficoltà. I suoi occhi emanano infinita gentilezza. Dietro il velo dell’apparenza scava però l’inferno, espresso da un padre tassista che quotidianamente umilia la madre a suon di critiche e insulti per ogni (vera o presunta) mancanza, fosse anche solamente l’errore di non mettere al fresco le birre in frigorifero. Invettive che talvolta vanno persino un passo oltre, passando dalla prepotenza verbale all’aggressione fisica.
Siamo a Siviglia, in una caldissima estate. È il 1984, si guardano alla televisione partite di calcio con la nazionale francese di Tigana, Giresse e Platini. La periferia urbana dove vive la famiglia di Rita è perlopiù povera e operaia. Si gioca per la strada, si cerca quel poco di felicità possibile, si risparmiano soldi per comprare un condizionatore con cui combattere l’afa. I mezzi sono pochi, lo stress è tanto. Un uomo fatica tutto il giorno, torna a casa la sera e non trova nemmeno una birra gelata a disposizione: insopportabile, inaccettabile. Basta poco per scatenare l’ira, a cui i bimbi possono sottrarsi solo tappandosi le orecchie, rifugiandosi in cameretta o sul tetto e creando nella mente liete storie di fantasia. È un’epoca in cui la Spagna ancora accusa i postumi della dittatura; l’opportunità di divorzio esiste da pochi anni e fatica a prendere piede. Per una donna con figli che dipende economicamente dal marito è difficile trovare il coraggio di considerare la parola separazione, nonostante si viva in una gabbia nera dove ogni decisione è proprietà esclusiva dell’uomo, lo sdegno si apparenta ai silenzi sottomessi, gli insulti e le botte si alternano a obbligati e schifosi amplessi notturni e si è sempre sul chi va là, tra le fauci della paura.
Nella gabbia c’è la madre (interpretata dalla stessa Paz Vega), magrissima, smunta, con un viso adombrato dalla consunzione. Ma anche i figli, inermi, costretti a sentire e vedere cose che un bimbo non dovrebbe nemmeno immaginare.
Dallo scenario appena enunciato risulta facile e immediato paragonare Rita a C’è ancora domani, il recente, osannato e pluripremiato film di Paola Cortellesi, tipico esempio di come il termine "capolavoro" sia usato con troppa leggerezza. Tra le due opere esiste un netto scarto temporale (dagli anni Quaranta agli Ottanta), ma le tematiche di base sono per molti versi equiparabili. Sperando di non essere accusati di lesa maestà, ci permettiamo di affermare che la pellicola dell’ex icona sexy iberica raggiunge esiti decisamente migliori. Qui non ci sono artifici formali velleitari (i pestaggi a passo di danza) bensì una linearità d’insieme encomiabile proprio perché priva di fantomatiche invenzioni stilistiche. Inoltre, le violenze avvengono fuoricampo, in una sorta di ammirabile rispetto per il dolore.
L’unica peculiarità, come accennato, è racchiusa nel posizionamento della cinepresa, posta quasi sempre all’altezza della piccola Rita, soprattutto nella parte iniziale. Gli adulti sono tagliati a metà, i loro visi lasciati fuori dall’inquadratura, su in alto, troppo in alto per essere decifrati. Giganti, estranei, lontani. Un po’ alla volta però i titani entrano a pieno titolo nel campo visivo, in senso opposto rispetto alla forzatura tale per cui la portabandiera dell’età della purezza è suo malgrado costretta a confrontarsi con il loro mondo.
Il debutto registico di Paz Vega trapassa il cuore, per ciò che racconta e per la semplicità del come, nel suo voler essere esempio del destino sofferto e nascosto di tante, troppe donne, ieri come oggi. Nel mentre possiamo però anche emozionarci per un paesaggio fiorito in cui scorrono fiumi di tenerezza, glorificati dallo splendore della protagonista Sofía Allepuz, le cui espressioni e i cui sorrisi sfondano lo schermo.
Nella genuinità della messinscena, nei sospiri di favola in risposta all’orrore, si diffonde la candida bellezza di Rita, a cui contrapporre un unico dubbio, relativo all’epilogo, non certo fuori contesto ma probabilmente esagerato nell’economia del racconto. Per il resto convinti applausi, e il desiderio di lanciare anche noi un aeroplanino di carta, in un alito di gioia, sognando le onde del mare.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Locarno 77
Scheda tecnica
Regia e sceneggiatura: Paz Vega
Attori: Sofía Allepuz, Alejandro Escamilla, Paz Vega, Roberto Álamo
Fotografia: Eva Díaz Iglesias
Montaggio: Ana Álvarez Ossorio
Musica: Pablo Cervantes
Anno: 2024
Durata: 94’
Poi c’è l’innocenza. Quella virtù naturalmente insita nell'età dell’infanzia, destinata purtroppo con ogni probabilità a perdersi via via che si cresce. Un’innocenza che in certe situazioni rischia però di evaporare troppo in fretta, contro la propria volontà, senza colpa dinanzi a scene terribili e faticose da comprendere. Traumi le cui conseguenze restano e resteranno impresse sulla pelle e nel cuore, alla stregua di cicatrici impossibili da estirpare.
Ecco i temi al centro di Rita, lungometraggio d’esordio in veste di sceneggiatrice e regista per Paz Vega, presentato in anteprima a Locarno nella cornice di Piazza Grande. Conosciuta sia dal pubblico europeo che dalle platee americane, forte di interpretazioni divise tra commedie erotiche e drammi, da Lucia y el sexo a Hable con ella (Parla con lei), da La masseria delle allodole a Vallanzasca, da Spanglish al delizioso 10 Items or Less (10 cose di noi), l’attrice e modella spagnola ha pensato per lungo tempo a questo film. Non ha avuto fretta, ha atteso le condizioni giuste, riuscendo alla fine a realizzare un lavoro che colpisce l’anima dello spettatore per la durezza del contenuto, ma pure per la sua dolcezza.
Con la macchina da presa quasi sempre ad altezza di bambina seguiamo la piccola Rita, 7 anni. Nella cameretta dove dorme con il fratellino Lolo c’è un disegno attaccato al muro che rappresenta la sua famiglia contornata da un grande cuore. Loro due, il papà e la mamma. Un idillio che purtroppo non trova fondamento nella realtà. Rita è ordinata, premurosa e attenta nello svolgere le faccende di casa, si entusiasma per una gita in piscina o un giro sulle giostre, vorrebbe andare al mare, vuol bene alla nonna, dice le preghiere e da brava sorella maggiore aiuta il fratello se lo vede in difficoltà. I suoi occhi emanano infinita gentilezza. Dietro il velo dell’apparenza scava però l’inferno, espresso da un padre tassista che quotidianamente umilia la madre a suon di critiche e insulti per ogni (vera o presunta) mancanza, fosse anche solamente l’errore di non mettere al fresco le birre in frigorifero. Invettive che talvolta vanno persino un passo oltre, passando dalla prepotenza verbale all’aggressione fisica.
Siamo a Siviglia, in una caldissima estate. È il 1984, si guardano alla televisione partite di calcio con la nazionale francese di Tigana, Giresse e Platini. La periferia urbana dove vive la famiglia di Rita è perlopiù povera e operaia. Si gioca per la strada, si cerca quel poco di felicità possibile, si risparmiano soldi per comprare un condizionatore con cui combattere l’afa. I mezzi sono pochi, lo stress è tanto. Un uomo fatica tutto il giorno, torna a casa la sera e non trova nemmeno una birra gelata a disposizione: insopportabile, inaccettabile. Basta poco per scatenare l’ira, a cui i bimbi possono sottrarsi solo tappandosi le orecchie, rifugiandosi in cameretta o sul tetto e creando nella mente liete storie di fantasia. È un’epoca in cui la Spagna ancora accusa i postumi della dittatura; l’opportunità di divorzio esiste da pochi anni e fatica a prendere piede. Per una donna con figli che dipende economicamente dal marito è difficile trovare il coraggio di considerare la parola separazione, nonostante si viva in una gabbia nera dove ogni decisione è proprietà esclusiva dell’uomo, lo sdegno si apparenta ai silenzi sottomessi, gli insulti e le botte si alternano a obbligati e schifosi amplessi notturni e si è sempre sul chi va là, tra le fauci della paura.
Nella gabbia c’è la madre (interpretata dalla stessa Paz Vega), magrissima, smunta, con un viso adombrato dalla consunzione. Ma anche i figli, inermi, costretti a sentire e vedere cose che un bimbo non dovrebbe nemmeno immaginare.
Dallo scenario appena enunciato risulta facile e immediato paragonare Rita a C’è ancora domani, il recente, osannato e pluripremiato film di Paola Cortellesi, tipico esempio di come il termine "capolavoro" sia usato con troppa leggerezza. Tra le due opere esiste un netto scarto temporale (dagli anni Quaranta agli Ottanta), ma le tematiche di base sono per molti versi equiparabili. Sperando di non essere accusati di lesa maestà, ci permettiamo di affermare che la pellicola dell’ex icona sexy iberica raggiunge esiti decisamente migliori. Qui non ci sono artifici formali velleitari (i pestaggi a passo di danza) bensì una linearità d’insieme encomiabile proprio perché priva di fantomatiche invenzioni stilistiche. Inoltre, le violenze avvengono fuoricampo, in una sorta di ammirabile rispetto per il dolore.
L’unica peculiarità, come accennato, è racchiusa nel posizionamento della cinepresa, posta quasi sempre all’altezza della piccola Rita, soprattutto nella parte iniziale. Gli adulti sono tagliati a metà, i loro visi lasciati fuori dall’inquadratura, su in alto, troppo in alto per essere decifrati. Giganti, estranei, lontani. Un po’ alla volta però i titani entrano a pieno titolo nel campo visivo, in senso opposto rispetto alla forzatura tale per cui la portabandiera dell’età della purezza è suo malgrado costretta a confrontarsi con il loro mondo.
Il debutto registico di Paz Vega trapassa il cuore, per ciò che racconta e per la semplicità del come, nel suo voler essere esempio del destino sofferto e nascosto di tante, troppe donne, ieri come oggi. Nel mentre possiamo però anche emozionarci per un paesaggio fiorito in cui scorrono fiumi di tenerezza, glorificati dallo splendore della protagonista Sofía Allepuz, le cui espressioni e i cui sorrisi sfondano lo schermo.
Nella genuinità della messinscena, nei sospiri di favola in risposta all’orrore, si diffonde la candida bellezza di Rita, a cui contrapporre un unico dubbio, relativo all’epilogo, non certo fuori contesto ma probabilmente esagerato nell’economia del racconto. Per il resto convinti applausi, e il desiderio di lanciare anche noi un aeroplanino di carta, in un alito di gioia, sognando le onde del mare.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Locarno 77
Scheda tecnica
Regia e sceneggiatura: Paz Vega
Attori: Sofía Allepuz, Alejandro Escamilla, Paz Vega, Roberto Álamo
Fotografia: Eva Díaz Iglesias
Montaggio: Ana Álvarez Ossorio
Musica: Pablo Cervantes
Anno: 2024
Durata: 94’