Il Festival di Locarno è come sempre sinonimo di cinema d’autore, nelle sue varie sfaccettature, senza paura di osare e proporre territori di visione originali. Quest’anno il concorso internazionale ha offerto due film italiani, il più interessante dei quali racconta una storia di donna intrisa di solitudine esistenziale e tentativo di porre un argine a mancanze e assenze.
Ci riferiamo a Luce, diretto a quattro mani da Silvia Luzi e Luca Bellino, già all’opera insieme per Il cratere (2017). Al centro della scena una ragazza di poco più di 20 anni che fa l’operaia in una conceria; ambiente di lavoro disumanizzante, nel quale tutte le giornate si susseguono allo stesso modo, è in teoria vietato persino parlare durante il turno, le mani si rovinano e ogni sgarro è punito con l’assegnazione di mansioni ancora più faticose. La vita della protagonista è segnata da chi c’è, ovvero il proprio gatto, unica compagnia quotidiana al di fuori di saltuarie serate di sfogo a suon di alcool e balli, e soprattutto da chi non c’è, il padre, chiuso in prigione e troppo, troppo lontano. Con uno stratagemma la ragazza cerca di recapitare un telefono oltre la barriera delle sbarre per poter comunicare con lui, cosa che (in teoria) avviene quando inizia a ricevere telefonate da un uomo che le dice di essere proprio il padre. Ma lo è davvero? Forse sì, più probabilmente no.
Tanto basta comunque alla figlia per aggrapparsi a questa conversazione senza volto (e senza comprovata identità) come salvagente per dare un freno alla malinconia, per ritrovare un vago afflato di speranza. Nella sua mente i sentimenti e le reazioni non smettono però di accavallarsi, distorcersi, mischiarsi; nel volto lacrime e sorrisi si alternano in un batter di ciglia, sul crinale tra confusione e sguardi verso il cielo, culla di un’illusione e tagli aguzzi della realtà, ulteriori dolorose perdite e senso di distacco da ogni certezza fattuale, porte inchiodate dalla rabbia e freddo smarrimento.
Luce è un film pregevole per come sa tenere lo spettatore avvolto, nonostante i limiti di uno sviluppo che prevede lunghi minuti di statica conversazione telefonica. Eppure la stasi diventa movimento, nelle voci, nei toni talvolta aspri talvolta dolci e cantilenanti, nel mutamento improvviso di espressioni. Così ogni istante sembra prezioso, anche grazie alla prova multiforme di Marianna Fontana (una delle gemelle di Indivisibili, 2016), su cui la macchina da presa insiste senza pudore per ricavarne qualsiasi lieve o netto scarto. E se è vero che al termine dei titoli di coda restano perplessità per un finale aperto e "liquido" che non concede alcuna risoluzione, d’altro canto si applaude volentieri questo forte ritratto di giovane donna persa in un mondo duro e spietato, ingannevole e alienato.
Dalla genitorialità anelata si passa, in senso opposto, alla genitorialità rifiutata, dalla solitudine subita alla solitudine voluta, con Les paradis de Diane, film svizzero inserito nell’apposita sezione Panorama Suisse e diretto anche in questo caso in coppia, da Carmen Jaquier (già autrice dell’apprezzato Foudre, 2022) e Jan Gassmann. Qui la protagonista è la donna del titolo, in fuga dalla clinica dove poche ore prima ha partorito la sua prima figlia. Diane scappa dalla neonata, dal marito, dal resto della famiglia. Scappa dalla responsabilità, dal ruolo, dagli schemi inesorabili di ciò che l’attende, da una condizione di madre che non sa/riesce a recepire. Non dice nulla a nessuno, butta via il telefono, fa perdere le sue tracce, vaga lontana. Si aggira come fantasma nelle notti di paesi non suoi, dorme nell’atrio dei palazzi, fa incontri occasionali, scopre nuove realtà, in un processo di trasformazione interiore che poi non è altro se non il riappropriarsi della propria essenza. Il richiamo della colpa si scontra con il fresco soffio della libertà, il timore per le conseguenze viene coperto dal miele della novità.
Un’amica temporanea incontrata per caso cita Agnès Varda e le dice "dentro ogni persona c’è un isola; tu sei un’isola selvaggia". Aggettivo appropriato: selvaggio è infatti il carattere del personaggio ma pure lo stile di sceneggiatura e regia, spesso disordinato e traballante, talvolta non del tutto credibile, mancante di certi approfondimenti però in grado di coinvolgere. Con Diane (un’intensa Dorothée de Koon) vagabondiamo un po’ anche noi, tra bagni in piscine di sconosciuti, approcci sessuali lasciati a metà, spettacoli lascivi, documenti gettati nell’immondizia, rimorsi, parrucche viola, nascondigli e autodifese. Quando poi ciò che si è lasciato alle spalle torna a farsi vivo in carne, ossa e pressanti richieste, la direzione da prendere si chiarisce, ricevendo in dote un ultimo e splendido gesto d’amore.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Locarno 77
Schede tecniche
Luce
Regia: Silvia Luzi, Luca Bellino
Sceneggiatura: Silvia Luzi, Luca Bellino
Attori: Marianna Fontana, Tommaso Ragno (voce)
Fotografia: Jacopo Maria Dr. Caramella
Montaggio: Silvia Luzi, Luca Bellino
Musiche: Stefano Grosso, Alessandro Paolini
Anno: 2024
Durata: 95’
Les paradis de Diane
Regia: Carmen Jaquier, Jan Gassmann
Sceneggiatura: Carmen Jaquier
Attori: Dorothée de Koon, Aurore Clément, Omar Ayuso, Roland Bonjour
Fotografia: Thomas Szczepanski
Montaggio: Carole Le Page
Musiche: Marcel Vaid
Anno: 2024
Durata: 98’
Ci riferiamo a Luce, diretto a quattro mani da Silvia Luzi e Luca Bellino, già all’opera insieme per Il cratere (2017). Al centro della scena una ragazza di poco più di 20 anni che fa l’operaia in una conceria; ambiente di lavoro disumanizzante, nel quale tutte le giornate si susseguono allo stesso modo, è in teoria vietato persino parlare durante il turno, le mani si rovinano e ogni sgarro è punito con l’assegnazione di mansioni ancora più faticose. La vita della protagonista è segnata da chi c’è, ovvero il proprio gatto, unica compagnia quotidiana al di fuori di saltuarie serate di sfogo a suon di alcool e balli, e soprattutto da chi non c’è, il padre, chiuso in prigione e troppo, troppo lontano. Con uno stratagemma la ragazza cerca di recapitare un telefono oltre la barriera delle sbarre per poter comunicare con lui, cosa che (in teoria) avviene quando inizia a ricevere telefonate da un uomo che le dice di essere proprio il padre. Ma lo è davvero? Forse sì, più probabilmente no.
Tanto basta comunque alla figlia per aggrapparsi a questa conversazione senza volto (e senza comprovata identità) come salvagente per dare un freno alla malinconia, per ritrovare un vago afflato di speranza. Nella sua mente i sentimenti e le reazioni non smettono però di accavallarsi, distorcersi, mischiarsi; nel volto lacrime e sorrisi si alternano in un batter di ciglia, sul crinale tra confusione e sguardi verso il cielo, culla di un’illusione e tagli aguzzi della realtà, ulteriori dolorose perdite e senso di distacco da ogni certezza fattuale, porte inchiodate dalla rabbia e freddo smarrimento.
Luce è un film pregevole per come sa tenere lo spettatore avvolto, nonostante i limiti di uno sviluppo che prevede lunghi minuti di statica conversazione telefonica. Eppure la stasi diventa movimento, nelle voci, nei toni talvolta aspri talvolta dolci e cantilenanti, nel mutamento improvviso di espressioni. Così ogni istante sembra prezioso, anche grazie alla prova multiforme di Marianna Fontana (una delle gemelle di Indivisibili, 2016), su cui la macchina da presa insiste senza pudore per ricavarne qualsiasi lieve o netto scarto. E se è vero che al termine dei titoli di coda restano perplessità per un finale aperto e "liquido" che non concede alcuna risoluzione, d’altro canto si applaude volentieri questo forte ritratto di giovane donna persa in un mondo duro e spietato, ingannevole e alienato.
Dalla genitorialità anelata si passa, in senso opposto, alla genitorialità rifiutata, dalla solitudine subita alla solitudine voluta, con Les paradis de Diane, film svizzero inserito nell’apposita sezione Panorama Suisse e diretto anche in questo caso in coppia, da Carmen Jaquier (già autrice dell’apprezzato Foudre, 2022) e Jan Gassmann. Qui la protagonista è la donna del titolo, in fuga dalla clinica dove poche ore prima ha partorito la sua prima figlia. Diane scappa dalla neonata, dal marito, dal resto della famiglia. Scappa dalla responsabilità, dal ruolo, dagli schemi inesorabili di ciò che l’attende, da una condizione di madre che non sa/riesce a recepire. Non dice nulla a nessuno, butta via il telefono, fa perdere le sue tracce, vaga lontana. Si aggira come fantasma nelle notti di paesi non suoi, dorme nell’atrio dei palazzi, fa incontri occasionali, scopre nuove realtà, in un processo di trasformazione interiore che poi non è altro se non il riappropriarsi della propria essenza. Il richiamo della colpa si scontra con il fresco soffio della libertà, il timore per le conseguenze viene coperto dal miele della novità.
Un’amica temporanea incontrata per caso cita Agnès Varda e le dice "dentro ogni persona c’è un isola; tu sei un’isola selvaggia". Aggettivo appropriato: selvaggio è infatti il carattere del personaggio ma pure lo stile di sceneggiatura e regia, spesso disordinato e traballante, talvolta non del tutto credibile, mancante di certi approfondimenti però in grado di coinvolgere. Con Diane (un’intensa Dorothée de Koon) vagabondiamo un po’ anche noi, tra bagni in piscine di sconosciuti, approcci sessuali lasciati a metà, spettacoli lascivi, documenti gettati nell’immondizia, rimorsi, parrucche viola, nascondigli e autodifese. Quando poi ciò che si è lasciato alle spalle torna a farsi vivo in carne, ossa e pressanti richieste, la direzione da prendere si chiarisce, ricevendo in dote un ultimo e splendido gesto d’amore.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Locarno 77
Schede tecniche
Luce
Regia: Silvia Luzi, Luca Bellino
Sceneggiatura: Silvia Luzi, Luca Bellino
Attori: Marianna Fontana, Tommaso Ragno (voce)
Fotografia: Jacopo Maria Dr. Caramella
Montaggio: Silvia Luzi, Luca Bellino
Musiche: Stefano Grosso, Alessandro Paolini
Anno: 2024
Durata: 95’
Les paradis de Diane
Regia: Carmen Jaquier, Jan Gassmann
Sceneggiatura: Carmen Jaquier
Attori: Dorothée de Koon, Aurore Clément, Omar Ayuso, Roland Bonjour
Fotografia: Thomas Szczepanski
Montaggio: Carole Le Page
Musiche: Marcel Vaid
Anno: 2024
Durata: 98’