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71 FRAMMENTI DI UNA CRONOLOGIA DEL CASO - Geometria del caos

7/3/2014

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Dopo aver puntato il proprio occhio implacabile sulla famiglia nucleare austriaca, giunto al suo terzo lungometraggio Michael Haneke allarga lo spettro della propria indagine, estendendola a un microcosmo umano più variegato e complesso rispetto a quello tratteggiato nei suoi primi due lavori. A incrociare le proprie strade, seguendo gli imperscrutabili arabeschi del caso, o forse del caos, sono la famiglia di Hans e Maria con la loro piccola figlia, quella di Paul e Inge, che non hanno bambini anche se ne vorrebbero, il vecchio Tomek, ormai in rotta con la figlia, che vive autonomamente, due studenti universitari, Max e Hanno, che dividono un appartamento, il militare Bernie e infine un giovane immigrato clandestino rumeno, Marian. Una delle banche di Vienna, città dove il film è ambientato, costituirà il luogo dove alcune di queste vite si intrecceranno svariate volte, prima di diventare il teatro del convulso e tragico finale.
Il film risulta diviso in cinque capitoli, ciascuno corrispondente all’arco di un giorno diverso e casuale, in un periodo che va dal 12 ottobre 1993 al 23 dicembre dello stesso anno, all’interno di una struttura perfettamente geometrica. I primi due, descrittivi, durano ciascuno 30’ circa e sviluppano la presentazione dei personaggi, alcune dinamiche dei loro rapporti interpersonali, alcuni tratti del loro carattere. I due segmenti successivi, tendenti invece all’argomentazione, della durata di 6’ circa ciascuno, approfondiscono alcuni dei temi portanti del film. L’ultimo capitolo, una ventina di minuti, vede il procedere dell’azione farsi più stringente fino all’epilogo.
Ogni giornata viene introdotta dalle immagini di un telegiornale, le quali, a differenza dei due lavori precedenti del regista austriaco, in cui le notizie e le trasmissioni televisive costituivano solo un sottofondo audiovisuale alle attività dei personaggi, balzano in primo piano, occupando tutto lo schermo. Si susseguono bollettini e cronache di guerra (Medio Oriente, ex Jugoslavia, Kurdistan turco, Somalia, Ulster) o si dà spazio a notizie più prosaiche, come le bizzarre preferenze sessuali di Michael Jackson. Il tutto è reso attraverso il tono asettico e impersonale tipico dei notiziari televisivi, che crea un cortocircuito col tono altrettanto asettico e impersonale della maggior parte delle conversazioni private e pubbliche a cui si assiste nel corso del film, in quanto tonalità espressive appartenenti a fenomeni dialogici, socio-antropologici, esistenziali affatto diversi, eppure perversamente equivalenti, causticamente tratteggiati dall’autore come aderenti a un unico orizzonte di esperienze prive di ogni emotività. Si tratta anche dell’unica equivalenza, dell’unica corrispondenza piena in un’opera marcata invece da continui scarti, impossibili conformità nonché da una palese assenza di comunicazione affettiva fra i personaggi.
La vita di coppia è un inferno per Hans e Maria: lui, guardia di un furgone portavalori, lei, malvissuta casalinga con figlia piccola a cui badare, la cui vita risulta confinata alle mura domestiche. Hans, goffo e impacciato come uomo e come marito, sembra invece ritrovare il proprio equilibrio nella dimensione lavorativa, ripetendo quotidianamente sempre i medesimi gesti meccanici: acquisizione delle valigette metalliche col denaro, viaggio nel furgone blindato, consegna del denaro alla banca. Da vero e proprio uomo monodimensionale, la sua essenza di vivente si esaurisce nella funzione espletata all’interno della società.
Non se la passano molto meglio Paul e Inge, che, pur sembrando affiatati, riversano nella ricerca di un bimbo da adottare l’affetto che, evidentemente, non riescono più a esprimere come coppia. Per tutto il tempo in cui occupano lo schermo non riescono a comunicare in altro modo se non attraverso l’argomento dell’adozione o la scelta fattuale del bambino da tenere con sé.
Ancor più desolante risulta il rapporto fra l’anziano Tomek e la figlia, cassiera nella banca che costituisce lo spazio-perno del film. Il vecchio è costretto a fare la fila allo sportello per poter parlare per pochi istanti con lei, che gli risponde freddamente, o attendere di sfogare al telefono le proprie frustrazioni. Pur essendo un personaggio malinconico, anche Tomek risulta risucchiato nei perversi meccanismi dell’egoismo diffuso, allorché lo sentiamo esclamare (durante la lunga telefonata alla figlia, un piano-sequenza fisso di 9’): “Certo che parlo solo di me stesso! Non vi è altro di cui una persona decente potrebbe parlare”. La donna risulta invece, come svariati altri personaggi, una mera funzione attiva, legata esclusivamente al proprio robotico lavoro.
Figura centrale per lo sviluppo della narrazione, ancorché ennesimo personaggio-funzione, è Bernie, militare che ruba armi dalla propria caserma per rivenderle, mosso solo dall’arrivismo e dalla cupidigia. Una delle sue pistole verrà però acquistata da Max, portando la storia al suo epilogo sanguinoso. Bernie risulta quindi la mano armata del caso, tanto più che il suo furto sarà scoperto e la sua abitazione perquisita, quando ormai l’arma è già nelle mani di Max.
Tutto il film è percorso trasversalmente dal disagio dell’uomo contemporaneo nei confronti di un ambiente e di una società, in cui regnano la distanza, l’isolamento, l’impossibilità comunicativa o, per dirla con Deleuze, lo scambio ineguale (1): parole vuote (che vorrebbero essere piene di significato) in cambio di comprensione; affetto in cambio di riempimento del vuoto esistenziale; curiosità, rabbia, astio, notizie tragiche in cambio di indifferenza. E poi, su tutto, lo scambio ineguale per eccellenza: denaro in cambio di tutto, dove questo tutto è rappresentato da ciò che il denaro può comprare, cioè il bene di consumo, non sineddoche ma ossimoro del Bene. E anche, infine, denaro in cambio di armi, perfetta metafora/sineddoche del rapporto fra il microcosmo (il comodo ambiente borghese che osserva il resto del mondo alla tv) e il macrocosmo complessivo. La perfetta geometria/simmetria del film, apparentemente lineare e trasparente, confligge dialetticamente col contesto rappresentato, dove nessun conto torna e dove la natura umana – così complessa, oscura, molteplice, sfaccettata, ancorché penosamente prona ai perversi meccanismi dell’istituzionalizzazione – non riesce mai a piegarsi del tutto, finendo, talora, con lo spezzarsi rovinosamente.
Un discorso a parte meritano Max, il personaggio principale per lo sviluppo della narrazione, più che vero protagonista (2), Hanno, l’altro studente che divide con lui l’appartamento, e Marian, il ragazzino che arriva dalla Romania. Marian viene non solo da un altro paese, ma da un’altra dimensione sociale ed esistenziale. Straniero in terra straniera, il suo approccio al nuovo mondo non risulta mediato dalle sovrastrutture comportamentali che imbrigliano gli altri personaggi, ma esprime una notevole, semplice e cristallina curiosità per le luci e i colori rutilanti di una ricca capitale europea prossima al Natale. Immerso in una iper-percettività originaria, egli tace e guarda tutto non solo come un ragazzino, ma, appunto, come un essere di un altro pianeta, che vede per la prima volta un mondo del quale gli altri, gli autoctoni, a malapena sembrano accorgersi. 

1) Cfr. G. Deleuze, Cinema 2 – L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, 4^ ed. 2001, in particolare le pp. 92-93.
2) In questo film, Haneke non accorda particolari privilegi di ruolo a nessuna figura. Tutti i personaggi risultano osservati con equidistanza (a parte forse la simpatia del regista per il ragazzino rumeno), portando a termine il compito connesso al proprio ruolo, per tornare poi al fuoricampo, come marionette mosse da un filo invisibile.

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Particolarmente emblematico risulta anche, per motivi completamente differenti, il personaggio di Hanno, studente di informatica, amante dei rompicapi e dei giochi di abilità. È l’unico personaggio che si trova totalmente a proprio agio con la dimensione meccanizzata ed efficientistica della società ed è anche l’unico a cui non pesa minimamente la dimensione dello scambio ineguale. Il gioco della croce, di sua invenzione (consiste nel formare la figura di una croce usando ritagli di carta di forma geometrica, in un tempo prestabilito), diviene per lui una fonte di trastullo nonché di guadagno con amici e conoscenti, visto che li sottopone alla prova, vincendo immancabilmente. Denaro in cambio di gioco, tempo in cambio di denaro. Quando sfida Max a Mikado (3) gli dice, emblematicamente: “L’abilità contro il caso (4). […] Io non gioco per niente. Cosa ci giochiamo, la tua pistola?”. Anche questa volta, il caso (vincendo contro l’abilità) farà in modo che la pistola rimanga nelle mani di Max.
Max, così come Marian, è un estraneo rispetto al quadro socio-ambientale in cui si trova a operare, visto che viene dalla provincia e, come Marian, è uno dei rari personaggi a mostrare dei barlumi di autentica umanità, sia pur deviata. Apparentemente integrato nel contesto umano della grande città, il suo ruolo pubblico è scandito da due attività: giocatore di ping-pong e studente universitario. È soprattutto nella prima che gli è richiesta una notevole e meccanica performatività. Due sequenze emblematiche al riguardo: la prima, un esasperante piano-sequenza fisso di alcuni minuti, in cui lo si vede allenarsi da solo con una macchina lancia-palle; la seconda, un altro piano-sequenza fisso (5), in cui viene mostrato lo schermo di un televisore, su cui scorrono le immagini di una sua partita videoregistrata, che viene commentata dalle voci off di Max e del suo allenatore, il quale gli richiede, con sarcasmo, una maggior funzionalità e correttezza nella postura corporea. 

3)  Da noi più noto come Shangai.
4)  Frase questa che sintetizza perfettamente la concezione logico-matematica di Hanno nei riguardi dell’esistenza.
5)  In realtà tutto il cinema di Haneke è costituito di inquadrature fisse, che spesso assumono la valenza sintattica del piano-sequenza.

Ancora una volta, all’essere umano viene imposta un’efficienza che trascende le sue naturali predisposizioni, una continuità tecnico-fisica tipica della macchina. Max, però, presenta anche delle sfasature, delle incrinature (in un comportamento altrimenti inserito pienamente nei parametri di normalità condivisi), che costituiscono dei potenziali punti di rottura della sua psiche. Lo si vede alterarsi notevolmente, in un bar, quando uno degli sfidanti di Hanno al gioco della croce distrugge le tessere di carta; poi, all’uscita da una delle lezioni all’università, lo si vede dirigersi verso una delle grandi finestre che si affacciano sull’esterno e guardare dall’alto in basso, per ritrovarlo, nell’inquadratura successiva all’uscita dall’edificio, a scrutare dal basso la finestra di prima e poi l’asfalto, dove compare l’ombra semicancellata di una sagoma umana disegnata col gesso. Ciò che passa per la sua mente non è dato saperlo, anche se risulta facilmente intuibile. 
È l’acquisto della pistola a costituire, però, l’elemento decisivo per capire l’instabilità emotiva del soggetto e, soprattutto, per individuare le arcane circonvoluzioni del caso. Durante una fila alla cassa di una mensa, proprio mentre una ragazza gli sta parlando della scommessa di Pascal – paradigmatica riflessione sulla dialettica fra scelta volontaria e capricci del caso, ma anche capovolgimento grottesco del dia-logos filosofico, dell’espressione della spiritualità umana, svilita in un contesto prosaico – gli viene consegnata la pistola da uno degli intermediari della transazione. Il caso (espressione del caos che regola le sorti umane), una volta di più e una volta di troppo ha vinto. Il resto non è altro che la meccanica conseguenza dell’innesco accidentale degli avvenimenti.
Nel capitolo conclusivo Max, ancora una volta per caso, rimane bloccato con l’auto in riserva a una pompa di benzina, in quanto sprovvisto di contante e impossibilitato ad acquisirne, visto che l’unico bancomat è fuori uso. Respinto anche nella banca, che, come detto, costituisce lo spazio centrale delle vicende narrate – luogo sconsacrato eppure sacro rispetto al sommo bene terreno che contiene e quindi luogo ideale per un “sacrificio” – egli tornerà alla propria auto, prenderà la pistola e rientrerà nella banca stessa, cominciando a sparare. 
Sappiamo che, all’interno dell’edificio, sempre per i capricci del caso, si trovano anche Hans, Inge, Tomek e sua figlia, ma non ci è dato sapere chi di loro rimarrà ucciso (salvo un’inquadratura ravvicinata di un corpo agonizzante, che, dal colore del maglione, sembra essere Hans), visto che l’inquadratura della strage mostra solo Max sparare verso lo schermo. I personaggi sono solo dei bersagli, ma essendo dei fantasmi, dei non-morti, risultano assenti, mancando, appunto, dall’inquadratura. Poi Max ritornerà all’auto, dove si ucciderà. I colpi esplosi nella banca sono 12, ma le vittime risulteranno essere 3. Pallottole in cambio di vite. Anche questa volta, i conti non tornano.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Extra

La trilogia glaciale di Michael Haneke:   Il settimo continente   -   Benny's Video


Scheda tecnica

Titolo originale: 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls
Anno: 1994
Durata: 95’
Regia, soggetto e sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Christian Berger
Montaggio: Marie Homolkova
Interpreti principali: Gabriel Cosmin Urdes, Lukas Miko, Otto Grünmandl, Anne Bennent, Udo Samel, Branko Samarovski, Claudia Martini, Georg Friedrich

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BENNY'S VIDEO - Occhi senza corpo

24/1/2014

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Benny (Arno Frisch) è un ragazzo proprio fortunato. Ha tutto ciò che un adolescente può chiedere alla propria condizione anagrafica, famigliare e sociale. Unico rampollo maschio di una famiglia dell’alta borghesia austriaca, abita in una bella casa, con una camera tutta per sé, dotata delle più moderne apparecchiature tecnologiche, ed è in grado di soddisfare tutti i capricci o i desideri che gli illuminino la mente. I genitori, spesso assenti, sia fisicamente, in quanto impegnati entrambi col proprio lavoro, sia affettivamente, a causa di una scarsa capacità comunicativa e di un sostanziale disinteresse, cercano di colmare tale vuoto con tutti i surrogati materiali che il ragazzo possa volere e la loro tasca comprare. Egli, quindi, gode di ampi mezzi e libertà, nonché di scarso controllo: il sogno di ogni adolescente.
Benny è anche un assassino. Niente di truculento o efferato, nessuna patologia clinica evidente, disturbo della personalità, delirio di onnipotenza, deviazione sessuale; o forse tutti questi elementi insieme, ma sottotraccia. Michael Haneke, secondo il suo stile, che all’epoca di questo suo secondo lungometraggio risulta già maturo e consolidato (dopo gli esiti già notevoli del suo precedente lavoro Il settimo continente), non tenta vani psicologismi, trite dietrologie sociopolitiche o moralismi fuorvianti, ma lascia scorrere le immagini e gli eventi, il cui senso spesso si cela dietro piccoli segni, gesti, comportamenti, sguardi, parole.
Il film si apre con la ripresa sgranata di un video amatoriale, che raffigura l’uccisione di un maiale in un mattatoio. Dopo lo sparo e il crollo dell’animale, una mano invisibile riavvia il video e lo mostra al rallentatore. Tale sequenza è emblematica per almeno tre motivi: nonostante la sua veridicità da snuff movie, manifesta appieno quanto la riproduzione audiovisuale della realtà possa essere manipolabile; indica uno dei due codici semiotici al lavoro nel film, vale a dire quello della ripresa amatoriale e soggettiva (il cui autore diegetico è quasi sempre Benny), in quanto contrapposto a quello dell’oggettiva del racconto filmico; infine si inserisce nel contesto della narrazione, spiegando come il protagonista (sua è la mano invisibile che riavvia il video, nonché quella che l’ha girato, ma lo si scoprirà solo successivamente) sia attratto dalle immagini estreme.
Lo spazio in cui Benny si muove, il suo regno, è la sua stanza, dotata di uno schermo televisivo, di un monitor, di un videoregistratore, di una videocamera portatile e di uno stereo. I due schermi assolvono due funzioni differenti, ancorché contigue. Quello televisivo, oltre al suo utilizzo tradizionale, viene adoperato anche per visionare i filmati da lui realizzati e le videocassette che egli quasi giornalmente noleggia. Il monitor, invece, è collegato sia a una videocamera fissa, collocata all’esterno dell’abitazione e puntata sulla strada per sorvegliare l’esterno, sia alla videocamera portatile puntata verso la stanza.
L’ossessione di controllo sull’ambiente interno, così come sul mondo esterno, ma anche sulla realtà e sulla sua rappresentazione, diviene per Benny l’illusione di essere in grado di estendere il potere del proprio sguardo di sorvolo sulle cose senza contaminarsi o mischiarsi con esse, mantenendo la distanza di sicurezza garantita dagli apparati di cui si circonda. Senza alcuna reversibilità. Puro occhio indagatore, guardante che non ama essere guardato/guardabile, il suo scopo ultimo diviene quello di inverare la realtà, riproducendola audio-visualmente per poterla così possedere, archiviare e rivedere fino allo sfinimento. Una realtà seconda, costituita da immagini in movimento e suoni, che, differentemente da quella fisica, non deperisce e in cui persino chi muore può rinascere, per poi morire di nuovo. Per sempre.
Haneke rielabora il mito della caverna platonico, capovolgendone magistralmente gli esiti. Benny si pasce di ombre, di fantasmi, al sicuro nella propria camera-antro, un non-luogo dove il tempo è bandito, semplicemente perché ne sono esclusi gli effetti e dove la realtà e la finzione si mescolano fino a diventare indiscernibili. Le immagini però non gli bastano più ed egli decide di uscire dal suo rifugio, per cercare una cavia per il suo esperimento decisivo: scoprire com’è la morte, la zona d’ombra del reale e della vita. Conosce una coetanea, che bazzica la videoteca da lui assiduamente frequentata, la invita a casa propria, mentre i genitori sono assenti, le offre da mangiare e le parla. Poi le mostra il video dell’esecuzione dell’animale e, dopo aver acceso la videocamera per riprendere la scena, la uccide, usando la pistola da macello che si vede nel video dell’uccisione del suino. 
L’incontro con la realtà fisica, però, anche nei suoi esiti più estremi, anziché costituire un’esperienza autentica, traumatica, piacevole, sublime, terribile, finisce col diventare un noioso episodio di routine – degno di essere rivisto e rivissuto, magari con calma, in seguito – da concludere al più presto, nascondendone le tracce, per tornare alle proprie occupazioni e soprattutto alla propria camera oscura e impenetrabile.
Inoltre va notato come, nella sua robotica smania di controllo sulle cose, il protagonista rifugga da tutto ciò che trascende il proprio ordine mentale. La morte del maiale, nel video che apre il film, si svolge secondo un copione, un ordine prestabilito, e Benny, puro voyeur, la filma, senza incontrare ostacoli, per rivedersela all’infinito nel proprio confortevole spazio organizzato. Più frequentemente, però, la morte è caotica, disarmonica, incontrollabile ed è questo che lo infastidisce (più che spaventare). Dopo aver sparato il primo colpo alla ragazza, lei non muore, anzi si lamenta e cade, uscendo dall’inquadratura della videocamera. La morte avviene fuoricampo, con Benny costretto a sparare ancora, mentre la videocamera riprende stolidamente un ambiente svuotato dei suoi personaggi, ma non delle sonorità che ne indicano la presenza/assenza. L’imponderabile ha tracimato, invadendo l’esistenza del protagonista, sotto forma di vita morente e refrattaria ai codici della ripresa. Un duplice sberleffo hanekiano al suo poco amato protagonista e allo spettatore, abituato ormai all’iper-visibilità televisiva e cinematografica (1). 

1) Uno dei film che Benny noleggia è The Toxic Avenger (Michael Herz e Lloyd Kaufman, 1984), un vero inno all’oscenità splatter, ancorché stemperato dall’ironia.

L’ossessione per l’ordine e per l’equilibrio che ne deriva non affligge solo il protagonista, ma anche i suoi genitori. Una volta scoperto il crimine del figlio, anziché provare sgomento per il gesto e pietà per la vittima, si preoccupano di quanto turbamento esso arrecherà alla tranquillità e all’ordine delle loro vite. Il loro unico scopo diviene allora quello di coprire le nefandezze di Benny, affinché la loro rispettabilità e il futuro del loro rampollo non vengano messi a repentaglio. Il padre, Georg (Ulrich Mühe), si assume il compito di fare a pezzi (“dovranno essere molto piccoli”, comunica alla moglie in un eccesso di efficientismo) il cadavere e di farlo sparire, oltre a distruggere il nastro dell’omicidio, mentre la madre, Anna (Angela Winkler), dovrà cercare di far ritrovare la pace interiore (mai compromessa, in realtà) al figlio, attraverso un viaggio in Egitto.
È proprio il viaggio, altrove veicolo di salvezza (2), a costituire invece il principio della fine per la famiglia, nonché lo svelamento di alcuni ulteriori frammenti di verità circa la personalità del protagonista. Anziché assaporare tale esperienza come una sana uscita da sé, come la possibilità di educare finalmente il proprio sguardo a posarsi in modo diverso su un mondo nuovo e sconosciuto, Benny la vive come una noia mortale. Fuori dalla sua tana, il piccolo mostro è inerme, se non fosse per la videocamera che ha portato con sé: un’arma di offesa (perché tenta di carpire il mistero delle cose, senza riuscirci, evidentemente) e di difesa (perché funge da filtro fra l’occhio e il mondo). Non a caso, tutte le immagini raffiguranti gli esterni in Egitto sono delle soggettive di Benny e della sua videocamera; gli interni nell’albergo sono invece girati come delle oggettive con macchina da presa professionale. 

2) Nel Vangelo di Matteo, Maria, Giuseppe e Gesù neonato fuggono in Egitto per evitare l’ira di Erode, una minaccia letale per il primogenito della Sacra Famiglia. Ironia hanekiana?

C’è un’unica cosa che preoccupa Benny: il fatto che il suo crimine sia noto solo ai suoi genitori, che la verità del suo atto sia invisibile al mondo. Una volta tornato in Austria, si autodenuncia alla polizia, portando con sé l’unica prova rimasta: una registrazione audiovisuale, da lui effettuata, del dialogo in cui i genitori pianificano, fuoricampo, ma con le loro voci perfettamente udibili, la loro complicità col figlio e le loro intenzioni per coprirne i misfatti. Una volta finita la deposizione, ingenuamente, Benny chiede: “posso andare, ora?”, quasi si trattasse di una birichinata, di una marachella infantile. 
Il fatto è che Benny non ha niente da nascondere, in cuor suo, perché niente è accaduto, nessuna esperienza, nessun mutamento palese (dopo l’omicidio si fa radere i capelli a zero, quasi avesse bisogno di percepire fisicamente un cambiamento che la sua mente e il suo cuore, ottusamente, rifiutano), nessuna maturazione o salto qualitativo nella comprensione della realtà. Alla fine del film, lo si vede uscire dalla sala degli interrogatori, inquadrato sul monitor di una telecamera di sorveglianza, mentre i genitori aspettano di entrare per essere a loro volta interrogati: da puro sguardo è divenuto puro oggetto visibile; da controllore, controllato. E non se n’è accorto.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Extra

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Scheda tecnica

Anno: 1992
Durata: 105’
Regia, soggetto e sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Christian Berger
Montaggio: Marie Homolkova
Interpreti principali: Arno Frisch, Ulrich Mühe, Angela Winkler, Ingrid Stassner, Stephanie Brehme

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IL SETTIMO CONTINENTE - Il benessere e il nulla

10/12/2013

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Ispirato da un fatto di cronaca, ma per nulla cronachistico o aneddotico, il primo lungometraggio di Michael Haneke – primo anche della cosiddetta Trilogia glaciale, che comprende anche Benny’s Video e 71 frammenti di una cronologia del caso – scandisce la graduale perdita di identità e il conseguente disfacimento di una famiglia nucleare della media borghesia austriaca sulla fine degli anni ’80: padre, madre, figlia. Fino all’autodistruzione. 
I tre ultimi anni di vita degli Schober (dal 1987 al 1989), culminanti con la decisione dei due adulti, Georg ed Anna, di eliminare se stessi e la loro figlia Eva, costituiscono altrettanti capitoli del film, in cui Haneke aggira il vincolo della ricerca della verità come fatto, come dato oggettivo, per disseminare il suo lavoro di piccoli frammenti di realtà quotidiana, fra le cui pieghe emergono, di tanto in tanto, i segni, i sintomi di un’angoscia latente.
Il film risulta composto di brevi segmenti descrittivi, più che narrativi, piani-sequenza fissi, in cui prevalgono i campi ravvicinati, i primi e primissimi piani e i dettagli di oggetti, di parti del corpo – soprattutto le mani – di sguardi: brandelli di un mondo senza centro e senso, dove ogni movimento, ogni azione sono puri meccanismi attivi, privi di volontà o partecipazione emotiva. Ciascuna sequenza è poi separata dalla successiva da alcuni secondi di schermo nero.
Si potrebbe, per certi versi, definire questo lavoro hanekiano come un singolare documentario sul vuoto – dove il nero costituisce l’effettivo orizzonte di (assenza del) senso – intervallato da alcuni squarci di una realtà dissonante, opaca, indifferente a se stessa. Tutto ciò che viene mostrato si configura come feticcio, simulacro di un’esistenza devitalizzata e deforme in quanto conforme alle regole e ai meccanismi di una società votata all’entropia. Il regista austriaco dissemina il film di gesti e rituali giornalieri, che, in quanto raffigurati come atti qualsiasi, senza alcuna caratterizzazione connotativa, assumono i caratteri dell’universalità, di una descrizione accurata della vita quotidiana nel mondo occidentale: assistiamo ai risvegli dei protagonisti, alle vestizioni, alle colazioni e pranzi, alla spesa, al pieno di benzina, al lavaggio dell’auto, a momenti della dimensione lavorativa. Tutte le loro attività sono comunque marcate da almeno una di queste tre ossessioni: pulizia, controllo, riempimento(1). Ciascuna di esse istituisce un autonomo, ma mai del tutto isolato, livello di senso per tentare di decifrare il testo filmico.

1) Per approfondire il tema delle ossessioni che contraddistinguono i personaggi hanekiani, si veda l’ottimo saggio di Fabrizio Fogliato La visione negata – Il cinema di Michael Haneke, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2008.

La prima di tali fissazioni, che assumono sovente i caratteri della compulsione, ritorna a più riprese sia direttamente, allorché vediamo i tre membri della famiglia intenti alla pulizia corporea quotidiana, sia indirettamente, attraverso l’asetticità semi-ospedaliera degli ambienti in cui essi agiscono al lavoro o a casa. Essa si ammanta inoltre di un forte significato simbolico nelle tre sequenze all’autolavaggio, che cadenzano altrettanti momenti topici della narrazione. La pulitura periodica dell’automobile degli Schober (con i tre membri all’interno dell’abitacolo, quasi fossero incapaci di separarsi da questa appendice su quattro ruote dell’abitazione) ritma l’inizio del film, la parte centrale – dopo la sequenza in cui Anna e Georg assistono all’esito di un incidente automobilistico, a seguito del quale cominciano probabilmente a maturare la decisione di uccidersi – e infine la parte finale, prima della lenta e metodica autodistruzione della loro casa e di se stessi.
Vero e proprio status symbol della contemporaneità, l’auto rappresenta al meglio l’incapacità dei personaggi di aderire a un’identità esistenziale anziché meramente commerciale o sociale. In generale, per prendersi cura al meglio di ciò che si possiede e di sé è indispensabile un’impossibile pulizia persistente, rito di purificazione dal contagio del mondo esterno. Tale asetticità si estende peraltro anche all’elocuzione dei protagonisti: monocorde, monotona, asettica appunto, incapace di tradire la benché minima emotività. L’unico personaggio che mostra una parvenza di umanità è la piccola Eva, che tenta disperatamente, ma invano, di attrarre l’attenzione degli adulti. Nel finale ella parteciperà, con un certo grado di consapevolezza, al rituale dell’autoeliminazione di sé e della propria famiglia, forse proprio a causa dell’impossibilità di comunicare e di essere riconosciuta e identificata dagli altri.
A questo tema risulta strettamente collegato quello dell’ossessione di controllo, di cui la maniacalità igienista è, in fondo, solo uno dei sintomi più evidenti. Georg si occupa della sicurezza di una grande azienda, Anna lavora in un negozio di ottica e persino la piccola Eva ha una responsabilità vitale: cibare i pesci dell’acquario di casa Schober. Tre modi diversi di attivare la funzione di controllo ambientale: sicurezza, vista, nutrizione, tre aspetti fondamentali della vita, che però, se estremizzati, divengono, bizzarra sineddoche, la totalità di essa.
La mania del controllo risulta però ben più radicata nella dimensione domestica. Gli Schober conducono un’esistenza fondamentalmente eremitica, isolati dal resto del mondo, non sembrano avere amici o conoscenti, trascorrono il tempo a casa a guardare insulse trasmissioni televisive, ad ascoltare altrettanto insulse musichette pop teutoniche e programmi di informazione alla radio o a nutrirsi meccanicamente. Persino i contatti coi genitori di Georg (quelli di Anna non vengono menzionati, salvo un cenno alla morte della madre) avvengono prevalentemente tramite lettera. Una specie di perenne stato d’assedio, che si evidenzia nel rapporto problematico fra esterno ed interno, fra sfera pubblica e privata.
Chiaramente, più circoscritto è l’ambiente con cui ci si deve confrontare, più agevole risulta controllarlo. Peraltro, è la regia di Haneke che marca la dimensione claustrofobica con le inquadrature ravvicinate e immobili, coi lunghi silenzi e i suoni alienanti provenienti dalla televisione o dalla radio. L’abitazione diviene quindi il baluardo estremo contro un mondo grigio e indifferente, mentre i mass media costituiscono l’unica parvenza di contatto e di controllo – il simulacro di un contatto e l’illusione di un controllo – rispetto a ciò che avviene nel mondo dei tardi anni ‘80.
La reazione al vuoto assoluto che pervade i protagonisti sembra inoltre trovare un veicolo notevolmente simbolico nel riempimento: riempimento della casa di oggetti, anzitutto provviste alimentari, dello stomaco di cibo, delle orecchie e degli occhi di suoni e immagini radiotelevisive. Cristallizzati in una perenne fase orale, i protagonisti, soprattutto i due adulti, trascorrono parecchio tempo a tavola a masticare, bere, inghiottire, col sottofondo di radio e Tv. Il tutto avviene però senza la benché minima parvenza di piacere, bensì con sforzo e disagio: riempirsi di cibo, vino, suoni e immagini, per colmare il vuoto. Non è casuale, infatti, che gli Schober, per darsi la morte, scelgano di ingurgitare un orrido miscuglio di farmaci e acqua: ancora una volta il riempimento è sia fisico che metaforico.
Ciò che più colpisce, però, nel suicidio finale, sono due elementi dissonanti, che stridono con l’istintività della pulsione di morte: la conclusione burocratica dei loro rapporti col mondo dei vivi e l’organizzazione maniacale, metodica e quasi matematica sia per la distruzione totale della casa che per la loro dipartita. La loro appartenenza sostanziale a un mondo e a una società alienanti, da cui ogni pulsione o atto spontaneo sono banditi, impedisce loro di abbracciare la dimensione autentica del caos e della distruzione come atti catartici. L’acquisto meticoloso di utensili per fare a pezzi l’abitazione e il suo contenuto, l’ennesima spesa generosa di generi di conforto, addirittura la vendita dell’auto e il ritiro dei risparmi in banca, che finiranno – con estremo orrore di parecchi spettatori a ogni proiezione pubblica del film – nel water, nonché la stessa demolizione controllata della casa e delle suppellettili assumono i connotati di una liberazione impossibile da raggiungere per chi è imbevuto di regole e ordine.
Poco dopo che la moglie e la figlia sono decedute, Georg, calpestando i resti della sua dimora distrutta, va alla parete dove sono meticolosamente annotati nomi, date e orari della morte delle due per scrivere i propri dati, ma, dopo aver vergato il nome, si blocca. Forse solo in quel momento si rende conto di essere (ancora) vivo e di non potere concludere l’annotazione in modo preciso. Traccia un punto interrogativo e si sdraia sul letto ad aspettare la fine. Quel punto interrogativo è forse il significato definitivo del film, sia perché neutralizza la chiusura del cerchio del senso, sia perché costituisce l’unica risposta possibile a chi, guardando Il settimo continente, si chiede: qual è la verità?

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Extra


Scheda tecnica

Titolo originale: Der siebente Kontinent
Anno: 1989
Durata: 104’
Regia e sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Anton Peschke
Suono: Karl Schilfener
Montaggio: Marie Homolkova
Interpreti: Dieter Berner, Udo Samel, Leni Tanzer, Birgit Doll

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