I tre ultimi anni di vita degli Schober (dal 1987 al 1989), culminanti con la decisione dei due adulti, Georg ed Anna, di eliminare se stessi e la loro figlia Eva, costituiscono altrettanti capitoli del film, in cui Haneke aggira il vincolo della ricerca della verità come fatto, come dato oggettivo, per disseminare il suo lavoro di piccoli frammenti di realtà quotidiana, fra le cui pieghe emergono, di tanto in tanto, i segni, i sintomi di un’angoscia latente.
Il film risulta composto di brevi segmenti descrittivi, più che narrativi, piani-sequenza fissi, in cui prevalgono i campi ravvicinati, i primi e primissimi piani e i dettagli di oggetti, di parti del corpo – soprattutto le mani – di sguardi: brandelli di un mondo senza centro e senso, dove ogni movimento, ogni azione sono puri meccanismi attivi, privi di volontà o partecipazione emotiva. Ciascuna sequenza è poi separata dalla successiva da alcuni secondi di schermo nero.
Si potrebbe, per certi versi, definire questo lavoro hanekiano come un singolare documentario sul vuoto – dove il nero costituisce l’effettivo orizzonte di (assenza del) senso – intervallato da alcuni squarci di una realtà dissonante, opaca, indifferente a se stessa. Tutto ciò che viene mostrato si configura come feticcio, simulacro di un’esistenza devitalizzata e deforme in quanto conforme alle regole e ai meccanismi di una società votata all’entropia. Il regista austriaco dissemina il film di gesti e rituali giornalieri, che, in quanto raffigurati come atti qualsiasi, senza alcuna caratterizzazione connotativa, assumono i caratteri dell’universalità, di una descrizione accurata della vita quotidiana nel mondo occidentale: assistiamo ai risvegli dei protagonisti, alle vestizioni, alle colazioni e pranzi, alla spesa, al pieno di benzina, al lavaggio dell’auto, a momenti della dimensione lavorativa. Tutte le loro attività sono comunque marcate da almeno una di queste tre ossessioni: pulizia, controllo, riempimento(1). Ciascuna di esse istituisce un autonomo, ma mai del tutto isolato, livello di senso per tentare di decifrare il testo filmico.
1) Per approfondire il tema delle ossessioni che contraddistinguono i personaggi hanekiani, si veda l’ottimo saggio di Fabrizio Fogliato La visione negata – Il cinema di Michael Haneke, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2008.
La prima di tali fissazioni, che assumono sovente i caratteri della compulsione, ritorna a più riprese sia direttamente, allorché vediamo i tre membri della famiglia intenti alla pulizia corporea quotidiana, sia indirettamente, attraverso l’asetticità semi-ospedaliera degli ambienti in cui essi agiscono al lavoro o a casa. Essa si ammanta inoltre di un forte significato simbolico nelle tre sequenze all’autolavaggio, che cadenzano altrettanti momenti topici della narrazione. La pulitura periodica dell’automobile degli Schober (con i tre membri all’interno dell’abitacolo, quasi fossero incapaci di separarsi da questa appendice su quattro ruote dell’abitazione) ritma l’inizio del film, la parte centrale – dopo la sequenza in cui Anna e Georg assistono all’esito di un incidente automobilistico, a seguito del quale cominciano probabilmente a maturare la decisione di uccidersi – e infine la parte finale, prima della lenta e metodica autodistruzione della loro casa e di se stessi.
Vero e proprio status symbol della contemporaneità, l’auto rappresenta al meglio l’incapacità dei personaggi di aderire a un’identità esistenziale anziché meramente commerciale o sociale. In generale, per prendersi cura al meglio di ciò che si possiede e di sé è indispensabile un’impossibile pulizia persistente, rito di purificazione dal contagio del mondo esterno. Tale asetticità si estende peraltro anche all’elocuzione dei protagonisti: monocorde, monotona, asettica appunto, incapace di tradire la benché minima emotività. L’unico personaggio che mostra una parvenza di umanità è la piccola Eva, che tenta disperatamente, ma invano, di attrarre l’attenzione degli adulti. Nel finale ella parteciperà, con un certo grado di consapevolezza, al rituale dell’autoeliminazione di sé e della propria famiglia, forse proprio a causa dell’impossibilità di comunicare e di essere riconosciuta e identificata dagli altri.
A questo tema risulta strettamente collegato quello dell’ossessione di controllo, di cui la maniacalità igienista è, in fondo, solo uno dei sintomi più evidenti. Georg si occupa della sicurezza di una grande azienda, Anna lavora in un negozio di ottica e persino la piccola Eva ha una responsabilità vitale: cibare i pesci dell’acquario di casa Schober. Tre modi diversi di attivare la funzione di controllo ambientale: sicurezza, vista, nutrizione, tre aspetti fondamentali della vita, che però, se estremizzati, divengono, bizzarra sineddoche, la totalità di essa.
La mania del controllo risulta però ben più radicata nella dimensione domestica. Gli Schober conducono un’esistenza fondamentalmente eremitica, isolati dal resto del mondo, non sembrano avere amici o conoscenti, trascorrono il tempo a casa a guardare insulse trasmissioni televisive, ad ascoltare altrettanto insulse musichette pop teutoniche e programmi di informazione alla radio o a nutrirsi meccanicamente. Persino i contatti coi genitori di Georg (quelli di Anna non vengono menzionati, salvo un cenno alla morte della madre) avvengono prevalentemente tramite lettera. Una specie di perenne stato d’assedio, che si evidenzia nel rapporto problematico fra esterno ed interno, fra sfera pubblica e privata.
Chiaramente, più circoscritto è l’ambiente con cui ci si deve confrontare, più agevole risulta controllarlo. Peraltro, è la regia di Haneke che marca la dimensione claustrofobica con le inquadrature ravvicinate e immobili, coi lunghi silenzi e i suoni alienanti provenienti dalla televisione o dalla radio. L’abitazione diviene quindi il baluardo estremo contro un mondo grigio e indifferente, mentre i mass media costituiscono l’unica parvenza di contatto e di controllo – il simulacro di un contatto e l’illusione di un controllo – rispetto a ciò che avviene nel mondo dei tardi anni ‘80.
La reazione al vuoto assoluto che pervade i protagonisti sembra inoltre trovare un veicolo notevolmente simbolico nel riempimento: riempimento della casa di oggetti, anzitutto provviste alimentari, dello stomaco di cibo, delle orecchie e degli occhi di suoni e immagini radiotelevisive. Cristallizzati in una perenne fase orale, i protagonisti, soprattutto i due adulti, trascorrono parecchio tempo a tavola a masticare, bere, inghiottire, col sottofondo di radio e Tv. Il tutto avviene però senza la benché minima parvenza di piacere, bensì con sforzo e disagio: riempirsi di cibo, vino, suoni e immagini, per colmare il vuoto. Non è casuale, infatti, che gli Schober, per darsi la morte, scelgano di ingurgitare un orrido miscuglio di farmaci e acqua: ancora una volta il riempimento è sia fisico che metaforico.
Ciò che più colpisce, però, nel suicidio finale, sono due elementi dissonanti, che stridono con l’istintività della pulsione di morte: la conclusione burocratica dei loro rapporti col mondo dei vivi e l’organizzazione maniacale, metodica e quasi matematica sia per la distruzione totale della casa che per la loro dipartita. La loro appartenenza sostanziale a un mondo e a una società alienanti, da cui ogni pulsione o atto spontaneo sono banditi, impedisce loro di abbracciare la dimensione autentica del caos e della distruzione come atti catartici. L’acquisto meticoloso di utensili per fare a pezzi l’abitazione e il suo contenuto, l’ennesima spesa generosa di generi di conforto, addirittura la vendita dell’auto e il ritiro dei risparmi in banca, che finiranno – con estremo orrore di parecchi spettatori a ogni proiezione pubblica del film – nel water, nonché la stessa demolizione controllata della casa e delle suppellettili assumono i connotati di una liberazione impossibile da raggiungere per chi è imbevuto di regole e ordine.
Poco dopo che la moglie e la figlia sono decedute, Georg, calpestando i resti della sua dimora distrutta, va alla parete dove sono meticolosamente annotati nomi, date e orari della morte delle due per scrivere i propri dati, ma, dopo aver vergato il nome, si blocca. Forse solo in quel momento si rende conto di essere (ancora) vivo e di non potere concludere l’annotazione in modo preciso. Traccia un punto interrogativo e si sdraia sul letto ad aspettare la fine. Quel punto interrogativo è forse il significato definitivo del film, sia perché neutralizza la chiusura del cerchio del senso, sia perché costituisce l’unica risposta possibile a chi, guardando Il settimo continente, si chiede: qual è la verità?
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Extra
Scheda tecnica
Titolo originale: Der siebente Kontinent
Anno: 1989
Durata: 104’
Regia e sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Anton Peschke
Suono: Karl Schilfener
Montaggio: Marie Homolkova
Interpreti: Dieter Berner, Udo Samel, Leni Tanzer, Birgit Doll