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ANIMAL KINGDOM - Crimini di famiglia

3/3/2015

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Quando la madre dell'adolescente Joshua “J” (James Frecheville) muore in seguito a un'overdose, al ragazzo non resta che contattare la nonna, Janine “Smurf” Cody (Jacki Weaver). La donna lo accoglie in casa, dove vive con i figli, Pope, Craig e Darren (Ben Mendelsohn, Luke Ford, Sullivan Stapleton). Braccati dalla polizia, i Cody sono dei criminali spietati e paranoici che vivono di rapine e traffico di droga. 
Un giorno Pope dà appuntamento all'amico Barry “Baz” Brown (Joel Edgerton) in un supermercato. Terminato l'incontro, Baz esce e si trova faccia a faccia con la squadra di agenti che li pedina senza tregua. Uno di loro gli spara e lo uccide. Pope vuole vendetta e, con la complicità di Craig, organizza un'imboscata. Lascia un'auto sospetta in mezzo a una strada, e non appena due poliziotti si fermano per effettuare un controllo, i fratelli Cody li eliminano a sangue freddo. 
Pope e Craig vengono arrestati e il resto della famiglia convocato in centrale. Il detective Nathan Leckie (Guy Pearce) interroga a lungo J e questo basta perché Pope inizi a dubitare della sua lealtà. Individua nel nipote l'anello debole della catena e teme che possa incastrarli, se torchiato dalle forze dell'ordine. La tensione alimenta la paranoia dei Cody e annienta il loro ultimo barlume di lucidità mentale, provocando un'escalation di eventi violenti e di colpi di scena che non potrà che sfociare in una sconfitta totale, da cui nessuno uscirà vincitore.
Il primo lungometraggio di David Michôd (The Rover), regista e sceneggiatore australiano, si ispira alle reali vicende di una famiglia di criminali di Melbourne. Quando realizza Animal Kingdom (2010), Michôd ha già all'attivo un'apprezzata serie di cortometraggi e documentari. E l'occhio del documentarista è fondamentale per raccontare con freddezza, senza condanne e compiaciuti voyeurismi, un mondo, quello della malavita, che riporta l'essere umano alla sua condizione primordiale. Quella bestiale, appunto. 
Già dal titolo il pubblico intuisce che a fatica argomenti quali pentimento e redenzione troveranno spazio. L'Animal Kingdom, il regno degli animali, non conosce l'etica. Esistono forse gazzelle buone e leoni cattivi? Il leone sbrana la gazzella per sopravvivere, non ha scelta. In natura il più forte distrugge il più debole,  che non può far altro che scappare per salvarsi. Michôd riserva un briciolo di umanità e di senso della giustizia soltanto al detective Leckie, che tenta di allontanare J dalla distruttiva famiglia Cody prima che sia troppo tardi. Ma J ha davvero la possibilità di prendere decisioni? O le sue azioni non sono piuttosto dettate dall'unica regola dell'Animal Kingdom, ovvero uccidere per non essere ucciso?
Il film è stato insignito del Gran premio della giuria come miglior film straniero al Sundance Film Festival nel 2010. Presentato fuori concorso al festival di Roma nello stesso anno, è poi uscito nei cinema italiani all'inizio del 2011. Meritevoli di nota le performance di Jacki Weaver, che indossa i panni della nonna psicopatica, e di Guy Pearce.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Animal Kingdom
Anno: 2010
Regia: David Michôd
Sceneggiatura: David Michôd
Fotografia: Adam Arkapaw
Durata: 112'
Uscita italiana: gennaio 2011
Interpreti principali: James Frecheville, Ben Mendelsohn, Joel Edgerton, Guy Pearce, Luke Ford, Jacki Weaver

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SOMERSAULT - Amore e perdono

20/9/2013

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Heidi (Abbie Cornish, Bright star, E.W.) ha sedici anni ed è in fuga. Ha baciato il fidanzato di sua madre e, vittima del senso di colpa, è scappata di casa senza sapere esattamente dove andare, né con chi, né come farcela. Heidi ha imparato a sopravvivere usando il corpo come merce di scambio. Questo è ciò che ritiene di saper fare: punire se stessa come se non stesse vivendo la propria vita, ma maltrattando una bambola, oggetto distaccato da lei e quindi privo di valore.
Heidi è un’adolescente confusa, eppure sa perfettamente ciò che vuole. Solo che ritiene di non meritarlo. Eccola allora vagare affranta in cerca di un riparo, così ingenua eppure determinata a fare ciò che serve per sopravvivere, fosse anche una sola notte. Eccola spostarsi da un ragazzo all’altro, sperando di trovare qualcuno che sia disposto a prenderla con sé, a portarla via, non importa dove. Sarà poi l’incontro con Irene (Lynette Curran) a darle una casa, e quello con Joe (Sam Worthington, Avatar) a regalarle il primo battito del cuore, il sentimento autentico che ti dice che il sesso non è moneta, ma il contatto più intimo e privato nella stretta curva del voler bene. Solo perdonando se stessi è possibile crescere, solo nella catarsi emozionale si sciolgono i nodi e si può ritrovare la strada interrotta, i legami familiari, la fedeltà, l’amore.
Questo è un film sul perdono, afferma la regista Cate Shortland. Un film abitato di creature segnate, sole e imperfette, che cercano di venire a patti con gli errori, il passato, il dolore, la colpa. Anime introverse che devono imparare a perdonare se stesse per poter guardare avanti senza paura, armate di speranza. Non solo Heidi, cui in ogni caso gira intorno l’intera storia, ma tutti i personaggi sembrano avere un sentimento irrisolto e una pena che grava come un sasso nel determinare - nel passato e nel presente- comportamenti, stili di vita e scelte.
C’è un misto di poesia e malinconia nel racconto d’ambiente, una realtà al contempo gelida (d’inverno) e calda (dei sentimenti rinati). Heidi, “una cappuccetto rosso del ventunesimo secolo”, come la definisce Skye Sherwin nel The Guardian. Una bambina persa che utilizza i pochi spiccioli che ha per comprarsi un paio di guanti rossi con cui vagare nel rigido paesaggio, per metà rurale e per metà urbano. Heidi che colora il bosco di movimenti, suoni, filastrocche infantili. Anche la città ha bisogno di lei, dopotutto. Ma qual è il suo posto? Qual è il luogo di tutti noi? Il posto cui apparteniamo? Forse è solo nella dimensione affettiva che possiamo ritrovarci e riscoprire la ragione di esistere. Dobbiamo tutti dare un senso alle nostre azioni, dobbiamo fermarci e capire come guadagnarci il rispetto di noi stessi, riappropriandoci della nostra dignità.
Somersault è un toccante e profondo ritratto di giovani divisi tra sogni irrealizzabili, aspettative represse, l’inconfessabile desiderio d’amore e la paura di ottenere quel po’ di felicità che, con sfrontatezza e audacia, solo i ragazzi sanno chiedere. È un racconto di formazione, un coming-of-age che segue, con semplicità e delicatezza, il coraggioso atto di diventare grandi.
L’accettazione di sé e dell’amore come forza risanatrice è più importante della sessualità, anche se indubbiamente Cate Shortland parte dall’epidermide, per così dire, per giungere poi nella profondità, del contesto e dei personaggi. Abbie Cornish e Sam Worthington sono i volti perfetti di questo minimale racconto di formazione: giovanissimi, ingenui e puliti, privi di sovrastruttura, capaci di recitare in silenzio, col corpo, con la poetica dei piccoli gesti che la regista sa e vuole cogliere: così, anche una banale colazione a letto diventa l’intimo gesto di nutrirsi e donarsi. L’attrazione muta in scoperta, i baci in corpi che si uniscono e sbocciano, il sesso in amore. In cura di sé, in devozione per l’altro. Nella più importante scelta che si possa fare: lasciarsi liberi di andare, liberi di tornare.
Somersault, il salto mortale che compiamo quando scappiamo, o quando ci abbandoniamo alla fiducia, agli affetti, alla speranza.
Con la sua opera prima Cate Shortland ha sbancato nel 2004 l’Australian Film Institute Award, vincendo 13 premi su 13 candidature. Un successo che è ancora un record, meritatissimo, per un film che offre un delicato ma sferzante scorcio sull’indefinita età adolescente. Un film che esalta anche le qualità, spesso dimenticate, del cinema indipendente: budget minimo, una sceneggiatura curata e originale, un gruppo di attori sconosciuti e straordinari, una regia che usa la macchina da presa per catturare, più che per dimostrare. 

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Somersault
Regia: Cate Shortland
Sceneggiatura: Cate Shortland
Interpreti: Abbie Cornish, Sam Worthington, Lynette Curran
Fotografia: Robert Humphreys
Musiche: Decoder Ring
Durata: 104 min.
Anno: 2004

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WISH YOU WERE HERE - Il cerchio interrotto

29/8/2013

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Presentato al Sundance Film Festival nel 2012 ma distribuito negli Stati Uniti solo nel 2013, Wish you were here è il primo, ottimo lungometraggio di Kieran Darcy-Smith (già interprete di Animal kingdom), che insieme all’attrice Felicity Price ne ha curato anche la sceneggiatura.
Costruito sull’alternanza di due tempi, presente e passato, Wish you were here racconta il cerchio interrotto attorno alla scomparsa dell’australiano Jeremy (Anthony Starr) durante un viaggio in Cambogia; il resto è il dramma dei tre amici che si trovavano con lui, il loro ritorno a casa come persone totalmente cambiate, inquiete, avvolte da una nube di dolore e incertezza difficile da dissipare.
“Vorrei che fossi qui”, recita il titolo del film. Ma Jeremy non c’è, e la sua è la presenza-assenza più rumorosa. Sua è l’ombra invisibile che si annida nelle vite di Alice (Felicity Price), del marito Dave (Joel Edgerton) e della sorella Steph (Teresa Palmer), che di Jeremy è la fidanzata. Loro agiscono come i sopravvissuti a una tragedia inspiegabile, creature perse dentro il proprio vuoto, combattuti tra il desiderio di indagare sulla scomparsa dell’amico e la necessità di elaborarne la perdita per guardare avanti. Jeremy ha lasciato un buco nel quale nessuno ha il coraggio di guardare, forse per la paura di trovare la verità nel malcelato senso di colpa. 
Wish you were here è un percorso compiuto verso la consapevolezza degli eventi del passato, un mystery che ricostruisce la frammentata trama gialla procedendo per flashback e che finisce poi con il diventare un dramma romantico sul tradimento, l’ambiguità delle relazioni amorose e la responsabilità delle scelte individuali.
Incerto se seguire una strada o l’altra, il film forse si perde un po’ quando arriva il momento di prendere una decisione. Non ci sono colpi di scena né eventi inaspettati; al contrario uno spettatore minimamente attento può subito captare che le svolte della trama, legate a verità che i personaggi tengono nascoste, siano snodi narrativi necessari ad accompagnarci verso un finale drammatico e pacificatore. Ciascuno dei protagonisti possiede un pezzo del puzzle, per arrivare all’alba della scomparsa di Jeremy, alla soluzione dell’enigma, all’espiazione del peccato e a una dolorosa catarsi.
Interessante il taglio voluto dal regista, con i continui flashback della Cambogia dalla doppia faccia, una cartolina turistica le cui vedute nascondono in realtà scorci assai poco idilliaci. La Cambogia non è il Vietnam de Il cacciatore, ma certe atmosfere estreme sembrano - pur involontariamente - richiamare il film di Michael Cimino. Ambienti soffocanti, crudi e clandestini che trasudano sangue e guai, con i colori splendidamente fotografati da Jules O'Loughlin; luoghi appartati e omertosi dove si compie l’indicibile. Nulla che non sia preannunciato, nulla che non ci si aspetti, ma il pur inevitabile svelamento della verità è descritto con la giusta tensione drammatica.
Uno degli aspetti più riusciti risiede nella costante contrapposizione tra l’idea di casa e il ricordo della parentesi cambogiana, tra la vita ordinaria che cerca stentatamente di riprendere il suo corso e quel frammento di follia appassionata ed esotica, accaduto nel passato e così ostinatamente arpionato nel presente. La distanza non è solo temporale, tra momenti e spazi così diversi; sembra quasi che le vite dei personaggi siano scollate, tra un prima e un dopo la scomparsa di Jeremy. Vite prive di continuità e legate solo dal vuoto. Ecco l’importanza di scelte scenografiche suggestive e contrastanti, e di una fotografia che alterna i colori naturali dell’Australia a quelli caldi della Cambogia.
Più di tutto, tuttavia, risalta la performance del quartetto di attori. Non si tratta di una sciarada né di un testo teatrale, eppure Wish you were here conta sull’alchimia e sulla capacità del cast di creare coralmente, quasi come attorno a un fuoco, la figura del personaggio assente e le ombre e i misteri incandescenti che brillano attorno a quella sagoma.
Combattute e introspettive le performance di Joel Edgerton e Teresa Palmer, che si dipanano su registri interpretativi simili, mentre più toccante ed emotiva è la prova di Felicity Price. Ad Anthony Starr la missione (compiuta) di far risultare indimenticabile il suo Jeremy anche solo con una manciata di scene all’attivo.
Da sottolineare lo sforzo produttivo compiuto per un film interessante e piccolo come questo. Si tratta di un’opera autenticamente indipendente, prodotta dalla Blue-Tongue Films, società di Joel Edgerton che lavora come un vero e proprio collettivo, con attori e registi legati gli uni agli altri da rapporti professionali di valore (a loro si deve anche il sopracitato e bellissimo Animal Kingdom). 
Wish you were here conferma il fermento creativo del cinema australiano, capace non solo di esportare attori, ma di intuire, investire e rischiare. La libertà dell’indie.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Wish you were here
Regista: Kieran Darcy-Smith
Sceneggiatura: Kieran Darcy-Smith, Felicity Price
Attori: Joel Edgerton, Teresa Palmer, Felicity Price, Anthony Starr
Fotografia: Jules O’ Laughlin
Scenografia: Alex Holmes
Montaggio: Jason Ballantine
Durata: 89'
Anno: 2012

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THE SNOWTOWN MURDERS - Genesi di un killer

11/6/2013

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Dentro la mente di John Justin Bunting, il serial killer più famoso (o famigerato) d’Australia. Undici efferati delitti commessi nel South Australia negli anni ’90 ma sui quali si indagò solo nel ’99, quando i corpi furono ritrovati proprio a Snowtown.
The Snowtown Murders (2011), primo lungometraggio di Justin Kurzel, non entra però nella psicologia dell’assassino, come aveva fatto Herzog con il bellissimo My son, my son, what have ye done?, e affronta solo marginalmente il tema dell’influenza genitoriale nella (dis)educazione del giovane killer, cosa trattata con grande efficacia da We Need to Talk About Kevin (E ora parliamo di Kevin).
Il film offre un ritratto inquietante di vite oltre il limite della normalità, ma soprattutto racconta e costruisce la più inquietante delle storie vere, radicandola alla società in cui si compie, legandola in modo indissolubile al contesto familiare, relazionale e ambientale in cui avviene. Ed è tutto quasi come la naturale, inevitabile conseguenza di situazioni, manipolazioni e fatti. Il giovane Jamie (Lucas Pittaway) sopravvive, silenzioso e isolato, in una realtà fatta di disperazione e abusi reiterati. Per sottrarsi all’abitudine di violenze costanti e ripetute, il ragazzo scappa e trova rifugio nella casa di John Bunting (Daniel Henshall), in una famiglia che sembra quella di Charles Manson, tanto aperta ad accogliere il reietto quanto stretta nel manipolarne la fragile mente, il corpo, i pensieri e le azioni, fino a portarlo non solo ad accettare la violenza più atroce, ma a perpetrarla egli stesso.
Il cattivo maestro trova un allievo disperato dal desiderio di stabilire rapporti piuttosto che di farsi escludere; gioca con le sue debolezze, le mancanze, i desideri, gli mostra solo pochi brandelli di normalità, e insinuandosi tra la maglie larghe delle sue emozioni lo attira a sé, spingendosi e spingendolo a sorpassare la linea invisibile che separa la debolezza dalla brutalità, la rabbia dalla violenza. La vita dalla morte.
The Snowtown Murders è un film tutto al maschile in cui la componente sessuale, per quanto non sottolineata, è una delle variabili che determina sia i comportamenti che le dinamiche psicologiche dei personaggi. Il ritratto della comunità assassina è un quadro d’insieme che si compone e i cui colori tendono a mutare a seconda della prospettiva offerta allo spettatore. La storia di abusi, di sessualità più o meno implicita, lo schema di attrazione/repulsione verso il carismatico leader terrorizzante e subdolo si snoda sul piano dell’ambiguità; eppure il regista – pur senza mai giudicare - non si confonde e non ci confonde.
La scelta di Jamie di non rimanere spettatore degli omicidi, ma di fare quel salto, di diventare assassino a propria volta, è personale, non determinata tanto dalla società, quanto dalle persone. Il fascino del male e la decisione di farsi prendere nella spirale è forse solo un clic, tambureggiante e impercettibile, che scatta all’improvviso nella mente, annulla le emozioni, raggela le resistenze, la percezione del bene, e fredda perfino gli istinti.
La regia di Justin Kurzel si mostra distaccata, quasi realistica nel narrare il percorso mentale verso quel ‘clic’. È un crudele gioco delle parti tra i personaggi principali, Jamie e John, elaborato in immagini attraverso contrapposizioni e contrasti. Il film cattura da subito ma inizia veramente a funzionare, a crescere, a coinvolgere suo malgrado lo spettatore nel turbine di efferatezze proprio quando abbandona la strada del realismo per imboccarne una più personale, fatta di tagli netti, montaggio, dettagli, cura del particolare. L’inquietudine, la disturbante sensazione di orrore si crea attraverso lunghe scene di dialogo, complesse e sottili, alternate alla barbarie degli omicidi. E se Kurzel non si autocompiace nel mostrare, e di certo non risparmia nulla all’immaginazione, tuttavia sono quelli i momenti più riusciti nel film. Merito anche della splendida prova di Daniel Henshell, la cui figura impera anche quando non c’è, nelle inquadrature ottimamente composte dal regista - in cui l’inquietante pater familias (per dirla con una felice intuizione del critico Peter Bradshaw del The Guardian) si mostra defilato, sfocato, invisibile. E onnipresente.
La tensione, l’attesa, la sensazione della violenza che aleggia in ogni singola inquadratura, in ogni scena, quella percezione di destino che sta per compiersi, si trascina verso di noi, impotenti spettatori della morte inutile, dell’abbandono, della lucida follia, della fragilità dell’adolescenza rubata. Noi spettatori degli avvenimenti in una città che pare inesistente, inconsistente, addirittura vuota. John è il nostro dirimpettaio, il sinistro vicino di casa di là dal muro, il padre di famiglia, padrino e padrone delle esistenze che attorno a lui girano; burattini, prede e predatori nell’apocalisse che esplode tra le mura, mentre fuori il mondo racconta un’altra storia. Forse.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: The Snowtown Murders, a.k.a. Snowtown
Produzione: Australia
Regia: Justin Kurzel
Attori: Daniel Henshall, Lucas Pittaway, Louise Harris
Sceneggiatura: Shaun Grant
Fotografia: Adam Arkapaw
Musiche: Jed Kurzel
Durata: 119'
Anno: 2011

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33 POSTCARDS - Vivere senza confini

1/5/2013

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33 Postcards, o 33 messaggi che riassumono il legame costruito, nel corso degli anni, tra Mei Mei (Zhu Lin) e Dean Randall (Guy Pearce). Mei Mei è un’orfana cinese, ha appena sedici anni e ha potuto crescere e avere un’educazione grazie alle donazioni di Dean Randall, misterioso benefattore che vive in Australia. L’unico filo che li tiene insieme è una fitta, costante corrispondenza: Dean scrive dello splendore della sua vita familiare, del sole e delle passeggiate in spiaggia, disegnando per Mei Mei un vero e proprio sogno di felicità, lucente, tondo e perfetto. Quando l’istituto presso il quale Mei Mei risiede organizza un viaggio a Sydney per partecipare a una manifestazione canora, la ragazza decide di scappare e tentare, con il cuore pieno, di incontrare Dean. Di toccare finalmente quel sogno, raggiungere l’isola felice. Che non c’è. 
Dean è un detenuto, e l’intero mondo con cui Mei Mei ha cullato la propria giovane vita non è altro che la fantasia di un uomo solo, generoso ma anche bugiardo. Eppure c’è una verità profonda, al di là delle menzogne raccontate per ingannare se stessi o per fuggire dalla realtà troppo angusta da sopportare. La verità è che Dean e la ragazza cercano la medesima cosa: una famiglia, una figlia o un padre, qualcuno da amare e di cui prendersi cura, qualcuno per cui valga la pena sperare, o anche solo iniziare a vivere.
Film della pacificazione e film-simbolo della raggiunta integrazione tra Cina e Australia, 33 Postcards è il frutto della co-produzione tra i due paesi e in particolare la prima pellicola a contare sulla collaborazione tra Cina e New South Wales. La regista Pauline Chan, anche sceneggiatrice, cresciuta in Vietnam ma da trent’anni residente in Australia, conosce bene entrambe le realtà e gli stili di vita, le conflittualità, le diversità culturali, che qui traduce in un racconto di formazione toccante e poetico, delicato e sincero. Pur non addentrandosi nella complessità strutturale di una storia dai molteplici risvolti ma forse eccessivamente semplificata, la regista si giustifica affidando la propria prospettiva allo sguardo ingenuo ed entusiasta di Mei Mei, una Alice nel paese delle meraviglie che combatte con straordinaria caparbietà per realizzare se stessa e il suo irrinunciabile desiderio di appartenenza all’altro, come estensione della propria vita in procinto di sbocciare.
Se non sfugge alla retorica il racconto di questo percorso di adattamento che Mei Mei compie nella realtà australiana - così diversa e spiazzante, addirittura alienante rispetto al ridotto e claustrofobico ambiente dell’orfanotrofio cinese – è decisamente efficace, e coinvolgente, la descrizione del cambiamento interiore compiuto dai personaggi. L’ingresso della sedicenne nella vita di Dean Randall, condotta dentro e fuori la legalità, porta una nuova luce e insieme il risveglio della coscienza, di un senso di moralità e di riscatto.
L’intero universo di valori viene ridiscusso da entrambe le culture, orientale e occidentale, tra preservazione della purezza, compimento della maturità e accettazione del diritto-dovere che, come esseri umani, abbiamo di provvedere a noi stessi e all’altro, consapevoli della responsabilità che comporta amare qualcuno, fidarsi e affidarsi all’altro e ricambiare questa fiducia.
Impreziosito dall’interpretazione fresca di Zhu Lin e da quella sofferta e complessa di Guy Pearce (che dà forma e corpo allo spirito di un uomo appesantito dalla colpa eppure disperato di risorgere dalla propria ombra), 33 Postcards ha forse nelle scelte visive e di ambiente il punto di forza. Grazie alla bellissima fotografia di Toby Oliver (sospesa tra toni naturali, colori caldi, suggestioni emozionali e crudezza d’ambiente), il racconto per immagini che viene fatto di Sydney si muove da un livello più immediato - la skyline, la metropoli caotica – a uno meno scontato, più autentico, tutto composto di luci e ombre, commistioni architettoniche e paesaggi naturali, in un imperfetto quadro di contaminata postmodernità. La realtà del vivere senza confini, come si auspica la stessa Pauline Chan: un universo senza barriere culturali. Un sogno. Perché ogni film è una cartolina che viaggia ai confini del mondo, portando il messaggio con sé.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: 33 Postcards
Regia: Pauline Chan
Anno: 2011
Attori: Zhu Lin, Guy Pearce, Claudia Karvan, Lincoln Lewis, Kain O'Keeffe
Durata: 97 min.
Fotografia: Toby Oliver
Sceneggiatura: Martin Edmond, Philip Dalkin, Pauline Chan
Musica: Anthony Parthos

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THE SAPPHIRES - Australia, Motown, Vietnam

28/4/2013

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Solo a prima vista, e ciò vuol dire a un’occhiata superficiale, The Sapphires è la versione australiana di Dreamgirls. In realtà, le sole cose che il film di Wayne Blair e quello di Bill Condon hanno in comune sono l’ambientazione anni ’60, una matrice teatrale e il fatto di raccontare la storia di un gruppo musicale al femminile. Detto questo, le somiglianze iniziano e terminano con i primi cinque minuti di The Sapphires.
Australia, 1968: Gail (Deborah Mailman), Julie (Jessica Mauboy), and Cynthia (Miranda Tapsell), tre sorelle aborigene nella terra australiana arretrata e razzista, sono sconfitte a una gara locale di canto. Propongono un genere, la motown music, che mal si adatta alle tradizioni del posto e che viene guardato con un misto di noia e sospetto dall’intera comunità. La stessa presenza degli aborigeni è appena sopportata, in una fase storica molto ben descritta dal film, che sottolinea anche il drammatico destino dei “bambini rubati”, piccoli aborigeni che - dai primi del Novecento fino al 1969 - venivano sottratti alla propria famiglia e alle proprie radici per essere cresciuti dai bianchi.
La gara di canto è un evento insignificante ma in qualche modo fondamentale, perché permette alle ragazze di incontrare Dave Lovelace (Chris O’Dowd), un talent scout irlandese tanto capace di fiutare talenti come di autodistruggersi con l’alcool. Anche lui ha bisogno di una sfida, dopotutto. Ed ecco l’idea: partire per un tour per le truppe di stanza in Vietnam. Il coinvolgimento di Kay (Shari Sebbens), una cugina cresciuta come una “bambina rubata”, porta scompiglio ma anche la perfetta armonia tra le voci: le Sapphires possono partire.
In questa straordinaria avventura umana, che metterà l’intero gruppo di fronte a importanti scelte di vita, la coinvolgente musica soul fa da sfondo e cornice a una toccante storia di amore, sorellanza, razzismo e integrazione, in cui ciascuno lotta contro i propri demoni – della debolezza o della tentazione – per mantenere il rispetto di sé ed emanciparsi, affermare il diritto di esistere.
Il viaggio delle Sapphires alla ricerca di una identità di gruppo si fonde con il desiderio individuale di felicità e con un contesto storico e culturale di estrema complessità, che lega paesi e popoli veramente divisi solo nella cartina geografica: si combatte per il riconoscimento e la dignità delle proprie origini, ci si affranca dagli stereotipi e dai pregiudizi di etnia e di genere, si ostenta una tenace speranza di fronte alle insensate conseguenze di una guerra senza nemici visibili. Il canto – non importa se l’americanissimo soul di James Brown o quello aborigeno tradizionale – è la musica universale che interrompe gli orrori dei conflitti, concilia con le note delle emozioni, avvicina a un grande messaggio di vita e di pace.
Perfetta la scelta degli attori, volti popolari nella televisione e nel cinema australiano, con una menzione speciale per Deborah Mailman (già performer del testo in teatro, nel 2004), e Chris O’Dowd, che qualcuno ricorderà come il poliziotto imbranato de Le amiche della sposa, qui impegnato in un ruolo che valorizza il suo talento brillante e le potenzialità drammatiche. 
Il regista Wayne Blair segna gli spazi liberi degli interpreti e a loro si dedica. Non compie lo sforzo di rendere realistico il Vietnam, e non si addentra certo nella storia contemporanea americana: la sua descrizione d’ambiente rimane statica – benché funzionale – ed esclusivamente legata al ciclo di vita, per così dire, delle Sapphires in terra straniera: tutto è filtrato dai loro occhi e dalle loro voci. Il film è interamente costruito sulla dinamica delle relazioni, quindi gli accadimenti, i bombardamenti, la polemica politica, compaiono solo in quanto si riflettono nei comportamenti, nelle parole delle protagoniste; la natura teatrale del testo, in questo caso, conferma che un film possa e debba essere trattato in modo diverso da un’opera da palcoscenico. Lacunoso in alcuni snodi narrativi, in cui accarezza i temi dove sarebbe stato preferibile graffiare, il film non ha altra ambizione che quella di rendere pubblico questo piccolo spaccato di vita realmente accaduto.
Dietro la storia delle Sapphires, infatti, c’è il racconto biografico della madre e della zia di Tony Briggs (autore della pièce e sceneggiatore del film insieme a Keith Thompson), che quell’esperienza di cantanti itineranti per le truppe in Vietnam la fecero davvero. Il film diventa quindi non solo un momento di intrattenimento e recupero della storia, ma anche un prezioso documento per fissare nell’immortalità della pellicola il ricordo, la memoria. Le atmosfere, le scelte fotografiche e scenografiche sono chiuse in una dimensione quasi irreale e nostalgica, sino al finale, con le immagini dei volti veri che hanno ispirato The Sapphires. Fuori dalla ridotta prospettiva della macchina da presa, e dopo l’happy ending, si compie la realtà.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: The Sapphires
Regia: Wayne Blair 
Sceneggiatura: Tony Briggs, Keith Thompson
Attori: Deborah Mailman, Chris O’Dowd, Jessica Mauboy, Miranda Tapsell, Shari Sebbens.
Anno: 2012
Durata: 103'
Fotografia: Warwick Thornton
Musica: Cezary Skubiszewski
Uscita in Italia: inedito

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