ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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HOTEL BY THE RIVER – Respiro contro respiro

6/6/2020

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​Un anziano poeta alloggia gratis in una stanza d’hotel, messa a sua disposizione dal padrone dell’albergo. Sente di essere arrivato al termine della vita, percepisce la morte imminente pur senza soffrire di alcuna malattia. Di conseguenza chiama i due figli, che non vede da tempo, e li invita a raggiungerlo, per un ultimo incontro davanti a un caffè. Nel frattempo, nello stesso hotel, una ragazza, abbandonata dal fidanzato, riceve la visita di una cara amica, pronta a confortarla per il dolore derivato dalla conclusione della relazione.

Sta tutta qui la trama di Hotel by the River, ennesimo capitolo dell’affascinante viaggio che da anni il maestro coreano Hong Sang-soo dedica all’esplorazione dei sentimenti umani. Con parsimonia e rispetto, sempre, senza rinnegare i propri schemi ma cercando al contempo di allargarne le prospettive. 
In un inverno ammantato di soffice neve, tra le pareti di un albergo situato lungo il fiume e i luoghi che lo circondano, si consuma una semplice storia, o meglio due, trame parallele che si incrociano con lievità pur toccando temi nient’affatto frivoli. La consapevolezza di un’esistenza che ormai ha esaurito la sua strada (Young-Hwan, il vecchio poeta), contrapposta a una fine che può diventare anche un nuovo inizio (la ragazza, interpretata da Kim Min-hee, musa e compagna del regista), in un gioco a incastro dolce e composto come il suono di passi sul manto nevoso, alla ricerca di una pace interiore forse in realtà già conquistata o tutta da scalare.
​
Hotel by the River, per il quale l’attore Ki Joo-bong ha vinto nel 2018 il premio come miglior attore a Locarno, è un film misurato, nei toni e nelle azioni, nella scansione temporale (la vicenda si sviluppa e conclude in poche ore) e nelle espressioni, salvo qualche scatto d’ira repressa peraltro non sufficiente a scalfire la padronanza degli affetti che ancora restano saldi nell’anima. Un’opera soave, fotografata in uno splendente bianco e nero e accompagnata da gesti di corroborante gentilezza: il momento in cui l’amica della ragazza la invita a stendersi sul letto per riposarsi un po’ e le toglie le calze; i pupazzetti che il poeta regala ai figli; la timidezza con la quale la receptionist dell’hotel chiede un autografo prima a lui e poi a uno dei figli (autore cinematografico); lo sguardo amoroso ma privo di qualsiasi intento volgare con cui il poeta loda la bellezza delle due amiche.
I toni sono candidi, ma non c’è traccia di zuccheroso autocompiacimento; non mancano anzi le stilettate, come quando il protagonista viene definito “un mostro privo di qualsiasi buona qualità” per aver abbandonato la famiglia. Eppure, anche negli attimi di durezza, Hong Sang-soo mantiene saldo l’afflato estatico e spirituale, altruista e improntato alla reciproca comprensione. Un concetto, quest’ultimo, ben esemplificato dalle reiterate e magnifiche inquadrature delle due amiche rannicchiate sul letto, dormienti o semi-dormienti a pochi centimetri tra loro, respiro contro respiro. Idillio silente, acqua limpida che fa bene al cuore, a maggior ragione in un periodo orrendo come questo, dove gli abbracci sono vietati e il termine “distanza sociale” domina la scena.
​
Hong legge con la sua stessa voce i titoli di testa e poi porta avanti il suo piano di analisi senza premura, prendendosi il tempo che desidera. Imposta simmetrie e paesaggi quasi onirici, inquadra il fiume come simbolo di transito tra la vita e la morte, si sofferma sul passaggio di un gatto e sul nido di una gazza, sottolinea riflessioni probabilmente autobiografiche relative al cinema (definendo “ambivalente” il lavoro del personaggio-regista) e constatazioni sulla difficoltà dei rapporti tra donne e uomini, poiché questi ultimi sono spesso soggetti immaturi, incapaci di capire appieno il cuore femminile. 
Infine, torna come da abitudine a dedicarsi a una convivialità fatta di cibo e (tanto) alcool, situazione già ampiamente mostrata nell'ottimo Right Now Wrong Then (Pardo d’Oro a Locarno 2015) e in On the Beach at Night Alone (2017): un’ubriacatura collettiva che peraltro non dimentica il lirismo di cui è intrisa l’intera pellicola, purtroppo inedita in Italia.
​
Ogni artificio è lasciato da parte, ogni orpello stilistico è per fortuna ignorato. Zoom frequenti, ripetute panoramiche a schiaffo, campi visivi aggiustati con movimenti lievi o del tutto immobili: non serve nient’altro. L’essenza è dentro, nei sorrisi e nei piccoli inchini, nelle premure e nei versi di un poemetto d’addio. L’umanità colpisce, sbaglia, piange, si pente, si acceca, ma poi sa ritrovare la luce. Quella stessa luce fulgida emanata dal maglione caldo di Kim Min-hee, dai suoi piedi nudi sul letto, dalla sua nostalgia per un amore perduto che comunque amore resta.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo

Scheda tecnica

Titolo originale: Gangbyun Hotel
Anno: 2018
Regia: Hong Sang-soo
Sceneggiatura: Hong Sang-soo
Fotografia: Kim Hyung-ku
Montaggio: Son Yeon-ji
Attori: Ki Joo-bong, Kim Min-hee, Kwon Hae-hyo, Song Seon-mi, Yoo Joon-sang

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THE DEAD END - La dualità della natura umana

8/5/2016

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​Sette anni dopo The Equation of Love and Death, Cao Baoping torna con un thriller nerissimo che racconta una storia di espiazione e redenzione, senza dimenticare che il confine tra il bene e il male non è mai ben definito e che in ogni essere umano bontà e malvagità convivono. Tratto dal romanzo di Xu Yigua Sunspots e presentato al Far East Festival, The Dead End narra la vita di tre amici, Yang Zidao (Guo Tao), Xin Xiaofeng (Deng Chao) e Chen Bijue (Gao Hu), che in passato sono stati coinvolti in un terribile crimine. Una sequenza, girata in bianco e nero, mostra subito al pubblico l'efferata scena del massacro e la fuga dei tre giovani uomini. Da quel giorno, essi saranno condannati a scappare. Dalla polizia ma, soprattutto, dal proprio destino.

Sono trascorsi sette anni. Zidao, Xiaofeng e Bijue sono diventati adulti. Il primo è un tassista dai modi bruschi; Bijue, menomato a causa di un incidente accaduto durante la fuga, vive in un isolotto con dei pescatori; Xiaofeng si è arruolato in polizia. Il peso della colpa li ha uniti in un legame indissolubile e il bisogno di redenzione li ha spinti all'adozione di una bambina gravemente malata. 
Un giorno arriva alla stazione di polizia un nuovo dirigente, Yi Guchun (Duan Yihong), detective dotato di ottimo intuito, astuzia e perseveranza. È deciso a risolvere il suo primo caso, l'omicidio di cinque persone e uno stupro avvenuti nei dintorni sette anni prima. Yi capisce che Xiaofeng nasconde qualcosa e inizia a tenerlo d'occhio. La situazione si complica ancor di più quando la sorella di Yi conosce per caso Zidao e finisce per innamorarsene (ricambiata) e la ragazzina adottata viene ricoverata in ospedale per un intervento chirurgico urgente. Il castello di carte messo in piedi dai tre amici si sfracella miseramente ai loro piedi. Coinvolti e travolti dai sentimenti, stanchi di continuare a mentire, Xiaofeng e Zidao si tradiscono, forse volutamente. Ma non rinunciano alla loro ultima occasione di riscatto con il tentativo disperato di offrire alla loro “figlia” adottiva un futuro sicuro e spensierato. 

Nonostante qualche buco nella sceneggiatura, con The Dead End Cao Baoping dipinge un intelligente spaccato della Cina contemporanea, affrontando il tabù dell'omosessualità, che di rado viene mostrato con modalità tanto esplicite dai registi suoi connazionali, e la questione della pena di morte (agghiacciante in proposito la sequenza dell'esecuzione di una pena capitale). Ciò che va oltre i confini cinesi è però la tragedia della condizione umana, per la quale ogni individuo è costretto a ospitare dentro di sé una natura malvagia, diabolica, che egli non sempre riesce, o desidera, tenere sotto controllo. 
L'autore non formula giudizi, non assolve né condanna. “L'essere umano non è né buono né cattivo”, dice Xiaofeng a Yi. Ed è per questo che in The Dead End non ci sono in ultima istanza né vincitori né vinti: le certezze in conclusione non sembrano più tali, e la giusta punizione pare un po' meno giusta. 

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Lièrì zhuó xīn
Anno: 2015
Regia: Cao Baoping
Sceneggiatura: Cao Baoping, Mia Jiao.
Fotografia: Luo Pan
Montaggio: Cao Baoping, Li Yongyi.
Musica: Bai Shui
Durata: 139'
Interpreti principali: Deng Chao, Guo Tao, Wang Luodan, Duan Yihong, Gao Hu.

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LOVE BATTLEFIELD - Fino all'ultimo respiro

13/11/2015

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Yui (Eason Chan) sta per partire con la sua compagna Ching (Niki Chow) per un viaggio in Europa. Quando però i due giovani si recano nel parcheggio dove hanno lasciato la loro auto con i bagagli a bordo, scoprono che questa è stata rubata. Yui vuole denunciare il furto e annullare il viaggio, mentre Ching insiste nel continuare comunque la vacanza.
​Dopo una lite furiosa, la coppia si lascia e Ching decide di andarsene di casa. Yui invece chiama un taxi per dirigersi alla stazione di polizia; tuttavia, una volta sbollita la rabbia, ci ripensa e chiede al tassista di tornare indietro. Lungo il tragitto nota la sua auto. Non appena apre il bagagliaio, al posto delle valigie trova un uomo sanguinante che gli punta contro un'arma. Il ladro fa parte di una banda di spietati criminali cinesi, corrieri della droga giunti ad Hong Kong per un affare.
​Dato che Yui è un infermiere, i malviventi, capeggiati dal feroce Wah (Zhiwen Wang), lo rapiscono per curare il loro compagno ferito. Nel frattempo Ching capisce che al suo ragazzo è accaduto qualcosa di grave. Dapprima si rivolgerà alle forze dell'ordine, che però non la degneranno della minima attenzione, poi andrà alla ricerca del partner per proprio conto. Una scelta che finirà per invischiarla in una storia maledetta, intrisa di malvagità e di violenza allo stato puro.

Il regista hongkonghese Pou-Soi Cheang, poco conosciuto in Italia, ha diretto film che spaziano dall'horror al thriller, dall'action movie al fantasy, dalla commedia al dramma. Love Battlefield (2004) non figura tra i suoi titoli più noti (come Dog Bite Dog, Motorway, Accident e il fantasy 3D The Monkey King), ma ha il merito di fondere due generi, il sentimentale nella primissima parte del racconto e il tipico action movie made in Hong Kong in seguito, creando un'ottima combinazione. Se, infatti, fino all'episodio del furto dell'auto siamo in presenza di un mélo che analizza le problematiche di coppia di Yui e Ching, in un secondo tempo la narrazione esegue una brusca sterzata lasciando spazio a immagini sanguinolente e scene di violenza gratuita.
Una Hong Kong dai toni blu osserva impassibile la vicenda, mentre la polizia brancola nel buio (e l'autore non si lascia di certo sfuggire l'occasione per sottolineare l'inettitudine e l'incapacità delle forze dell'ordine del suo Paese). La storia, che si svolge nell'arco di un solo giorno, prosegue attraverso colpi di scena e casualità, senza una trama ben delineata. L'uso continuo di flashback e la pregevole tecnica registica consentono di mantenere un ritmo vorticoso e incalzante per tutta la durata del film. Toccante e devastante il finale, con le parole di Yui e Ching in sottofondo: “Se vogliamo che il nostro amore possa durare, dovremo lottare fino all'ultimo respiro”.
Pou-Soi Cheang ci regala dunque un'opera nella quale la violenza, che esplode all'improvviso e distrugge la routine giornaliera, fa riavvicinare un coppia fragile, soffocata proprio dalla quotidianità. Il rapporto tra Yui e Ching si è inaridito senza che i due abbiano avuto modo di accorgersene; al contrario invece la relazione tra il bandito Wah e la moglie incinta (Hailu Qin) appare solida. E quando Yui realizza di aver sempre dato per scontata la presenza di Ching, urla a Wah: “È colpa della mia cattiva sorte se ti ho incontrato, ma lei non lo meritava. Non dovevi coinvolgerla. Ho fatto tutto quello che potevo, ho cercato di salvarvi. Ho obbedito alle vostre richieste, ma per lei non ho fatto abbastanza. Ho fatto più per voi che per lei”.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Ai zuozhan
Anno: 2004
Regia: Pou-Soi Cheang
Sceneggiatura: Kam-Yuen Szeto, Jack Ng.
Montaggio: Angie Lam
Durata: 96'
Interpreti principali: Eason Chan, Niki Chow, Zhiwen Wang, Hailu Qin, Raymond Wong, Kenny Kwan, Carl Ng.

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THE WHISPERING STAR - Liturgia post-atomica

28/10/2015

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Sion Sono abbandona i ritmi schizofrenici, i montaggi bulimici ed esasperati di Why don’t you play in hell? e Tokyo Tribe, i melodrammi adolescenziali e disfunzionali di Love Exposure, il fiume catartico di Himizu, e forse ancor più profonda si avverte la distanza dai più classicamente Sono (per quanto faccia rabbrividire l’aggettivo) di Noriko’s Dinner Table e Suicide Club. La sua è una apparente separazione da verbosità e sovrastruttura, per spogliarsi delle maschere visive in un’opera che appare, ora, viva di plurime visioni, la più (meno?) esemplare del suo vocabolario d’autore, la più esegetica, paradossalmente immediata, chiusa, universale.
​
Sono ambienta la sua muta e fragile riflessione in un futuro post-Fukushima (a onor di cronaca, disastro nucleare datato 2011), riducendo al massimo le coordinate geografiche di uno sci-fi umanissimo e rispecchiandosi nello sguardo perso e scuro di Yoko, robot dalle sembianze antropiche che smarrisce le proprie giornate – scandite in una calma arbitrarietà – azionando e calibrando una navicella che di futuristico ha poco, semi-giocattolo di una meccanicità che (non) ha imparato a dis-emozionarsi. Yoko si aggira placida come cadenzata dalle lente gocce di un rubinetto svogliato, dai pacchetti di sigarette acquistati su una terra fantasmatica e rigida di indigenza, dalle scatole bianche che consegna agli umani (una postina anacronistica in una post-post modernità) in procinto di estinguersi sul pianeta, distillato in cartoline sovraesposte e in schiumosi, ariosi quadri che simpatizzano per il geometrico. È un silenzio selvaggio, quello di Yoko, quello della morente collettività, inzuppato in proiezioni di oggetti che appaiono contenere, sopra tutti, gli avanzi, le rimanenze di affezioni che androidi e forse umani hanno perduto – gli uni per un rinsecchirsi robotico, gli altri per un sonno fisico che minaccia di dissestare gli ultimi spiri insurrezionali del sentimento.
Vige l’assorbimento in un sudario capovolto, in controluce, a dominanza di forte contrasto tra i candori abbacinanti di una fotografia qui come mai prima estetizzante e millimetrica, ricoperta di latteo e gravata da pochissimi, liberi chiaroscuri; compiuta, in esordio, da un’unica, simbolica virata al colore (del verde, del cielo, di tutto) che dischiude un incipit di tentato percorso di riappropriazione e auto-identificazione di Yoko – che presto strapperà fili e spine della sua tersa prigione – evaporando presto, ma sufficientemente da colpire, come un riflettore convulsamente acceso sulla verità e sulla possibilità di quant’era e più sarà.
​
Stracciate ad ampie mani le corse d’urgenza sanguinea e le fucilate roboanti di colore impresso, Sono ricompone, scardinando, una sorta di eziologia dell’esistenza post-atomica, ove, quasi necessariamente e quasi per caso, è necessario tornare a sentire, a credere; l’urgenza di ritrovare la convinzione di una sensazione primordiale esistita ma autonomamente cancellatasi sotto i nucleari dissesti, che scotta e ribolle ancora, ove la repressione e l’imprigionamento ora falliscono. Sono li riassorbe in modalità immaginifica nella poesia degli sguardi metaforici di un cinema che fa dell’indicatività dell’immagine il suo cardine: un mucchio di falene rinchiuse in una lampada a sospensione, a divincolarsi impazzite, e destinate anch’esse a essere liberate e a decedere per naturale carbonizzazione. 
Eppure sono lì, come un reminder, come tutti gli oggetti di cui l’opera è costellata, certamente di proustiana affinità, e sui quali si va ad operare il transfert di una potenziale emozione, quella da ricordare, rivivere, e quella nuova, da provare appena. Esattamente da qui muovono i primi fiotti al cervello, in una ri-educazione prossima alla naïveté, ove Yoko si appropria, come una sorta di romanticissima osmosi, dei medesimi oggetti di un umano che, emblematicamente, risolleva in lei sopiti interrogativi e memorie di una società sbiadita. Ed è lì, nel reiterare di una lattina calpestata, impiastricciata sulla suola di una scarpa, che si riavvolge il senso, che si avverte lo scricchiolare di un’innocenza smarrita, prima della civiltà, o soltanto dopo la civiltà: nella placidità di una distruzione. Il sentimento riaffiora nello spasmo di un raffreddore, nella sintomatologia di uno starnuto. 
​
Sono lavora su piani differenti, ma tutti ugualmente sordi, incastellati e lampanti al contempo, in un’opera elegantemente sinuosa, dalla semplicità forse essenzialmente incappiabile. L’assunto è, in fondo, per nulla originale (quello di una ritrovata fidelizzazione nei confronti del corpus emozionale tramite la visione, la manipolazione, il tramite della fisicità oggettuale), ma Sono ne fa un canto in sospensione, un sussurro, una partitura esangue, quasi per nulla interstellare, la liturgia finale di un’umanità istaminica. Al di là dei citazionismi a cui si è soliti pensare in campo fantascientifico (da Tarkovskij che viene riesumato dalla mente, francamente a inutile scopo), quella di Sono è una struttura aperta che vuole discostarsi da un catalogare di genere, avulsa essenzialmente da ammiccanti richiami extra-testuali. 
È qualcosa di una struggente bellezza, fino in fondo sfuggevole e nebulosa, la cui sonda si introietta in quella finale deambulazione osservativa che Yoko compie verso di noi e lungo l’infinito corridoio, costellato di ombre umane, ancora  essenti, sebbene riflesse. Yoko, attonita e inebriata, fissa nel suo sguardo le attività ludiche (e non) di esseri essenzialmente a lei così simili, rifiutando, come l’oggetto stesso, di trovare le parole. Come una presa di coscienza dell’attualità immanente delle cose. Qualcosa non si è perduto.
Gli eroi e le eroine di Sono non corrono più, camminano.  Pur avendo perso l’impellenza, la velocità, i colpi di testa, ripiegano in un mutismo, forse, davvero egualmente selvaggio.

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Hiso hiso boshi
Anno: 2015
Regia: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono
Fotografia: Hideo Yamamoto
Montaggio: Jun'ichi Itō
Interpreti: Kenji Endo, Megumi Kagurazaka, Mori Kouko, Yuto Ikeda
Durata: 100'

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THE PRESIDENT - Fuochi di rivolta

19/10/2015

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Mohsen Makhmalbaf, nato a Teheran ma ormai lontano dalla sua nazione da circa dieci anni a causa del suo lavoro, realizza con The President un film che racconta la caduta di un regime dittatoriale in in una nazione non precisata, di finzione. La trama, semplice e chiarissima, muove i passi dalla sfarzosa roccaforte di Misha Gomiashvili, il Presidente che impunemente opprime la popolazione della sua terra. Giocando con il nipote di cinque anni, Dachi, si diletta ad accendere e spegnere le luci della capitale. Un passatempo che, come spiega al piccolo, è diretta conseguenza del potere sterminato che è ormai nelle sue mani da moltissimi anni. A un tratto, però, le luci della città non si riaccendono: l’oppressione a cui i cittadini sono stati costretti per lungo tempo ha generato dei moti rivoluzionari che getteranno dittatura e paese nel caos.
Il regista iraniano dirige il suo film negli spazi fisici e reali della Georgia, che da ex paese appartenente a un sistema totalitario appare una terra ideale per rappresentare la vicenda di The President. I suoi spazi, la piattezza delle campagne e i volti duri e segnati degli attori sono perfetti per veicolare il messaggio che Makhmalbaf vuole recapitare allo spettatore. Questo suo lavoro, infatti, inscena eventi che hanno avuto luogo in molte nazioni in passato e che sfortunatamente continueranno ad accadere in futuro. Ci sono dei momenti particolari e precisi che sono comuni a queste rivolte e che raramente sono conchiuse all’interno di una sola realtà. Dittatura, oppressione e povertà conducono a una rottura che genera, a sua volta, ulteriore violenze all’interno delle varie correnti e idee che l’hanno generata.
Makhmalbaf decide di focalizzarsi sulla tragedia vissuta da quella fetta di popolazione che (soprav)vive, o che cerca di farlo, in mezzo alle violenze perpetrate dal tiranno e dai rivoluzionari: «dopo aver vissuto un decennio in nazioni differenti, il mio cuore non batte esclusivamente per una sola. Essere a conoscenza di ciò che accade in Siria mi colpisce esattamente come ciò che succede in Libia, Egitto, Iran, Iraq o Afghanistan, o qualsiasi luogo nel mondo».
Misha, il Presidente in fuga, non è solo nel suo tentativo di raggiungere la salvezza; è accompagnato dal nipotino Dachi, rimastogli accanto dopo che il resto della famiglia è riuscito a fuggire. Insieme vagano per i paesaggi che prima gli appartenevano, e hanno modo di incontrare la popolazione sottomessa e costretta alla povertà. Misha è costretto a nascondere la propria identità fingendosi un musicista di strada; ciò gli consente di sopravvivere e di comprendere direttamente le condizioni in cui versavano i suoi sudditi. The President è infatti un film in cui i luoghi hanno un valore particolare; essi sono spazi su cui per anni si è riflesso il potere in tutta la sua forza, impoverendo e segnando popolo e territorio. Il vagare di Misha è veicolo di conoscenza per lui – figura che a tratti fa trasparire un certo rimorso – e per lo spettatore, che ha modo di visitare con gli occhi il sudore, le rughe e le lacrime degli oppressi, ognuno dei quali non si esime certo dall’esternare i propri sogni di vendetta nei confronti dell’ex dittatore.
Misha e Dachi, insieme, rappresentano anche passato e futuro di una nazione, il vecchio che è senza troppi chiaroscuri il male e il nuovo, il bambino, che rappresenta l’innocenza cresciuta all’interno di un ambiente tirannico, ma che può ancora esimersi per un futuro migliore.
The President, presentato all’edizione 2014 del Festival di Venezia, è un’opera filmica che non si esime dal mostrare le violenze perpetrate da un despota e quelle infuocate delle rivoluzioni che cercano di rovesciare una dittatura. Nel mezzo, disperata e vittima, sta una parte di popolazione che come nella Siria odierna, o nei paesi delle varie Primavere Arabe, è destinata a soffrire senza possibilità di scelta.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: The President
Anno: 2014
Regia: Mohsen Makhmalbaf
Sceneggiatura: Mohsen Makhmalbaf, Marziyeh Meshkiny
Musica: Christian Siddell
Fotografia: Konstantine-Mindia Esadze
Durata: 119’
Uscita italiana: 30 agosto 2014
Attori principali: Mikheil Gomiashvili, Dachi Orvelashvili

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I GATTI PERSIANI - Indie Teheran

5/10/2015

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Negar (Negar Shaghaghi) e Ashkan (Ashkan Koushanejad) sono un ragazzo e una ragazza iraniani che coltivano il desiderio di formare una rock band per esibirsi al di fuori del loro Paese. Sono appena usciti di prigione e vogliono lasciare Teheran per vivere un'esistenza normale, come quella di milioni di coetanei.
​Purtroppo il regime tollera soltanto la musica della tradizione e non è affatto semplice dar vita a un gruppo rock. Anzi, è proibito. Per Negar e Ashkan diventa dunque un'impresa soltanto contattare i musicisti. Si offre di aiutarli Nader (Hamed Behdad), un “produttore” che si innamora del talento dei due giovani. Entusiasta, positivo, ironico, li farà incontrare con altri ragazzi che suonano, e sognano, di nascosto. Li condurrà nei posti più impensati (in questo caso il termine underground va inteso in senso letterale), dagli scantinati della capitale fino a una stalla sperduta nella campagna circostante. E sempre Nader, grazie alle sue conoscenze poco raccomandabili, darà loro una mano a ottenere un visto e un passaporto (illegali) per uscire legalmente dal Paese.  

​Con I gatti persiani, il regista iraniano di etnia curda Bahman Ghobadi, già assistente alla regia di Abbas Kiarostami ne Il vento ci porterà via, realizza un film lontano sia dallo stile della scuola iraniana di cinema che dalla sua produzione precedente. Quest'opera assomiglia più a un documentario sulla scena underground di Teheran, mentre le esibizioni live delle band, veri e propri video musicali, sono accompagnate da collage di immagini frenetiche che raccontano le contraddizioni dell'Iran contemporaneo. Inoltre, il film è interamente parlato in lingua parsi anziché in curdo, come avveniva nei lavori antecedenti di Ghobadi. 
In ogni caso il valore dell'opera, ispirata a fatti realmente accaduti, sta nella denuncia nei confronti di un regime bieco e folle, che vieta l'alcol, nonché il cinema e la musica non tradizionali, ma che in realtà è corrotto fino al midollo. Ghobadi sceglie un taglio ironico per mettere a nudo la rigidità e l'ottusità delle leggi in vigore: l'interrogatorio di Nader, trovato in possesso di pellicole bandite, si tramuta in farsa quando questi regala la sua collezione al funzionario, raccomandandogli di avvicinarsi al cinema occidentale con un'ottica spirituale. E anche nei momenti in cui non è coinvolto il funambolico Nader, come nell'episodio in cui un ligio poliziotto ferma Negar e Ashkan perché non è consentito loro di guidare con un cane a bordo, il risultato non può che essere grottesco: l'eccessivo rigore finisce per sortire l'effetto contrario, innescando situazioni ridicole e surreali. 
I gatti persiani offre pure al pubblico l'occasione di conoscere la ricca scena musicale indipendente di un Iran che, nonostante tutto, è popolato da giovani che nutrono ancora speranze e che hanno un'enorme voglia di vivere. Giovani che però non rinnegano il loro Paese, che invece amano profondamente. Certo, esiste il mito dell'Occidente (gli uccelli domestici di Nader si chiamano Monica Bellucci, Scarlett e Rhett), ma tale ammirazione non può comunque scalfire l'amore per la propria terra. 
Vincitore del premio speciale della Giuria nella sezione Un Certain Regard, ex aequo con Il padre dei miei figli di Mia Hansen-Løve, al 62° Festival di Cannes, il film non è affatto piaciuto al regime di Teheran, che non l'aveva autorizzato: Ghobadi ha pagato con l'esilio il suo coraggio. La stessa compagna del regista, la giornalista Roxana Saberi, che ha collaborato alla sceneggiatura, in carcere dal gennaio 2009 con l'accusa di spionaggio, è stata liberata pochi giorni prima del festival. Non miglior sorte è toccata ai due attori protagonisti, che sono davvero dei musicisti e hanno fondato la band Take It Easy Hospital. Costretti a chiedere asilo politico in Inghilterra, hanno però realizzato il sogno di Negar e Ashkan: vivere e suonare a Londra. 

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo

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Scheda tecnica

Titolo originale: Kasi az Gorbehaye Irani Khabar Nadareh
Anno: 2009
Regia: Bahman Ghobadi
Sceneggiatura: Bahman Ghobadi, Hossein M. Abkenar, Roxana Saberi
Fotografia: Touraj Aslani
Durata: 106'
Interpreti principali: Negar Shaghaghi, Ashkan Koushanejad, Hamed Behdad
Musica: Ashkan Koushanejad, Mahdyar Aghajani

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THE CHASER - Corsa contro il tempo

29/4/2015

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A Seoul, Jung-ho (Kim Yun-seok), un ex poliziotto corrotto, gestisce un giro di giovani prostitute. Quando alcune ragazze spariscono senza motivo, si insospettisce e inizia a indagare. Teme che le sue squillo si siano date alla fuga o che un concorrente sleale le abbia convinte a cambiare protettore. Una sera ordina alla bellissima Mi-jin (Seo Yeong-hie) di presentarsi a un appuntamento con un cliente. Jung-ho nota però che il numero di cellulare dell’uomo è lo stesso usato per contattare le prostitute scomparse nel nulla e chiede dunque alla ragazza di comunicargli il luogo dell’incontro. 
Mi-jin intuisce da subito di avere a che fare con uno squilibrato, ma non riesce ad avvertite il suo capo, che nel frattempo scova comunque il quartiere in cui vive l’assassino. Un destino grottesco vuole addirittura che Jung-ho coinvolga il killer in un incidente. La notte si conclude in una stazione di polizia, dove il giovane Young-min (Ha Jung-woo) confessa di avere ucciso molte altre donne, ma non fornisce ulteriori informazioni. Le forze dell’ordine hanno le mani legate e, in assenza di prove concrete, possono trattenere il sospetto soltanto per poche ore. Agenti e Jung-ho ingaggiano quindi una lotta contro il tempo per evitare il rilascio di Young-min e la morte certa di Mi-jin. 
Il promettente esordio cinematografico del sudcoreano Na Hong-jin si ispira a un fatto di cronaca accaduto a Seoul tra il 2003 e il 2004, quando il serial killer Yoo Young-chul massacrò venti persone (in alcuni casi mangiandone il fegato). The Chaser è un thriller travolgente, duro e brutale, che non si risparmia nel mostrare, senza però mai esibire, l'efferata violenza dello psicopatico Young-min. Inoltre, pur non essendo un film di denuncia in senso stretto, dipinge un ritratto impietoso del suo Paese, succube di una dilagante corruzione che non chiama in causa solo incapaci politici ed esponenti delle forze dell'ordine, ma l'intera società contemporanea sudcoreana. Lo stesso Jung-ho sguazza nel fango di un sistema marcio fino al midollo, ma forse per l’ex poliziotto e protettore, provato nel profondo dall’incontro con il folle Young-min, esiste ancora una possibilità di riscatto. 
Forse non siamo ai livelli di Memories of murder, capolavoro di Bong Joon-ho, tuttavia The Chaser si fa apprezzare per le capacità tecniche dell'esordiente Na Hong-jin e per la sua abilità nel preservare un palpabile clima di tensione che accompagna il pubblico fino all’ultima inquadratura. Non mancano il gusto per il grottesco e un tocco di ironia (esilarante l’episodio in cui il sindaco di Seoul viene colpito in piena faccia dal lancio di sterco da parte di un dimostrante). Unica pecca resta la poca attenzione dedicata all’analisi del profilo psicologico dei protagonisti, ad eccezione di Jung-ho (scarseggiano soprattutto le motivazioni che hanno scatenato la furia omicida di Young-min).
Nonostante qualche difetto, The Chaser rappresenta senza dubbio un debutto  sorprendente. Dispiace dunque che la nostra distribuzione abbia atteso ben sei anni prima di pubblicare, nel 2014, l’edizione italiana del Dvd. Con un doppiaggio, come spesso accade, non all’altezza della situazione.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Chugyeogja
Anno: 2008
Regia: Na Hong-jin
Sceneggiatura: Hong Won-chan, Lee Shinho, Na Hong-jin.
Fotografia: Lee Seong-je
Durata: 125’
Interpreti principali: Kim Yun-seok, Ha Jung-woo, Seo Yeong-hie, Kim Yoo-jeong, Jeong Ing-gi, Park Hyo-ju.

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ANIMAL KINGDOM - Crimini di famiglia

3/3/2015

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Quando la madre dell'adolescente Joshua “J” (James Frecheville) muore in seguito a un'overdose, al ragazzo non resta che contattare la nonna, Janine “Smurf” Cody (Jacki Weaver). La donna lo accoglie in casa, dove vive con i figli, Pope, Craig e Darren (Ben Mendelsohn, Luke Ford, Sullivan Stapleton). Braccati dalla polizia, i Cody sono dei criminali spietati e paranoici che vivono di rapine e traffico di droga. 
Un giorno Pope dà appuntamento all'amico Barry “Baz” Brown (Joel Edgerton) in un supermercato. Terminato l'incontro, Baz esce e si trova faccia a faccia con la squadra di agenti che li pedina senza tregua. Uno di loro gli spara e lo uccide. Pope vuole vendetta e, con la complicità di Craig, organizza un'imboscata. Lascia un'auto sospetta in mezzo a una strada, e non appena due poliziotti si fermano per effettuare un controllo, i fratelli Cody li eliminano a sangue freddo. 
Pope e Craig vengono arrestati e il resto della famiglia convocato in centrale. Il detective Nathan Leckie (Guy Pearce) interroga a lungo J e questo basta perché Pope inizi a dubitare della sua lealtà. Individua nel nipote l'anello debole della catena e teme che possa incastrarli, se torchiato dalle forze dell'ordine. La tensione alimenta la paranoia dei Cody e annienta il loro ultimo barlume di lucidità mentale, provocando un'escalation di eventi violenti e di colpi di scena che non potrà che sfociare in una sconfitta totale, da cui nessuno uscirà vincitore.
Il primo lungometraggio di David Michôd (The Rover), regista e sceneggiatore australiano, si ispira alle reali vicende di una famiglia di criminali di Melbourne. Quando realizza Animal Kingdom (2010), Michôd ha già all'attivo un'apprezzata serie di cortometraggi e documentari. E l'occhio del documentarista è fondamentale per raccontare con freddezza, senza condanne e compiaciuti voyeurismi, un mondo, quello della malavita, che riporta l'essere umano alla sua condizione primordiale. Quella bestiale, appunto. 
Già dal titolo il pubblico intuisce che a fatica argomenti quali pentimento e redenzione troveranno spazio. L'Animal Kingdom, il regno degli animali, non conosce l'etica. Esistono forse gazzelle buone e leoni cattivi? Il leone sbrana la gazzella per sopravvivere, non ha scelta. In natura il più forte distrugge il più debole,  che non può far altro che scappare per salvarsi. Michôd riserva un briciolo di umanità e di senso della giustizia soltanto al detective Leckie, che tenta di allontanare J dalla distruttiva famiglia Cody prima che sia troppo tardi. Ma J ha davvero la possibilità di prendere decisioni? O le sue azioni non sono piuttosto dettate dall'unica regola dell'Animal Kingdom, ovvero uccidere per non essere ucciso?
Il film è stato insignito del Gran premio della giuria come miglior film straniero al Sundance Film Festival nel 2010. Presentato fuori concorso al festival di Roma nello stesso anno, è poi uscito nei cinema italiani all'inizio del 2011. Meritevoli di nota le performance di Jacki Weaver, che indossa i panni della nonna psicopatica, e di Guy Pearce.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Animal Kingdom
Anno: 2010
Regia: David Michôd
Sceneggiatura: David Michôd
Fotografia: Adam Arkapaw
Durata: 112'
Uscita italiana: gennaio 2011
Interpreti principali: James Frecheville, Ben Mendelsohn, Joel Edgerton, Guy Pearce, Luke Ford, Jacki Weaver

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CITTÀ DOLENTE - Epopea della sofferenza

11/12/2014

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Nel 1945, dopo la sconfitta degli invasori Giapponesi, Taiwan torna alla Cina. L’isola diventa il quartier generale del Kuomintang, partito anticomunista con a capo Chang Kai-shek, e in seguito sede del governo nazionalista, in fuga della Cina continentale (la futura  Repubblica Popolare Cinese) oramai in mano al partito di Mao Zedong. 
La condotta degli amministratori locali, corrotti e dispotici, provoca le proteste della popolazione taiwanese, soffocate nel sangue dall’esercito inviato da Chang Kai-shek. Il 28 febbraio 1947, una sommossa repressa con il massacro di migliaia di civili dà inizio al periodo noto come il “Terrore bianco”.
L’analisi storica è una premessa imprescindibile per comprendere l’intensa opera di
Hou Hsiao-hsien, affresco epico imperniato sulle vicende della famiglia Lin, il cui inesorabile destino dipenderà dagli avvenimenti politico-sociali sopravvenuti nell’isola dal 1945 al 1949. Città dolente inizia nel 1945, nell’immediato dopoguerra. Dei quattro fratelli Lin, soltanto tre sono sopravvissuti al conflitto: Wen-heung (Chen Sown-yung), Wen-leung (Jack Kao) e Wen-ching (Tony Leung, attore di Hong Kong magnifico protagonista di In the Mood for Love).
Wen-heung gestisce il ristorante Little Shanghai e si mette in affari con la mafia, che non esiterà ad assassinarlo senza pietà. Wen-leung, traumatizzato dalla guerra, trascorre un periodo di degenza in un ospedale psichiatrico. Una volta guarito verrà arrestato come collaborazionista e torturato. Lo shock subito in prigione gli farà perdere per sempre la ragione. Wen-Ching, il fratello più giovane sordomuto dalla nascita, fa il fotografo. Vicino agli ambienti della resistenza, viene incarcerato con l’amico Hinoe. Appena  rilasciato, Hinoe si rifugia in montagna, dove Wen-ching lo raggiunge per unirsi ai ribelli. Hinoe però non gli permette di rimanere e gli fa promettere di prendersi cura della  sorella Hinomi, che Wen-ching sposerà e dalla quale avrà un figlio. In una delle ultime scene la nipote di Hinomi riceve una lettera dalla zia, la cui voce fuori campo racconta che il marito è stato di nuovo arrestato e che di lui non si sa più nulla. 
Hou Hsiao-hsien ha raccontato con coraggio una delle pagine più tragiche della storia di Taiwan, abbattendo il muro di omertà dietro il quale per lunghi anni si sono nascoste le istituzioni locali, rifiutandosi di ammettere pubblicamente gli omicidi di massa come il massacro del 28 febbraio 1947 (non esistono dati ufficiali, ma pare che siano state trucidate tra le 18.000 e le 28.000 persone). I drammatici eventi che sconvolgono l’isola, appena accennati, restano comunque sempre sullo sfondo e lo spettatore li coglie soltanto tramite la disperata prospettiva della famiglia Lin, che assiste impotente alla propria disfatta. Attraverso una narrazione stratificata che può risultare complessa, il cineasta denuncia le devastanti ripercussioni dei cambiamenti storici sulla popolazione. Nonostante lo stile puro ed essenziale, con macchina fissa e campi lunghi, sembri condurre a una regia fredda e distaccata, in realtà ogni inquadratura svela una profonda umanità. 
Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 1989, Città dolente ha fatto conoscere al grande pubblico europeo il talento di Hou Hsiao-hsien. Primo capitolo della cosiddetta “Trilogia di Taiwan”, che comprende inoltre Il maestro burattinaio (1993) e Good men, Good women (1995), è noto anche con il titolo A City of Sadness.


Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica


Titolo originale: Beiqing chengshi
Anno: Taiwan, 1989
Regia: Hou Hsiao-hsien
Sceneggiatura: Chu T'ien-wen, Wu Nien-jen
Fotografia: Chen Huai-en
Durata: 157'
Interpreti principali: Tony Leung, Hsin Shu-fen, Chen Sown-yung, Jack Kao, Li Tien-lu, Wu Yi-fang. 


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THE RAID 2: BERANDAL - Oltre i limiti

11/7/2014

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Tutto ebbe inizio nel 2009 con Merantau, pellicola d’azione girata dall’allora sconosciuto Gareth Evans, regista gallese trasferitosi in Indonesia e rimasto terribilmente affascinato dal Silat, un’arte marziale originaria del Sud Est Asiatico. Sono passati appena cinque anni ma le cose sono decisamente cambiate per Evans e per Iko Uwais, protagonista di tutti i suoi film nonché campione di Pencak Silat (così chiamato per distinguerlo dal Silat Melayu praticato in Malesia).
Non è certo casuale se continuiamo a porre l’accento su questa incredibile e micidiale arte marziale resa famosa a livello internazionale proprio dai tre film (più un quarto all’orizzonte) girati da Evans, che a sua volta deve a essa la sua notorietà e il fatto di essere ormai divenuto un regista di culto per la stragrande maggioranza degli appassionati del genere.
In questo sequel del fortunato film del 2011 ritroviamo l’agente di polizia Rama che, dopo essere sopravvissuto al sanguinoso blitz nel condominio fortezza, abitato da una temibile banda di spacciatori capeggiata da un signore della droga, viene spedito in prigione sotto copertura dal suo diretto superiore. Il suo obiettivo è quello di “agganciare” Uco, il figlio di un potente boss a capo di un’organizzazione criminale che ha sul libro paga politici senza scrupoli e funzionari di polizia corrotti. Per Rama – che da infiltrato ha cambiato il suo nome in Yuda (esattamente come si chiamava il personaggio interpretato da Iko Uwais in Merantau) - è solo l’inizio di una lunga, complicata e rischiosissima missione dove si troverà solo contro tutti.
Se la trama suona familiare il motivo è presto detto, dal momento che ha forti analogie e assonanze con Infernal Affairs, il cult hongkonghese rifatto pochi anni dopo a Hollywood da Martin Scorsese e omaggiato in parte anche in New World, pellicola sudcoreana diretta nel 2013 da Park Hoon-jung.
Rispetto ai titoli citati il lavoro di scrittura che sta alla base di The Raid 2, oltre a essere derivativo, è senz’altro meno ispirato e compatto. Il primo capitolo - The Raid: Redemption uscito qui da noi direttamente in homevideo - era un action folgorante, secco ed essenziale, che non si poneva certo grandi pretese in merito agli sviluppi narrativi, al contrario di quanto accade in questo sequel, decisamente più ambizioso, a cominciare dalla durata monstre di due ore e mezza che a conti fatti risulta un po’ eccessiva. L’intreccio narrativo a volte sembra un po’ troppo forzato, quasi come se fosse solo un pretesto per inanellare una sequenza di combattimento dopo l’altra.
Chi ha visto Merantau e soprattutto The Raid sa bene di cosa sia capace Gareth Evans, attualmente uno dei migliori registi in circolazione nel riprendere e filmare le scene d’azione. In questo secondo capitolo il gallese è riuscito addirittura a superarsi e alzare ulteriormente l’asticella, con una serie di sequenze pazzesche girate al limite dell’impossibile (vedere per credere il combattimento nell’abitacolo di un’auto lanciata a folle velocità). Le coreografie dei combattimenti, a dir poco perfette, sono orchestrate con incredibile maestria e perizia tecnica, la messa in scena è potente, talvolta straordinaria e ricorda a tratti, specialmente per l’uso del colore e per alcune ambientazioni, quella di Only God Forgives, l’ultimo film di Nicolas Winding Refn.
Insomma, gli amanti del genere arrivano al termine della visione estasiati e appagati, con ancora impresse negli occhi le immagini della feroce lotta nel fango nel cortile del penitenziario, o dei cruenti scontri in metropolitana a suon di martellate oppure del lungo, violentissimo ed epocale scontro finale con Rama/Yuda impegnato nell’affrontare i nemici di turno (via via sempre più forti e temibili per rispettare i “topoi” del genere).
In definitiva, seppur con qualche riserva legata allo script di partenza e alla durata, la non facile missione di Gareth Evans di non sfigurare al cospetto dell’ingombrante capitolo precedente può dirsi pienamente riuscita. Adesso non resta che attendere il terzo tassello della trilogia, per sapere cosa s’inventerà il regista gallese per riuscire a sorprendere nuovamente i suoi seguaci, sempre più numerosi ed esigenti.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: The Raid 2: Berandal
Anno: 2014
Regia: Gareth Evans
Sceneggiatura: Gareth Evans
Fotografia: Dimas Imam Subhono, Matt Flannery
Montaggio: Gareth Evans
Durata: 150’
Interpreti principali: Iko Uwais, Yayan Ruhian, Arifin Putra

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