Questo il tema portante dell’ultimo film da regista di Gilles Lellouche, L’amour ouf, presentato a Cannes nel 2024, uscito nei cinema francesi a ottobre dello stesso anno con grande successo di pubblico e arrivato (con tutta calma) in Italia nell’estate successiva, accompagnato dal titolo L’amore che non muore. In patria è stato uno dei maggiori incassi della stagione; da noi, poco reclamizzato e mal distribuito, lo hanno visto in pochi. Niente di sorprendente. Purtroppo.
Eppure, il ritorno dietro la macchina da presa di Lellouche, dopo il riuscitissimo Le grand bain (2018), è un coacervo di stili che merita ampia attenzione. Un tentativo di uscire dai classici schemi, dalle definizioni di genere, per farsi opera libera, liberissima, a costo di arrotolarsi su se stessa e far storcere il naso a molti. Come infatti è accaduto.
Jackie e Clotaire si conoscono e avvicinano in età adolescenziale. Lui è un bulletto/teppista di quartiere, con famiglia numerosa, povera e futuro perdente già segnato, anche perché la scelta di essere diverso magari ci sarebbe ma nemmeno la prende in considerazione. Lei proviene da un ceto superiore, è in superficie più quadrata e composta, ma dentro cova un animo ribelle. Tra loro ci sono discrepanze in teoria poco conciliabili. Nonostante ciò, come spesso accade, nelle antinomie caratteriali e sociali si apre la strada verso l’unione, l’amalgama, la fusione di corpi e spiriti. A un certo punto l’idillio scende però nelle tenebre dell’incubo: Clotaire si infila in grotte buie troppo pericolose, e finisce per scontare anni di prigione. Jackie cerca di ovviare al dolore (aggiunto alla precedente e improvvisa perdita della madre) cercando altri rapporti, altre vie, altre sicurezze. I giorni passano, le dolci memorie sbiadiscono. Anzi no. Nient’affatto. Restano solo chiuse in un cassetto della mente, aspettando di riemergere, alla stregua del sole dopo un’eclissi.
Ouf è un termine gergale francese che può essere anagrammato in fou, anche come significato. E il film di Lellouche, covato a lungo, tratto da un romanzo di Neville Thompson del quale già da lustri erano stati acquisiti i diritti, fou lo è davvero. Siamo dalle parti del dramma sentimentale, certo, ma al contempo siamo sui sentieri sconnessi e brutali del gangster movie. Ci sono idillio e spensieratezza, così come pestaggi, rapine, persino omicidi. L’autore cerca una fusione complessa tra elementi stilistici dissonanti, e per farlo butta all’aria ogni inibizione.
Cinema libero, si diceva: L’amour ouf è un vortice impazzito che non si ferma davanti a niente; in ogni istante si susseguono cambi di registro, inquadrature ardite, varianti cromatiche; trovano posto accenni da musical e un prologo/epilogo che forse svela sin da subito la conclusione della storia o forse è solamente un inganno allo spettatore. La durata è abbondante, 160 minuti, ma non pesa; la divisione basilare in due tranche (una dedicata alla fase adolescenziale, l’altra al contesto adulto dei protagonisti) fa perdere qualche oncia di smalto ma poi risale.
Tutto il film è un razzo che vola scatenato senza controllo smarrendo le traiettorie lineari. Il lavoro di Gilles Lellouche corre, inciampa, cade, si rialza, cade di nuovo, si rialza ancora e ricomincia a correre, ebbro della voglia di raccontare senza freni. Scivola in idee piuttosto kitsch (il chewing gum attaccato al muro trasformato in cuore che batte) ma sa anche emozionare e coinvolgere. Stordisce e appassiona. È "eccessivamente eccessivo" (si perdoni la forzatura linguistica) ma a suo modo speciale. Celebra il periodo di ambientazione, gli anni Ottanta e Novanta, con le gite in motorino, la scuola bigiata per andare al fiume, le musicassette mix, i telefoni fissi a cui far fare due squilli «così puoi capire che sono io» e una colonna sonora ad hoc comprensiva di Deep Purple, Billy Idol, The Cure e Sinéad O’Connor. Abbandona più volte la luce per avvicinarsi a coordinate noir chiaramente scorsesiane, a West Side Story, a The Warriors di Walter Hill, ma il massimo dell’efficacia lo regala nei momenti più cauti ed estatici.
In questo caos c’è un super gruppo di attori, diretti magistralmente. Adèle Exarchopoulos si smarrisce, si cerca, si spoglia sotto la pioggia ed è irresistibile, come sempre. François Civil è più che altro fisico glaciale. Benoît Poelvoorde un inedito boss mafioso (con hobby del canto) di notevole valore. Alain Chabat (premiato con il César) un marito vedovo di empatica soavità. I giovani Mallory Wanecque e Malik Frikah volti nuovi di talento. E poi il convincente Karim Leklou, diventato ormai a tutti gli effetti una star in terra di Francia, e l’onnipresente Vincent Lacoste, e una disarmata Élodie Bouchez, e Raphaël Quenard meno enfatico del solito: nessuno di loro è fuori ruolo, Lellouche li muove con eccellente abilità (così come aveva fatto con il cast corale di Le grand bain) e ognuno è un tassello importante del febbrile mosaico.
Cosceneggiato da Audrey Diwan (regista di L’Événement, Leone d’Oro a Venezia), il mare magnum ha diviso i pareri della stampa d’Oltralpe, tra lodi sperticate e pesanti critiche. Giocoforza è un’opera per cui ci si schiera, a seconda che si vogliano mettere davanti i pregi oppure i difetti. Che si voglia romanticamente credere all’attimo in cui mutare per sempre in meglio il proprio avvenire oppure no. Che ci si abbandoni alle correnti del fiume tumultuoso o si preferisca uscire dall’acqua e approcciare lidi più calmi e comuni.
Di certo si tratta di un’esperienza speciale. Tra sangue e bellezza. Nel fuoco dell’amore che resiste.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: La vie en rose
Scheda tecnica
Titolo originale: L'Amour ouf
Anno: 2024
Durata: 161’
Regia: Gilles Lellouche
Sceneggiatura: Gilles Lellouche, Audrey Diwan, Ahmed Hamidi
Fotografia: Laurent Tanguy
Montaggio: Simon Jacquet
Musiche: Jon Brion
Attori: Adèle Exarchopoulos, François Civil, Mallory Wanecque, Malik Frikah, Alain Chabat, Benoît Poelvoorde, Vincent Lacoste, Élodie Bouchez, Karim Leklou, Raphaël Quenard, Anthony Bajon.








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