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UPSTREAM COLOR - Cinema e metafisica

27/6/2013

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Chi si aspetta un'opera di science fiction rimarrà deluso. Upstream color, diretto, scritto e interpretato da Shane Carruth (già autore, nel 2004, dell'apprezzatissimo Primer), è un lungometraggio di ricerca estetica e stilistica. La sceneggiatura può definirsi come un canovaccio attorno al quale gli attori ricamano i personaggi, intessono brevi dialoghi, si muovono come in una rete concettuale animandola tramite il loro corpo. Il film stesso è come una stanza bianca dai confini indefinibili, un ambiente mentale per l’autore ed emozionale per lo spettatore, che il regista riempie di suggestioni, colori, creature, note musicali sparse come lacrime della memoria, rintocchi che segmentano e compongono la ricostruzione di una storia dai tratti generali semplici, eppure chiusi all’immediata comprensione.
Una sera, Kris (Amy Seimetz), una giovane gallerista, viene rapita da uno sconosciuto (Thiago Martins) che la sottopone a un inquietante esperimento di manipolazione del suo corpo e di controllo della mente. Una volta libera, la ragazza non ricorda nulla dell’accaduto, eppure è tormentata dalla percezione che una larva le stia scavando sottopelle. Dopo essersi sottoposta a un brutale intervento per estirpare l’animale, la sua vita sembra tornare normale. Solo più ovattata, solo impersonale. D’un tratto, il casuale ma provvidenziale incontro con il broker fallito Jeff (Shane Carruth) riporta entrambi alla vita delle sensazioni, delle emozioni, delle percezioni perse, a una vita fatta di promesse, scambi e progetti.
Ma il disturbante, incomprensibile e indimenticabile ricordo del passato affiora, e con esso una lunga, interminabile sequenza di episodi, frammenti, sogni e allucinazioni che possono solo aumentare il senso di straniamento e alienazione di Kris. E di Jeff. Entrambi, infatti, sembrano condividere non solo il sentimento d’amore, ma anche la stessa traumatica, indescrivibile esperienza, l’insofferente sensazione di diversità, il dubbio di esistere, la paura di chiedere, sondare, ottenere risposte. Kris e Jeff, anime sole che si avvinghiano l’una all’altra per attrazione, natura, istinto, necessità. Che esplorano cautamente e con paura il mistero, le ombre, le sfumature insondabili della mente.
È difficile inquadrare Upstream color in un genere definito. Si tratta di un’opera a suo modo unica che coniuga la sperimentazione dell’immagine in movimento con le regole del cinema di finzione. Non è un film astratto, anche se tocca spesso (e bene) le corde del film concettuale: è esteso e insistente il richiamo a Walden di Thoreau, libro-faro dei personaggi, che ad esso si attaccano come a una Bibbia per l’essere umano moderno, sballottato, insicuro, perso. Walden e l’incontro con la natura, con il nostro spirito, con ciò che pensiamo, desideriamo, temiamo di essere. Walden e la riscoperta, la ricerca di una comunione con l’altro e con se stessi.
Upstream color è il cinema della fusione. Di generi in senso cinematografico, umano, simbolico, visivo, immaginativo. Questa è la confusa, vuota, scintillante e apparente società post-moderna, così disgregata al proprio interno fin nell'anima dei suoi abulici abitanti. Questa è la deriva post-apocalittica, lo scioccante risveglio dei sensi, il viaggio nella riscoperta di sé verso una nuova intangibile dimensione spirituale, un insondabile e traumatizzante senso di appartenenza.
Il film della fusione di genere e stili è anche la descrizione della fusione che avviene tra uomini e animali, tra le molteplici forme di vita. Shane Carruth si lancia in un'ambiziosa riflessione filosofica sulla natura umana, ma anche sulla deriva sociale dell'insensato esistere moderno. Siamo soli e orfani e veniamo continuamente al mondo, ma in esso non ci riconosciamo. Ci troviamo nell'altro solo se in lui possiamo leggere la nostra stessa immagine riflessa, come uno specchio.
La ricerca estetica e formale del regista scavalca la narrazione e assume il vero senso del film. Inutile chiedersi e chiedere spiegazioni. Upstream color è un lavoro 'metafisico' che interroga e s'interroga sull'universo sensibile, e che non intende offrire risposte quanto proporre una visione, inintelligibile, probabilmente irrisolta, che se non soddisfa appieno, è quanto meno affascinante, coinvolgente, a tratti addirittura struggente.
Shane Carruth si avvicina molto al Terrence Malick di The tree of life, ma soprattutto può essere accostato al cineasta d’avanguardia Nathaniel Dorsky e alla sua idea di “devotional cinema”, all’utilizzo della macchina da presa come un mezzo dell'arte e per l'arte, al film come forma di esercizio visivo/concettuale nella percezione del mondo e nella sua più profonda e devota rappresentazione cinematografica. Direbbe il regista Peter Hutton che questa è la “velocità emotiva e visuale” dei nostri tempi, perché modifica la nostra percezione, rendendoci più consapevoli della misteriosa bellezza del mondo fisico in cui viviamo.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Regia: Shane Carruth
Sceneggiatura: Shane Carruth
Anno: 2013
Musiche: Shane Carruth
Fotografia: Shane Carruth
Durata: 96'
Distribuzione italiana: --
Attori: Shane Carruth, Amy Seimetz, Thiago Martins

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