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A MOST VIOLENT YEAR -  L’America (im)morale

4/5/2015

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“Quando li guarderai negli occhi, dovrai credere che siamo migliori di loro. E lo siamo”. È uno spirito, questo, che restaura un non più annichilito vigore, tale e quale alla fiducia preesistente il crollo delle ideologie e votato a un sistema di valori, zuppi di nostalgica mancanza: è l’America che ancora soffre. Soffre come di ferita narcisistica per quegli anni dorati di capitalismo rooseveltiano, dello shock di quel rito iniziatico che è stata la prima, mortifera recessione, in coazione a ripetere. Fino a un tempo in cui una nazione s’incatena, per disperazione, o per propensione quasi religiosa, a un sogno forse già morto, ma a cui vuole rimanere fedele, come un incurabile utopista. 
Il terzo capitolo dell’esplorazione socio-politica di J.C. Chandor è, in questo senso, l’ideale prosecuzione di quel Margin Call chiamata d’urgenza per il globo: oltre il crollo, il crimine, se non fosse che il crimine è monumentale e ha pronipoti secolari. La sinossi, sulla carta, è semplice: un imprenditore che gestisce un’azienda distributrice di combustibile ambisce all’espansione della sua attività, ma l’anno più violento del decennio gli si oppone. 
Tutt’altro che semplice, A most violent year. Anzitutto, questa volta Chandor attua una decompressione del ritmo filmico, in una tensione dilatativa che porta alla trasmutazione di quel Margin Call film corale e dialettico, in una parabola esistenziale para-psicologica imperniata essenzialmente su un uomo; A most violent year è il silenzio che ne rimane. Questo il centro nevralgico palpitante e sotterraneo di un’opera che scorre sul filo del rasoio di una perenne quanto sottile linea rossa, con l’accortezza di un funambolo, saldo quanto in vibrante oscillazione tra gli estremi del vuoto. Un film collocato eppure quasi a-temporale, paralizzato in un istante marmoreo e plumbeo, nella calda luce uniforme, quasi lato diurno in antitesi al digitale artificioso dell’opera prima. 
In uno stacco millenario, ora 1981 (ma 1991 e 2001 e oggi), Abel Morales, mistificato come un De Niro mafioso, è un’ambigua sagoma riflettente l’intera superficie inafferrabile dell’opera. Oscar Isaac pare il figlio in carta velina degli eroi decadenti sondati dal cinema degli anni ’70, solo forte di una rinnovata (e ritrovata – o forse mai persa?) affermazione di onestà: meno ludico, più ferreo, mitragliato da una cospirazione criminale che non riesce e non potrà defraudarlo, né disinnescarlo dal suo intatto virtuosismo etico. Per Chandor ha ancora senso parlare di morale, e ne condensa i tratti in un Morales che è imprenditore mirante all’espansione e come tale è portato a strumentalizzare i percorsi molteplici a lui dinnanzi. Eppure, per istinto e per dedizione, si trova a essere outsider di un macrocosmo che lo disconosce e che egli stesso rifugge; è strumento di dinamiche corrotte a cui si ribella con un eroismo straniante, in un atteggiamento di determinazione pari a una cieca e illuministica fede. Sembra investito da un destino ineluttabile, di predestinazione, quello dello scontro con istanze chiaroscurali: le stesse della moglie, di gangsteriana memoria, la gelida e ammaliante Jessica Chastain, che con il clima delinquenziale aveva fatto già fatto i conti. 
Tale è l’enigmaticità messa sullo schermo da Chandor, che l’occhio spettatoriale vaga confuso in libera uscita, in un sistema semantico e di specificità dell’immagine che sfida al labirintico cruciverba, preso a indovinare l’entità morale di ogni modello umano: avvocati, sindacati, aziende concorrenti, bancari, tutti inscindibili. Lo stesso Morales veste come loro (e poco importano le origini immigrate), parla come loro, meglio di loro (come un boss): le sue caratteristiche sono permutate, camuffate, in uno strategico consolidamento di ruoli che gli permette una mobilità imprenditoriale che con il suo status identitario ha ben poco a che fare. Ed è così che pare di trovarsi inglobati in un gioco allo svelamento, e presto in un ribaltarsi delle connotazioni a un primo sguardo così tipizzate. 
Si intrecciano inoltre tematiche di denuncia sociale manipolate in maniera del tutto anti-retorica, come fossero (quali sono) ordinarie sintomatologie del terrorismo psico-mediale americano; basti, a esempio, la morbosa urgenza dell’autodifesa, la stessa che spinge i dipendenti di Abel a procurarsi un’arma – arma che passa, come un testimone, dalla mano dei camionisti a quelli delle bambine, fino alla stessa Anna, per nulla tormentata da perplessità di etica estrazione. E come in ogni storia di crimine, traiettoria discendente (ma con un epilogo in ripresa), il capro espiatorio funzionale al decorso delle dinamiche narrative: l’abnegazione morale del camionista suicida (Elyes Gabel), per nulla dissimile ad Abel, forse suo umano gemellare – non a caso Chandor fa parlar loro la stessa lingua, in una sostanziale scommessa d’identità. 
Il goal di quest’opera calibratissima, dai tempi filmici tiratissimi e studiati, non giace tanto nel verticalismo estetico, nelle geometriche relazioni del quadro, nel riproporsi necessario degli sguardi d’insieme sul paesaggio urbano (New York, prima di notte, ora di giorno), o nei claustrofobici campi degl’interni minimali, formali. Tutt’altro: è la trasversalità della forma a evocare il pregio contenutistico. Il film di genere compatto, che strizza al classico, sfuma e sembra lanciare input in direzioni diversissime tra loro, a dimostrare una potenzialità molteplice solo in parte manifesta. Molti film, in un solo film. L’eccedenza di rimandi e collegamenti extra-testuali viene ricondotta e confezionata in una maschera thriller che però non annienta gli enunciati. È un non-dire che s’insinua, più efficace di qualsiasi programmatica disanima. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: America Oggi

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Scheda tecnica

Titolo originale: A most violent year
Regia: J. C. Chandor
Sceneggiatura: J.C. Chandor
Attori: Oscar Isaac, Jessica Chastain, David Oyelowo, Elyes Gabel, Alessandro Nivola
Anno: 2014
Durata: 125'
Fotografia: Bradford Young
Musica: Alex Ebert
Uscita italiana: --

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TAKE SHELTER - L'Apocalisse dell'innocenza

8/4/2013

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Uscito nelle nostre sale a giugno 2012, con svariati mesi di ritardo rispetto alla distribuzione americana, Take Shelter è uno di quei film che conferma come il cinema d'oltreoceano potrebbe porsi a un livello superiore rispetto alla precarietà attuale, se solo trovasse più spesso il coraggio di staccarsi dalla mera logica blockbusteriana. Negli ultimi anni, con rare eccezioni, è soprattutto nel circuito indipendente che il panorama statunitense ha offerto prove maiuscole (Winter's Bone, ad esempio), ed è proprio con questa tipologia di riferimento, distaccata dai gusti insapore dei prodotti preconfezionati al solo scopo di ottenere incassi facili, che il giovane Jeff Nichols, classe 1978, ha potuto avere carta bianca per scrivere e dirigere un film ipnotico, emozionante e solidissimo.
Nel dipingere la storia di Curtis LaForche, operaio all'improvviso ossessionato da incubi spaventosi nei quali immagina l'avvento di un'esiziale tempesta in grado di far impazzire chi gli sta accanto, Nichols lavora per metafore e simbolismi, tracciando con piena coscienza il dramma individuale di un uomo alle prese con il graduale disfacimento di ogni certezza e valore. Nel terrore atavico che Curtis esprime nei confronti dell'imminente e immaginaria bufera, si esprime l'evolvere di preoccupazioni per troppo tempo tenute ai margini della mente, e ora finalmente libere di scatenarsi: la crisi economica, la precarietà lavorativa, il dramma causato dalla sordità della figlia, i poco fortunati tentativi dell'amata moglie per rimpinguare le finanze familiari, il ricordo mai sopito di una madre caduta tanti anni prima nel buio della schizofrenia. 
Il cielo nero sopra la testa di Curtis oscilla in una gelida danza di morte, nella quale volteggiano fantasmi scesi sotto le soglie del raziocinio per condurlo oltre i margini della follia. Soltanto l'amore lo potrà forse salvare, ma la guerra Curtis la dovrà vincere da solo, sfidando il soffio strisciante della paura, i tuoni del dolore e i fulmini delle infrante speranze. 
Take Shelter non è un horror in senso stretto. Non è nemmeno un thriller apocalittico. E' entrambe le cose, e anche di più. Nichols naviga lontanissimo dalle afflizioni pseudo ecologiste di Shyamalan; si muove invece, con intelligenza, in bilico tra realtà e fantasia, concretezza e astrattismi, sensazioni intimiste e derive enigmatiche. Ne trae così un lavoro profetico, universale, in qualche modo anche commovente, prendendosi il tempo che serve, senza forzare sul ritmo e senza mai perdere la strada. Lo aiuta, in modo poderoso, il suo protagonista: dopo le efficaci prove in Revolutionary Road, Boardwalk Empire e nell'herzoghiano My Son My Son What Have Ye Done, Michael Shannon si conferma attore di assoluto spessore e confeziona un'interpretazione sofferta, tagliente e toccante (da godersi, se possibile, in lingua originale). Lo accompagna un'affascinante e impeccabile Jessica Chastain.
Presentato al Sundance, premiato a Cannes e ovviamente ignorato dall'Academy, Take Shelter è senza dubbio uno dei migliori film della scorsa stagione: un duro viaggio nella paranoia e nell'ossessione, la cui meta corre fino al cuore dell'umanità.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Titolo originale: Take Shelter
Anno: 2011
Regia: Jeff Nichols
Sceneggiatura: Jeff Nichols
Fotografia: Adam Stone
Musiche: David Wingo
Durata: 121'
Uscita in Italia: 29-06-2012
Interpreti principali: Michael Shannon, Jessica Chastain, Tova Stewart, Shea Whigham

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