I film di Asghar Farhadi odorano di vita vera come ben pochi altri. Lo avevamo sperimentato sulla nostra pelle col pluripremiato e indimenticabile Una separazione, e Le passé per moltissimi aspetti prosegue su quella scia, su quel flusso di emozioni e drammi familiari inarginabile e intricato, capace di far salire progressivamente la tensione fino a raggiungere il proverbiale livello di guardia.
Il regista iraniano è un maestro ormai conclamato nel dosare il lavoro dei suoi attori e nell’incanalarli in flussi di recitazione quanto più calibrati possibile, ma che all’occorrenza riescono anche a sfoderare la giusta dose di ferocia. Ed è negli interni che la cifra stilistica ed espressiva di Farhadi trova il suo spazio privilegiato e la sua area d’elezione: territori circoscritti, traditi solo in nome di pochi e sorvegliatissimi esterni, in cui far esplodere il realismo coinvolgente delle sue storie e trasformare le pareti, le mura, i corridoi e le stanze in contenitori di scatti d’emozione, d’ira e di rimpianto, sempre pronti ad accendersi come delle micce.
Il passato non si dimentica, nell’ultimo film di Asghar Farhadi, incentrato su una nuova anche se diversa separazione, in questo caso tra una donna francese e il marito iraniano. Il nuovo compagno di lei, Samir, è invece a sua volta combattuto tra l’amore per la nuova compagna e il parallelo senso di colpa e obbligazione verso la condizione dell’ex moglie, che giace in coma dopo un tentativo non del tutto riuscito di togliersi la vita. I personaggi di Farhadi vivono ancora una volta all’ombra di ciò che è stato, prigionieri di una spada di Damocle che li rende paludati e persino goffi, contratti e in grado di muoversi solo e soltanto in punta di dubbio.
La verità diventa così l’urgenza principale di Farhadi e dei protagonisti dei suoi assai credibili micro-universi: la ricerca del modo in cui sono realmente andate le cose è vista come il miraggio di una affrancamento dalla dipendenza psicologica verso gli eventi trascorsi, una specie di possibilità di uscire da quella condizione e proiettarsi finalmente verso il futuro, insperatamente liberi e finalmente non più schiavi di un trascorso che è impossibile da lasciarsi alle spalle. “E se fosse impossibile dimenticare?”, si chiede la Marie di Bérénice Bejo (straordinaria e giustamente premiata a Cannes come migliore interprete femminile). Nel suo sguardo lacrimoso e scolpito nel dolore, inutile dirlo, è concentrata tutta l’ineluttabilità di una maledizione insondabile.
La costruzione drammaturgica di Le passé è sottilissima e precisa al millimetro, agghindata di glaciale premeditazione fin nell’ultimo anfratto e nel più marginale dei dettagli. A tal punto che viene in parte compromesso proprio quel fluviale e incandescente vitalismo che contraddistingueva Una separazione e ne aveva determinato tanto l’unicità quanto la trasversale e strameritata fortuna internazionale. Le passé rispetto all’inarrivabile film precedente sembra essere lievemente più imbalsamato, prigioniero del fiato corto di una struttura programmatica in cui i comportamenti dei protagonisti si ripetono con ciclicità sempre uguale e da quella scatola di ricordi, che farà perfino un’apparizione fisica nel finale, proprio non ci si può più schiodare.
Farhadi non si è però tramutato in un regista di furberie e scorciatoie, né tantomeno dà l’idea di essere diventato uno smaliziato programmatore di drammoni in provetta. La sua è e resta una messa in scena invidiabile e sensazionale, anche se in molti punti dà la sgradevole sensazione di muoversi con un andamento un po’ a tesi; di queste anime fragili, che non a caso citano testualmente frasi che sembrano uscite da una canzone di Vasco Rossi (“E la vita continua anche senza di noi…”) allo spettatore restano addosso anzitutto le emozioni torrenziali, i gesti estremi, i volti scavati. E la perfezione cupa e avvolgente di certe scene che nonostante la sobrietà registica vivono anche di un’elaborazione che è puramente visiva e fotografica.
C’è un momento, in particolare, in cui madre e figlia appaiono più simili di quanto non sono in realtà perché le loro rispettive silhouette fisiche vengono illuminate da colori analoghi, accentuati non poco rispetto alla media cromatica del film. Delle tonalità oscillanti tra il nero e l’olivastro che rendono come meglio non si potrebbe la tara familiare in comune, l’unica dalla quale non si può sfuggire e che rende i personaggi di Farhadi dei vinti, sempre e comunque.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 2013, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Le passé (The Past)
Anno: 2013
Regia: Asghar Farhadi
Sceneggiatura: Asghar Farhadi
Fotografia: Mahmoud Kalari
Montaggio: Juliette Welfling
Musiche: Evgueni Galperini, Youli Galperine
Durata: 135'
Interpreti: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mossafa, Pauline Burlet, Elyes Aguis, Jeanne Jestin
Il regista iraniano è un maestro ormai conclamato nel dosare il lavoro dei suoi attori e nell’incanalarli in flussi di recitazione quanto più calibrati possibile, ma che all’occorrenza riescono anche a sfoderare la giusta dose di ferocia. Ed è negli interni che la cifra stilistica ed espressiva di Farhadi trova il suo spazio privilegiato e la sua area d’elezione: territori circoscritti, traditi solo in nome di pochi e sorvegliatissimi esterni, in cui far esplodere il realismo coinvolgente delle sue storie e trasformare le pareti, le mura, i corridoi e le stanze in contenitori di scatti d’emozione, d’ira e di rimpianto, sempre pronti ad accendersi come delle micce.
Il passato non si dimentica, nell’ultimo film di Asghar Farhadi, incentrato su una nuova anche se diversa separazione, in questo caso tra una donna francese e il marito iraniano. Il nuovo compagno di lei, Samir, è invece a sua volta combattuto tra l’amore per la nuova compagna e il parallelo senso di colpa e obbligazione verso la condizione dell’ex moglie, che giace in coma dopo un tentativo non del tutto riuscito di togliersi la vita. I personaggi di Farhadi vivono ancora una volta all’ombra di ciò che è stato, prigionieri di una spada di Damocle che li rende paludati e persino goffi, contratti e in grado di muoversi solo e soltanto in punta di dubbio.
La verità diventa così l’urgenza principale di Farhadi e dei protagonisti dei suoi assai credibili micro-universi: la ricerca del modo in cui sono realmente andate le cose è vista come il miraggio di una affrancamento dalla dipendenza psicologica verso gli eventi trascorsi, una specie di possibilità di uscire da quella condizione e proiettarsi finalmente verso il futuro, insperatamente liberi e finalmente non più schiavi di un trascorso che è impossibile da lasciarsi alle spalle. “E se fosse impossibile dimenticare?”, si chiede la Marie di Bérénice Bejo (straordinaria e giustamente premiata a Cannes come migliore interprete femminile). Nel suo sguardo lacrimoso e scolpito nel dolore, inutile dirlo, è concentrata tutta l’ineluttabilità di una maledizione insondabile.
La costruzione drammaturgica di Le passé è sottilissima e precisa al millimetro, agghindata di glaciale premeditazione fin nell’ultimo anfratto e nel più marginale dei dettagli. A tal punto che viene in parte compromesso proprio quel fluviale e incandescente vitalismo che contraddistingueva Una separazione e ne aveva determinato tanto l’unicità quanto la trasversale e strameritata fortuna internazionale. Le passé rispetto all’inarrivabile film precedente sembra essere lievemente più imbalsamato, prigioniero del fiato corto di una struttura programmatica in cui i comportamenti dei protagonisti si ripetono con ciclicità sempre uguale e da quella scatola di ricordi, che farà perfino un’apparizione fisica nel finale, proprio non ci si può più schiodare.
Farhadi non si è però tramutato in un regista di furberie e scorciatoie, né tantomeno dà l’idea di essere diventato uno smaliziato programmatore di drammoni in provetta. La sua è e resta una messa in scena invidiabile e sensazionale, anche se in molti punti dà la sgradevole sensazione di muoversi con un andamento un po’ a tesi; di queste anime fragili, che non a caso citano testualmente frasi che sembrano uscite da una canzone di Vasco Rossi (“E la vita continua anche senza di noi…”) allo spettatore restano addosso anzitutto le emozioni torrenziali, i gesti estremi, i volti scavati. E la perfezione cupa e avvolgente di certe scene che nonostante la sobrietà registica vivono anche di un’elaborazione che è puramente visiva e fotografica.
C’è un momento, in particolare, in cui madre e figlia appaiono più simili di quanto non sono in realtà perché le loro rispettive silhouette fisiche vengono illuminate da colori analoghi, accentuati non poco rispetto alla media cromatica del film. Delle tonalità oscillanti tra il nero e l’olivastro che rendono come meglio non si potrebbe la tara familiare in comune, l’unica dalla quale non si può sfuggire e che rende i personaggi di Farhadi dei vinti, sempre e comunque.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 2013, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Le passé (The Past)
Anno: 2013
Regia: Asghar Farhadi
Sceneggiatura: Asghar Farhadi
Fotografia: Mahmoud Kalari
Montaggio: Juliette Welfling
Musiche: Evgueni Galperini, Youli Galperine
Durata: 135'
Interpreti: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mossafa, Pauline Burlet, Elyes Aguis, Jeanne Jestin
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