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LA PORTA D'ORO - Il gigolò innamorato

27/12/2014

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Non so dire quando sia iniziata, questa stagione dei matrimoni; so soltanto che un giorno ho visto amici e conoscenti sommersi dall’invasione dei fiori d’arancio. Mi adeguo, cerco scarpe comode e abiti in tinta, presenzio ai matrimoni sempre più spesso, sempre più stupita.
Proprio un improvvisato matrimonio messicano è il cardine de La porta d’oro, ma entriamo in questo film sbirciando nello spioncino: in un riuscito esempio di “cinema nel cinema”, conosciamo già dalle prime scene un nervoso Charles Boyer, entrato di straforo negli studi Paramount per chiedere un colloquio con un regista. Mitchell Leisen, appunto, l’uomo dietro la macchina da presa, ora in scena nei panni di un collega. E cosa può desiderare uno come Boyer (Georges Iscovescu, nel film) se non raccontare la sua storia a qualcuno che possa farne buon uso sullo schermo?
Così Iscovescu si mette seduto e racconta al regista la sua incredibile storia: ci accompagna in un Messico di frontiera, caliginoso e arroventato, lì dove sorge la misera e infernale pensione Esperanza, lì dove gli immigrati si ammassano in piccole stanze in attesa di un permesso per entrare nel grande sogno americano. Perché è possibile entrarvi, se si è armati di pazienza e si è pronti a superare quel misterioso cancello di confine da tutti detto “la porta d’oro”. Ma l’attesa è lunga.
La vita nella modesta pensione sta stretta al bel rumeno Georges Iscovescu (abituato a fare la bella vita in Europa come gigolò); la porta d’oro è tragicamente blindata per lui, fino al fortunato incontro in un locale, sulle note suadenti de la Cumparsita, con la terribile Anita Dixon: sua compagna di danza e di antichi raggiri, Anita è una Paulette Goddard sanguigna e subdola, una maliziosa gatta bianca. 
Lei ha oltrepassato la porta d’oro facendosi furba: ha sposato un pollo americano e ha chiesto il divorzio appena ottenuta la cittadinanza. Eccoci quindi alle prese con la famigerata carta verde, quella che nel tempo ha ispirato scrittori e registi, il nuovo chiodo fisso per l’affascinante Iscovescu. Approfittando dei festeggiamenti del quattro luglio, l’uomo si aggira a caccia di una moglie americana. E proprio quando è sul punto di arrendersi, dopo una giornata di tentativi demenziali, in una squisita atmosfera di commedia si trova davanti Miss Brown (Olivia De Havilland). Timida, pudica, dolcissima e imbranata maestrina in gita con la classe, goffa autista alla guida di un pullman carico di piccole pesti. 
Lei, così innocente e così pura, è un bersaglio che fa gola al crudele Iscovescu. L’uomo non impiega molto a sabotare il pullman assicurandosi una notte per corteggiare la maestrina. Certo, c’è una sola notte a disposizione, ma Iscovescu intende sfoderare le sue migliori carte e con un tipetto come Miss Brown occorre poesia, romanticismo, stucchevoli commenti e sguardi da cane bastonato.
La tattica funziona, prima dell’alba il cuore della timorosa maestrina si spalanca davanti all’uomo appena conosciuto: momento ideale per una proposta di matrimonio, con l’aurora in cielo e il silenzio per le vie del paesello messicano.
Al “sì, lo voglio” di Miss Brown segue un grande, terribile, divertentissimo inganno. Precipitiamo con i protagonisti nei profumi e negli intensi colori del folklore messicano. La loro breve e strampalata luna di miele ha in serbo per noi la solennità delle candele di una piccola cappella, la leggenda di un albero di rusticani che svela il destino di un amore, tessuti ricamati per schermarsi dal sole, canti e balli tipici di un popolo che affronta la miseria con la vivacità della tradizione. Un affascinante tuffo nel cuore di Miss Brown, dove ogni progetto è un roseo manifesto d’amore, dove ogni desiderio è paurosamente sussurrato e dove le piccole disavventure di un viaggio sono dolci imprese da raccontare ai figli che verranno. 
La De Havilland sostiene da sola, con la propria recitazione, un cast di per sé stellare e si riconferma adorabile e spiccatamente tagliata per i ruoli tremolanti, pacati e ingenui. Suo contrappeso è il cupo e ammiccante Charles Boyer, a sua volta molto indicato per i ruoli da malvagio rubacuori. Questa strampalata e spassosa antitesi fra i due diviene il pregio della coppia e mentre l’auto dei novelli sposini sbanda su strade sterrate di un Messico sconosciuto anche alle cartine stradali, lo spinoso avventuriero europeo inizia a cedere sotto i colpi di leggiadria della mogliettina americana. L’amore è alla porta, la porta è d’oro.
Un film dall’intrigante struttura circolare. Leisen, definito successivamente da Billy Wilder “un vetrinista”, a causa di uno screzio, sa guidare con sapienza un cast prezioso e svela la vita degradata degli immigrati. Mescola dramma e commedia in un'opera irresistibile, elegante e fluida, avvalendosi di uno sceneggiatore d’eccellenza, lo stesso Wilder (qui autore di film altrui per l’ultima volta).
Bugie, promesse e colpi di scena: non sono mai stata invitata a un matrimonio più sensazionale di questo.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Hold Back the Dawn
Anno: 1941
Durata: 116'
Regia: Mitchell Leisen
Soggetto: Ketti Frings
Sceneggiatura: Billy Wilder, Charles Brackett
Fotografia: Leo Tover
Musiche: Victor Young
Attori: Charles Boyer, Olivia de Havilland, Paulette Goddard, Victor Francen, Walter Abel

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UN GIORNO DI TERRORE - La gabbia di mamma

22/1/2014

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Ricordo l’ascensore della casa francese dove ho vissuto per un breve periodo, ospite di un amico. Quell’ascensore era solito bloccarsi, facendomi tremare. Ci ho messo tempo a capire cosa non funzionasse nel meccanismo e infine l’ho scoperto: era il mio amico francese che, per movimentare un po’ le mie giornate, bloccava l’ascensore dall’esterno. Aveva un senso dell’umorismo tutto suo, il francese.
Cambiamo ascensore.
Cornelia Hilyard (Olivia De Havilland) è la ricca proprietaria di un piccolo maniero urbano: deliziose porcellane, busti e candelabri, un nido dove carezzare i propri anni con sobria dignità. Una Havilland quarantacinquenne e mai sfiorita la impersona egregiamente. Sin dai titoli di testa assaggiamo un gioco di tagli, scatti e forme che ricordano le sbarre di una gabbia, passando attraverso i fotogrammi del traffico quotidiano. A casa Hilyard, al contrario, regna la placida sonnolenza di una piccola vita tranquilla. Un trionfo di contrapposizioni. 
Il figlio Malcom (William Swan) vive nel boato assordante dell’amore materno, è un bambino in un corpo da trentenne. La madre tiene ben stretto il laccio attorno al suo collo e difficilmente allenta la presa; si sdilinquisce in indigeste raccomandazioni e premure imbarazzanti. Quando Malcom parte per una breve vacanza, ci sentiamo sollevati per lui. Cornelia, reduce da una recente rottura della gamba e costretta a usare un ascensore per spostarsi lungo i tre piani della casa, rimane sola: è intenta a rivangare le vecchie poesie che era solita comporre in passato e nulla può turbare la quiete del suo confortevole rifugio. Nulla, eccetto un disguido.
Mentre l’auto di Malcom si dirige sicura verso un’occasionale libertà, un tecnico addetto a lavorare con i fili elettrici compie un piccolo, fatale errore. Il filo che porta corrente a casa Hilyard si spezza e il buio piomba nella bella dimora. Fra quelle mura, la padrona di casa trattiene il fiato aggrappandosi alle sbarre: si trova all’interno del suo ascensore che si è appena bloccato a mezz’aria fra il primo e il secondo piano, e la cosa non le piace affatto. Ma Cornelia non si scompone, certa che qualcuno rimedierà all’inconveniente. Si sbottona il pullover e sdrammatizza in un rassicurante dialogo con se stessa. Sono gli albori di una tragedia che vi terrà a lungo incollati alla sedia, perché la nostra Cornelia passerà in quella minuscola gabbia tutto il resto del film. Sadismo in tutte le sue sfumature. 
La donna, liquefatta dal caldo torrido, si aggrappa alle notizie della sua piccola radio portatile: la città si è spopolata per il fine settimana vacanziero, c’è l’allerta per il traffico. In casa c’è invece un silenzio logorante, talvolta interrotto dal trillo fastidioso di quel telefono irraggiungibile. I nervi di Cornelia iniziano a dare segni di cedimento e le pareti della gabbia sospesa nel nulla ricordano quelle di una bara. Il debole trillo del campanello d’allarme si perde nel rombo dei motori americani: c’è una curiosa altalena di inquadrature fra l’interno dove regna un silenzio di morte e l’esterno chiassoso. Le ore passano e la poetessa non ha più nessuna voglia di recitare versi; ora è un animale in cattività, spogliato di ogni pudore e trasfigurato dalla paura.
Di lì a poco un barbone completamente ubriaco s’intrufola in casa. A partire da questa scena, il regista indossa guanti da chirurgo e si prepara a operare il pubblico senza anestesia, in una cruda sequenza di orrori. Saggiamo tutta l’impotenza di Cornelia, costretta a guardare il mondo dalla sua prigione dorata. L’uomo saccheggia, strazia e fa scempio della bellezza nella rivincita del popolo degli emarginati sulle inarrivabili esistenze della buona società americana. Ma il farneticante ubriaco è solo il primo di una serie di inquietanti ospiti. Torna accompagnato da una prostituta e depredano la casa. Infine tre giovani criminali irrompono in casa attirati dal trambusto: un ladruncolo e una ninfetta spietata, devoti al capo banda Randall O’Connell (l’esordiente e magnifico James Caan), e un ex carcerato sadico e violento. 
La rivolta dei ruoli ha inizio. Mentre la corte dei miracoli delle brutture umane vandalizza la casa con calze di nylon a sfigurare i volti, l’urlo di Cornelia si fa più disperato (“Io sono un essere umano!”). Donna in gabbia contro bestia a piede libero, in un caleidoscopio che rende molto sottile il confine fra i ruoli. All’esterno c’è ancora il trambusto delle auto, che amplifica l’indifferenza della società facendo di Cornelia la vittima brutalizzata del suo stesso sistema. Seguiamo a fiato corto i suoi vani tentativi di fuga e le perverse gesta dei tre giovani assassini. Le bestie impongono il regime del terrore. Il film risulta efficace, cruento, senza un barlume di pietà e pieno di gabbie dalle quali fuggire.
Avete paura degli spazi chiusi? Questo film non fa per voi.
Non sempre c’è un amico francese disposto a salvarvi dalla vostra gabbietta.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Lady in a Cage
Anno: 1964
Durata: 94'
Regia: Walter Grauman
Sceneggiatura: Luther Davis
Musiche: Paul Glass
Attori: Olivia de Havilland, James Caan, Jennifer Billingsley, Jeff Corey, Scatman Crothers

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L'EREDITIERA - Nessuno ama Caterina

18/12/2013

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Siamo circondati da truffe e questo è un fatto ma alcuni – io, nella fattispecie – alimentano ancora quella fiammella di speranza che porta a fidarsi del prossimo. Anche quando il prossimo telefona a casa proponendo una visita gratuita e senza impegno di un mobilificio e, in breve, vi chiede dove abitate e in quali orari trovarvi soli a casa. Così, “per dare un’occhiata ai mobili vecchi”.
Questa è gente che ha fiuto per i buoni affari, ma il buon affare che sto per presentarvi è diverso da ogni altro. Ha una crocchia di treccine, grandi occhi spalancati, modi schivi e veste abiti dimessi, si chiama Caterina Sloper ed è l’ereditiera. La impersona Olivia De Havilland, cogliendo appieno la sua natura: non proprio bella, dolcissima e indifesa, Caterina vive in un’America ottocentesca ossessionata dall’etichetta, è orfana di madre e destinata a possederne tutti i beni, nonché perennemente rannicchiata all’ombra di un grande uomo. Austin Sloper (Ralph Richardson) è suo padre, stimato medico e uomo dalla battuta pronta, autoritario e astuto. Si aggiunge a loro la zia Lavinia (Miriam Hopkins), presenza effervescente e chiacchierona, vedova inconsolabile quanto donna sveglia e brillante. Il dottor Sloper e la zia hanno un solo problema: maritare quella Caterina introversa e non troppo avvenente che non sembra riscuotere l’interesse dei giovani della città. 
Da questa miscela scoppiettante ci si aspetta una romantica commedia degli equivoci di gusto pungente. Impressione che ci accompagna durante ogni iniziale, spassosa scena del film, dove una goffa Caterina soggiace ai desideri paterni e tenta vanamente di abbellire il suo musetto per recarsi al ballo. La tensione, tuttavia, è destinata a fare il suo ingresso in scena: veste abiti finissimi, è galante e forte del sorriso angelico di Montgomery Clift. Lui è Morris Townsend, ha messo gli occhi su Caterina durante il ballo ed è pronto a farla arrossire coi suoi modi da adorabile mascalzone. Lei, per tutta risposta, è in balia dell’imbarazzo e non fa mistero della sua natura credulona e assai poco raffinata. 
Il binomio pericoloso prende forma e seguiamo ammutoliti le varie e complicate fasi di quello strano corteggiamento. Lui, bellissimo e squattrinato, è pazzo di lei. Lei, ricamando centrini e calcandosi cuffie sulla testa, sembra a ogni scena più ridicola. Eppure è d’amore che parla il bel Morris e i nostri cuori si lasciano corrompere volentieri dalle sue accorate dichiarazioni.
Sullo sfondo scorrono interni di bomboniera via via più opprimenti, sete, lampade e scaloni, nido di ferro di un uccellino piccolo e spaurito che non sa spiccare il volo. Quando Morris chiede a Caterina di sposarlo, una terribile aria di tempesta inizia ad aleggiare nella casa. Il dottor Sloper è certo di avere a che fare con un avventuriero attirato dalla cospicua dote della figlia e non vuole darla in sposa. Lei, inconsapevole posta in gioco, ha assaggiato con la punta della lingua il miele e non ha nessuna intenzione di sciacquarsi la bocca.
Lo scontro è inevitabile e William Wyler non desiste dal prenderci per mano e farci scivolare come in un giro di valzer sempre più serrato dentro il vivo della storia. Da un lato c’è il medico burbero e i suoi divieti, dall’altro il giovane ammiratore armato solo delle proprie parole poetiche e al centro quella minuscola e scolorita Caterina che finisce per diventare la beniamina inevitabile: l’eroina atipica che lotta per difendere il suo amore, mai arresa e sempre più pressata fra i due poli maschili. Ma il proposito certamente caustico di Wyler è metterci di fronte a una domanda cruciale. Quello di Morris è vero amore?
Il regista non semina chiari indizi per trovare risposta al dilemma; è come se volesse infilarci per primi nei panni di quella Caterina tanto ricca quanto innamorata. Ci lascia appesi allo sguardo ceruleo di Morris e ci tormenta distaccandocene per volere di un padre severo. Dobbiamo credere alla figura protettiva del vecchio luminare o lasciarci sedurre dalle promesse del giovane scapestrato? 
Quando Morris propone a Caterina una fuga romantica, l’intenzione più dissacrante del regista viene a galla, tanto che il film pare diviso in due grandi scaglioni: il primo è aggraziato e floreale, il secondo è greve. Il romanticismo è diluito sino a scomparire dalla scena, a rimpiazzarlo ci sarà freddezza, vendetta, rabbia mai sopita e brutti scheletri nell’armadio. L’anima nera del film, per quanto vestita di broccato e dedita al punto croce, alza la testa con prepotenza e ci trascina verso un finale di fiammelle che si spengono lente in una notte plumbea e inesorabile. Non una tragedia, ma un delicato e gustoso ritratto di società, giocato sul tema dell’amore e della negazione dello stesso, capace persino di strapparci un sorriso finale rivelando la vera e grande eredità di Caterina. Il carattere.
Privarsi della visione di questo particolare capolavoro non è di certo quel che si dice un buon affare.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: The Heiress
Anno: 1949
Durata: 115'
Regia: William Wyler
Sceneggiatura: Ruth Goetz, Augustus Goetz
Fotografia: Leo Tover
Musiche: Aaron Copland, Ray Evans, Jay Livingston
Attori: Olivia de Havilland, Montgomery Clift, Ralph Richardson, Miriam Hopkins, Mona Freeman

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