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TAVOLE SEPARATE - La pensioncina inglese

29/3/2016

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Quando le porte del piccolo albergo Beauregard si apriranno vi sentirete parte di quella colorita schiera di personaggi seduti ciascuno al proprio tavolo. Un microcosmo, un quieto salotto di Bournemouth dove trovano spazio svariati soggetti che a turno sapranno strapparvi un sorriso e commuovervi. E se l’idea di una piccola pensione britannica primi anni Cinquanta e la vita dei suoi abitanti vi intriga, questo film fa al caso vostro, seppure tradisca una certa rigida e impostata atmosfera teatrale.
Un film che decolla faticosamente perché appunto incatenato all’origine teatrale (soggetto di Terence Rattigan del 1954) eppure meritevole di essere riscoperto anche soltanto per godere delle sue interessanti sfumature. Non a caso c’è un cast stellare sullo schermo.
Immaginate un elegante David Niven nei panni del valoroso maggiore Pollok, militare in pensione che ammorba tutti i presenti con i fantasiosi racconti delle proprie imprese. Mettetegli accanto Sibyl, una Deborah Kerr caricaturale e irresistibile, nevrotica e goffa signorina mai convolata a giuste nozze per volere della terribile madre. Quest’ultima è Maude Reiton Bell (Gladys Cooper), un tiranno in abito da sera, un’avvizzita signora dal linguaggio ricercato e velenoso, giudice implacabile in materia di decoro. 
Non manca lo scrittore dal passato oscuro, John Malcom (Burt Lancaster) adorabile perdigiorno amante del buon whisky, pronto a far arrossire le vecchie signore. A lui spetta il fardello di una storia d’amore segreta con la proprietaria del Beauregard e su di lei vorrei soffermarmi per mettere in luce ancora una volta le doti straordinarie di una grande attrice ingiustamente poco conosciuta, che abbiamo già incontrato in So dove vado (trovandola già allora una straordinaria eroina romantica): Wendy Hiller, questa volta nei panni della signorina Cooper, autoritaria e composta presenza che tiene le fila di quella caotica pensione e veglia sulle malefatte dei pensionanti. La Hiller ha lineamenti arcigni, una fisicità piuttosto mascolina, è rigida nei gesti e non si lascia facilmente trasportare dalle emozioni: è una perfetta signorina inglese, dura e risoluta, eppure tenera in maniera disarmante.
Fra lo scrittore John e Miss Cooper nasce così un amore che sorvola sulle diversità, un amore che riesce a renderli compatibili nonostante tutto, ed è proprio in quello scenario così timido e dolce che fa irruzione una nuova ospite del Beauregard: l’ex moglie di John, modella provocante e sensuale che non poteva trovare interprete migliore di Rita Hayworth. Questa è una parte della rosa di grandi talenti che animano le tavole separate, mantenendo viva la nostra attenzione attraverso un gioco prettamente teatrale di arguzie e dialoghi brillanti, battute esilaranti e brevi momenti di pathos.
“Tavole separate”, assicura l’insegna del Beauregard, garantendo agli ospiti intimità durante i pasti. Tutt’altro racconta questo film, mettendo in luce gli intrighi e le segrete intese, provocando e rivelando l’umanità e le debolezze della “gente perbene”.
Delbert Mann racconta la storia senza tralasciare qualche formalismo, conserva intatta quella veste teatrale che sul grande schermo risulta a tratti ridondante e rende le azioni un po’ ingessate, i tempi un po’ lenti. Ma il punto di forza di questo film risiede proprio nella sua capacità di mostrare una vicenda da sipario alzato: la narrazione è ricca e polposa, lo spettatore può contare su qualche tiepido colpo di scena. Nulla che lo faccia saltare sulla sedia ma di certo un buon pretesto per restare teneramente appeso al racconto all’inglese di un piccolo mondo. 
Gli ospiti si rivelano più che mai intenzionati a mantenere una certa sobrietà di facciata e infine cedono al richiamo dell’istinto e a un Amore imperativo, che porta ciascuno di loro all’affermazione personale. Lancaster dovrà scegliere a quale donna affidare il proprio destino, trovandosi intrappolato fra una cacciatrice fatale e una signorina di sani principi. La timida Sibyl troverà il coraggio per ribellarsi alla madre e corrispondere le galanterie di Niven, ex militare con qualche scomodo segreto. 
Infine ci scopriremo affezionati a questa pensioncina inglese dove non mancano amori, sfuriate e bisticci, cruciverba e romanzi gialli. Parteciperemo anche noi alle buffe riunioni delle anziane residenti, decise a difendere la nettezza della reputazione. Ci lasceremo prendere per mano da questi ospiti dove trionfa superba una Kerr ancora una volta capace di autentica autoironia e per nulla scomoda nei panni di una Sibyl repressa e un po’ credulona. I grandi talenti sullo schermo di Tavole Separate ci inviteranno quindi a prendere posto fra loro.
Per un tè, una cena, un momento di quiete in quella magnifica cartolina di un momento storico dove lampade a stelo lungo, imponenti poltrone, centrini e pianoforti chiamavano a raccolta i più interessanti personaggi.
Per fare salotto, all’inglese.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Separate Tables
Anno: 1958
Durata: 100'
Regia: Delbert Mann
Sceneggiatura: John Gay
Fotografia: Charles Lang
Musiche: David Raksin
Attori: Rita Hayworth, Deborah Kerr, David Niven, Wendy Hiller, Burt Lancaster, Gladys Cooper

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UN AMORE SPLENDIDO - Eleganza a bordo

16/4/2014

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Fra tante situazioni che mi hanno vista armata di un computer portatile e intenta a scrivere, oggi lo faccio dal soporifero interno di una nave che mi porta dall’altra parte del mare. Otto interminabili ore di oblò che inquadrano azzurro, mentre Bach mi tende una mano attraverso le cuffie imponendosi sugli strilli dei bambini.
E la mia mente vaga in cerca di poesia, rifugiandosi su un’altra nave, sul ponte, dove un Cary Grant già maturo e sempiterno seduttore fuma una sigaretta di spalle. Artista di scarsa fama, dongiovanni incorreggibile e protagonista di cronache mondane, è il futuro sposo di una ricca ereditiera che gli assicurerà un avvenire tranquillo. Il suo nome è Nickie Ferrante, pelle bruna, sorriso niveo, completo grigio squadrato e una ruga di incoscienza a solcargli la fronte. La nave bacia il litorale francese, la pellicola trasuda colore: il blu insistente del mare, gli interni chiari delle cabine e poi il rosso acceso dei riccioli di Terry, la sconosciuta nella quale Ferrante sta per imbattersi. 
Terry gode del talento di una frizzante Deborah Kerr, pallore lunare e capigliatura infuocata, protagonista di sublimi accostamenti cromatici. Colorita è anche la sua parlantina da ragazza semplice e sveglia, dotata di senso pratico e addestrata alla vita dopo anni di esibizioni nei club fino a tarda notte. Ora Terry può riscattarsi rientrando a New York e accettando la proposta di matrimonio di un ricco fidanzato che l’aspetta.
Due cuori, Terry e Nickie, per nulla solitari ma incredibilmente affini. Stanno per sfiorarsi nel gioco di limpida luce del ponte, stanno per perdersi nella corrente. Le impeccabili buone maniere di quella che appare come una commedia cederanno presto il passo al dramma.
I due amanti, passeggeri e compagni di tavolo, camminano a braccetto fingendo di ignorare il filo magnetico che li avvicina, giurando fedeltà ai compagni che li aspettano a casa. Un vero film d’amore, garbato e puntualissimo nel descrivere un tradimento sotto le luci soffuse del romanticismo: il bacio rubato fra i due non viene nemmeno mostrato sullo schermo, ma resta appeso in un angolo ombroso, nascosto in cima alle scale. Su quella nave che torna alla vita di sempre, ci sono due vite che tendono a una sola ed è uno scontro pericoloso che sfiata zefiri di favola e maestrale di pericolo.
Nickie vuole mostrare a Terry quanto di più caro gli appartenga; così, approfittando di uno scalo in una rigogliosa costa azzurra che fiorisce lambita dal mare, la conduce lungo un sentiero tortuoso. Lo seguiamo increduli fino a giungere lassù, alla casa della nonna ottantaduenne che ha scelto di isolarsi in un reame fatto di boccioli, poltrone, pianoforti, dipinti e luoghi dove onorare il defunto marito con la preghiera. Un nido dell’aquila intriso di fiabesca magia che intenerisce e commuove, una vecchietta sottile e affabile che ondeggia fra le stanze avvolta dalla corolla di pizzo del suo scialle. 
Gli occhi di quella nonna traboccano di gioia innanzi al felice incontro fra lo scapolo indeciso e la rossa dall’ugola d’oro. I tre nella stanza, noncuranti del tempo e della distanza, sotto una cupola perfetta di carta da parati color oro suonano il pianoforte lasciando che le lacrime imperlino le ciglia: in assoluto una delle scene più maestose di questo film di Leo McCarey, già proposto in una prima versione nel 1939.
Ma si sa che ogni nave deve attraccare, e il porto affollato di New York ha in serbo brutte sorprese per la coppia di amanti che si è lasciata inebriare dai fiori della Francia e da qualche chiaro di luna di troppo. Nel codazzo di amici e parenti del porto, ci sono due promessi sposi che si sbracciano in direzione della nave. E questo è un bel guaio per due innamorati con la valigia in mano e il forzato sorriso sul viso, tanto che all’ultimo si scambieranno la più assurda delle promesse “Ci rivedremo in cima all’Empire State Building fra sei mesi, è il posto più vicino al cielo. Se tu ci sarai, ci sposeremo”. Preparate i fazzolettini, perché la tragedia è servita.
Ma siamo solo all’inizio di ciò che più volte scivolerà danzando fra le pieghe del dramma, inumidendo gli occhi pur mantenendo intatto tutto lo splendore di una storia d’amore vera e graffiante, tormentata e piena di eleganza. 
Eleganza è la vera parola chiave dell’intera pellicola, perché questa pellicola conserva i crismi del film d’amore anni cinquanta senza trabocchetti o mistificazioni. Un grande, caparbio, logorante e dissennato amore lungo due ore e – nel mio caso – ambasciatore di un lungo pianto sulla scena finale. Ottimo anche il tema sonoro del film, An affair to remember, cantato da Vic Damone: zucchero in musica.
Così Un amore splendido è un film splendido di ostacoli al sogno e di mare in tempesta. Un cinema sano, eterno e indimenticabile, una storia dolcissima al profumo di fiori dai risvolti spietati. Ripensarci mi costa un lungo sospiro mentre guardo fuori dal mio oblò.
Di Cary Grant, nessuna traccia.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: An Affair to Remember
Anno: 1957
Durata: 119 min
Regia: Leo McCarey
Sceneggiatura: Delmer Daves, Leo McCarey, Donald Ogden Stewart
Fotografia: Milton R. Krasner
Musiche: Hugo Friedhofer, Harry Warren
Scenografia: Jack Martin Smith, Lyle R. Wheeler
Attori: Cary Grant, Deborah Kerr, Richard Denning, Neva Patterson, Cathleen Nesbitt

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NARCISO NERO - Il velo, il vento, il male

8/4/2013

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Per una che ha studiato dalle suore, sacrificando la propria infanzia sull’altare delle buone maniere, parlare di veli bianchi mette a disagio. Così a disagio che, a motivarmi verso la visione del film, è stata una delle mie eroine preferite: Deborah Kerr. Ecco, se la pallida e aggraziata attrice scozzese non fosse stata il volto protagonista di questo kolossal, forse la repellenza di fronte ai veli bianchi avrebbe avuto il sopravvento. Altra perplessità è affiorata in me quando mi sono trovata di fronte a un’immagine colorizzata: un vero peccato per una smodata amante del bianco e nero. Ebbene, in questo caso, lunga vita ai colori sgargianti che trascinano in una terra lontanissima, creando riflessi e baluginii dorati, offrendo vivacità a terra e fiori. Superba e indicata cornice cangiante per una storia d’inquietudine sul ciglio di un burrone.
Narciso nero è la mia favola personale, il film che riguardo volentieri ogni volta che voglio sentirmi altrove, come se m’illudessi di poter assistere ciascuna volta a un nuovo finale. La storia non cambia mai, ma ipnotizza sempre.
C’è quel grande palazzo reale, antico harem, incastonato nel punto più ventoso dell’Himalaya: un principesco blocco di storia e di peccato arpionato alla roccia, arioso e azzurro, sporgente verso il nulla di un precipizio. Ogni volta che vedo quella immagine ho l’impressione di sentire freddo sino alla punta dei piedi. Forse è ciò che capita anche alla giovane e volonterosa suor Clodagh (Deborah Kerr), quando si ritrova a guidare le sorelle del suo ordine verso l’antico palazzo, in qualità di Madre Superiora. Clodagh è troppo inesperta e segretamente spaventata, messa in guardia da tutti circa il vecchio harem della montagna: non si può farne un convento, nel villaggio è detto “la casa delle donne” e il principe vi si intratteneva con le sue cento amanti. Ma Clodagh è un tipo determinato, e si sente responsabile per le sue giovani consorelle; così s’inerpica per l’ostile sentiero roccioso e scopre il palazzo delle meraviglie e delle ombre. 
I muri gridano ancora le antiche pitture erotiche e proibite, il vento e l’altitudine si prendono gioco dei sensi creando illusioni di vertigine, il colore azzurro è dilagante e una vecchia custode dal passato poco chiaro è rimasta lì a prendersi cura della voliera degli uccellini. Ci sono tutti gli elementi per una favola al contrario, dove il castello scintillante come una perla fra le nuvole altro non è che un vecchio rifugio di peccatori e piaceri. Scende in campo uno dei fili conduttori che preferisco in romanzi e film: la capacità dei luoghi di alterare il carattere dei personaggi. In altre parole, il coraggioso gruppetto di suore si ammala. 
Dapprima i danni dell’altitudine e dell’acqua scarsamente potabile intaccano i loro corpi. Poi sono le piccole, immacolate teste sotto il velo a ospitare la pazzia. Una dopo l’altra, le giovani suore si sentono minacciate dal richiamo della carne e della morte. Il palazzo diventa un crudele marionettista e le notti si fanno lunghe e angosciose per la stessa Clodagh, ossessionata dal ricordo di un suo antico fidanzato. Il misterioso Mr Dean, residente inglese, sembra incarnare i desideri repressi delle religiose. I fiori prendono il posto delle patate nell’orto, i profumi si fanno più intensi. Suor Ruth (una spaventosa Kathleen Byron) assume via via contorni sfocati e demoniaci, come se il male albergasse in lei. La spossata suor Clodagh cerca di fermarla, intuendo la catastrofe imminente. Ma questa favola folle schizza velocemente verso l’orizzonte della paura. Il nero e l’azzurro si mescolano, rendendo indimenticabile il ghigno del male sul viso di Ruth. Una vecchia campana affacciata sul burrone scandisce le terrificanti ore del palazzo. Gli abitanti del villaggio, talvolta ostili, abbandonano il convento dove avevano trovato cure e istruzione per tornare nel silenzio delle proprie capanne. Ecco, ora il palazzo è deserto e il male può arrampicarsi sui muri come un infestante, cercando di abbattere il corpo stremato della piccola suor Clodagh una volta per tutte.
Questo film rapisce per la sua distanza dal mondo: ci si sente appollaiati sullo sperone roccioso con Clodagh, al centro di una corona di montagne ghiacciate, fra sconosciuti che parlano un’altra lingua. Viene voglia di toccare ogni pianta bagnata dalle grandi piogge e scalare la montagna per vedere il santone che “non dorme mai”, voglia di sporgersi sul grande nulla ai piedi della monolitica roccia, di percorrere i corridoi del palazzo offrendosi in pasto al vento. Le voci femminili emergono decise in questo piccolo capolavoro di purezza e perversione, fedeltà e tradimento.
Anche noi, davanti allo schermo, respiriamo di colpo l’aria gelida delle pulsioni, ritrovandoci a sperare in un finale che dia sollievo al nostro cuore.
Ecco perché ho rivisto mille volte questo film. Sto ancora aspettando che il mio cuore si dia pace.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Black Narcissus
Anno: 1947
Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger
Sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger (dal racconto di Rumer Godden)
Fotografia: Jack Cardiff
Musiche: Brian Easdale
Durata: 100'
Interpreti principali: Deborah Kerr, Flora Robson, Kathleen Byron, Esmond Knight

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