ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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LA ROSA TATUATA - La baronessa tradita

11/4/2018

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Una piccola Italia. Resistente nei centrotavola, nella Madonna che veglia appesa al muro, nell’ordine raccolto del salottino, nella padrona di casa Serafina. Fuori c’è la Florida, un villaggio di palme, strade sbiancate dal sole e pettegolezzi.
Serafina Delle Rose veste di nero, è vulcanica, sfacciata, un’autoritaria sarta siciliana giunta nell’America sconosciuta, con il marito Rosario e la figlia Rosa: Anna Magnani incendia il personaggio, imprime un solco indimenticabile in ogni parola, in ogni sguardo truce, in ogni giudizio severo o maledizione gettata al vento, guadagnando l’Oscar. Regina di quella piccola Italia: poche stanze, la fedele macchina da cucire dove si lavora tanto (e senza licenza), il caldo torrido che bisbiglia fra le persiane, la devozione assoluta per quel marito che fa il camionista e il segreto gioioso di un figlio in arrivo. Poi, fra i manichini e le vestaglie di casa Delle Rose – in quella piccola vita protetta dal guscio delle virtù vecchio stampo – irrompe il dramma, lo scandalo. Qualcosa che Serafina non può sopportare.
Rosario muore in uno scontro a fuoco con la polizia mentre trasporta droghe. Sulla scena si aggira anche una bionda disinvolta con una rosa tatuata sul petto: è Estella del club Mardì Gras, è stata l’amante di Rosario per anni, ha persino il suo stesso tatuaggio.
Serafina, dopo aver perso il marito e poi il bambino, si asserraglia nella casa di Rosario Delle Rose – “l’uomo di prima qualità” che ha sempre amato, a suo dire persino nobile – schermandosi dietro al titolo di “baronessa”. Per tre anni si rifiuta di indossare un abito per uscire e di ascoltare le chiacchiere di paese: difende la memoria, senza risparmiare denti e unghie. Si incupisce, si arrabbia, volta le spalle all’amore e al villaggio dove emergono figure femminili distanti, ostili: le bionde americane emancipate, frivole e rumorose, che ordinano bluse di seta e ridono della sarta italiana in maniera più o meno manifesta. Frattanto i tentacoli del lutto strangolano inesorabilmente anche la figlia, Rosa, decisa a sposare un marinaio americano.
Questa tremenda mamma siciliana nasce nel dramma ma a tratti strizza l’occhio alla commedia. Scoppi d’ira funesti, preghiere spinte quasi alla scaramanzia, il controllo sulla figlia, il terrore che i vicini possano mormorare. Una vedovanza ferrea, plumbea, angosciata, di rose fresche che non vengono più messe nei capelli, di abiti che infagottano un corpo ancora piacente, di accorati appelli al marito defunto (“Rosario, dimmi che non è vero che mi tradivi”).
Proprio in questo scenario nervoso e deprimente piove dal cielo l’irrefrenabile Alvaro Mangiacavallo (Burt Lancaster, qui in un’interpretazione straordinaria). Venuto in soccorso di Serafina mentre la donna, all’apice dell’isteria, sta insistendo perché il confessore di suo marito le spifferi i peccati commessi dal defunto, Alvaro si presenta per come è. Un ragazzone di origine siciliana, in canottiera, camionista, pericolosamente simile al quel “barone Delle Rose” venuto a mancare. Irruento e genuino, tutto risate e marachelle, vive con una sorella zitella, un padre “buono a niente” e una nonna giocatrice d’azzardo. Non ha un soldo e nemmeno molto giudizio, ma sa come acchiappare una capra fuggitiva, gli piace raccontare storielle e bere un bicchiere di vino a suggello di nuove amicizie.
Per Serafina, ben presto, proverà sentimenti così tumultuosi da escludere del tutto l’ipotesi di un’amicizia: si innamorerà in un giorno e inizierà, con modi da saltimbanco galante, a reclamare le attenzioni della piccola sarta. Starà proprio all’inavvicinabile vedova decidere se aprire, con le dovute precauzioni e ridendo di se stessa, il proprio cuore a Mangiacavallo.
Come Serafina confeziona abiti su misura, così Tennessee Williams scrive La Rosa Tatuata proprio per Anna Magnani, confidando che il ruolo le calzi a pennello e la porti sul palco dei grandi teatri: messa in difficoltà dall’esigenza di parlare in inglese, Anna diviene invece protagonista di un film diretto da Daniel Mann. Williams volle per se stesso la scrittura della sceneggiatura e la scelta della Magnani nel ruolo di Serafina. Il risultato è un film incredibilmente attuale dove, più che l’amore o il dramma o il furore comico della coppia Magnani – Lancaster, emerge il ritratto di un’Italia in miniatura, relegata negli angoli di una grande America con la fronte rivolta al futuro. Immigrati legati a doppio filo alle proprie tradizioni religiose, disposti ad arrangiarsi per sbarcare il lunario, affezionati a quel modo tutto italiano di stringere un patto con una risata e un sorso di vino. Un’Italia che trova il proprio corpo in quello elettrico ed energico di Anna Magnani. Un volto scavato con il cesello nella sofferenza, nella saggezza popolare, nello struggimento amoroso, con mani che creano camice di seta rosa e minacciano di strozzare una figlia incorreggibile. Forte, intensa, buona di cuore e turbata nell’anima, la Serafina di Anna Magnani è un caldo alito di vita imprigionato in un mondo smisurato – quello americano – fatto di insolenze al suo concetto di pudore.
E con tutta la sua tenacia Serafina difende un titolo che forse non le appartiene realmente, facendo gli occhi cattivi a chi turba il suo lutto ma spalancando arresa le braccia all’amore, come solo una tremenda donna italiana sa fare.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: The Rose Tattoo
Anno: 1955
Durata: 117'
Regia: Daniel Mann
Sceneggiatura: Tennessee Williams
Fotografia: James Wong Howe
Musiche: Alex North
Attori: Anna Magnani, Burt Lancaster, Marisa Pavan, Ben Cooper, Virginia Grey, Jo Van Fleet

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IL MISTERO DEGLI SPECCHI - L'amante senza tempo

5/5/2017

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​A volte basta poco per turbare il sonno di una donna. Anche se la sua vita è un concentrato di serenità domestica: tre figli, un marito, una grande casa in Galles e una vita rispettabile. Eppure Mifanwy (Edana Romney) non riesce a trattenere le lacrime quando riceve telegrammi dal passato; è per questo che sale frettolosa su un treno diretto a Londra e guardando lo schermo, in un attimo che sembra infinito, ammette:
“Vado dal mio amante”.
Questa storia di pericolosi riflessi, di portoni con apertura rompicapo e di passaggi segreti, ha inizio così. Con una bella donna gallese nel museo delle cere di Madame Tussauds dove è attesa per un appuntamento proibito. I suoi pensieri prendono voce e discendiamo a ritroso in una storia che ben presto si scrolla di dosso la nebbia londinese per regalarci l’illusione di una Venezia antica e sognante.
Anni '30. Mifanwy Conway è una ragazza capricciosa, luce degli occhi del giudice, suo padre: passa le serate con un gruppo di amici in un club dove fuma una sigaretta dietro l’altra, è volubile in amore, testarda e viziata. Quando il suo sguardo incontra quello altezzoso e sprezzante di Paul Mangin (Eric Portman) è subito folgorazione. Lui, ricco collezionista d’arte, ha modi e costumi di un’epoca remota: imprevedibile, gelido, insaziabile esteta, chiede a Mifanwy un valzer e subito scivola via dal locale senza troppe spiegazioni. Sta alla ragazza seguirlo calcando sulla testa una mantella per poi salire con lui a bordo di una carrozza d’altri tempi. Alla fine di quel viaggio c’è il palazzo di Mangin, un luogo dove una giovane gallese perderà la cognizione del tempo e noi con lei.
Non ci sono parole per descrivere il lavoro maestoso compiuto da André Thomas alla fotografia: saloni sconfinati ammantati da luci morbide e vaporose, tendaggi fruscianti, arpe e arazzi, scaloni e corridoi interminabili. Il tempio di Mangin è un tripudio di suggestioni rubate al gusto classico, le lancette dell’orologio sembrano essere state spostate indietro di quattro secoli, non c’è monile o carillon che non approdi ai nostri occhi lasciandoci stupefatti. Aprire, sbirciare, guardare in controluce: nella miniera dei tesori di Mangin è facile perdersi. “Io sono il presente, qui e subito!” esclama Mifanwy sorseggiando un calice di vino davanti all’imponente camino di quel luogo sospeso fra museo e castello. “Io scelgo il passato, la certezza” risponde l’uomo con un debole sorriso. Le fiamme ardenti alle loro spalle alimentano un fuoco speciale, quello dell’illusione che ci accompagnerà scena dopo scena alla scoperta di un mistero dolce, sinistro, infine sconvolgente.
Il mistero degli specchi diventa così una vera epopea poetica, un monumento al tema del sogno e un affresco perfetto del più doloroso e nostalgico degli amori. Mentre Mifanwy passa le giornate nella sua nuova stanza dei giocattoli pericolosi, vestita e agghindata come una dama rinascimentale, Paul Mangin la fissa, la osserva, la corregge e la plasma. Acconcia i suoi capelli, stira con le dita le pieghe della sua camicia da notte, fa di lei una musa e una bambola di tragica bellezza. Per Mifanwy essere “ammaliata da Paul” è la soluzione a un’esistenza leggera e piena di noia trascorsa a fuggire dal controllo paterno. C’è in lei il desiderio irrefrenabile di ogni donna: divenire segreta principessa di un mondo irreale, ingannare il passaggio delle ore, incastonarsi in una vita nuova, sconosciuta, ipnotica. Piena di meraviglie e, ben presto, di segnali inquietanti.
Un gatto bianco che scivola nelle stanze suscitando l’irritazione di Paul, un’ombra che si aggira notte e giorno per il palazzo, un ritratto perfido che riposa dietro una tenda, la grande sala degli specchi dove ogni parete è un tranello e la paura sul volto di Mifanwy diviene sdoppiata, ingigantita, mostruosa.
In quella specie di illecito amore nato davanti al caminetto c’è qualcosa di profondamente disturbante: l’ipnosi romantica cede il passo al terrore dell’isolamento e quando la ragazza gallese si guarda attorno capisce di essere diventata uno dei preziosi oggetti di Paul, al pari di un manichino. La danza magica si interrompe bruscamente, l’idolatria per il passato diventa voragine e ben presto le sagome spaventose del destino e della reincarnazione fanno il loro ingresso a palazzo. Sullo sfondo c’è una donna di nome Venetia vissuta in Italia nel 1400, con un sorriso beffardo e un piano di vendetta.
Definita “una storia fantastica e maledetta” da Mereghetti e un “capolavoro in bianco e nero degno di Cocteau” da Mario Gerosa, questo film colpisce l’immaginario andando ben oltre la semplice visione. La delicatezza del sogno incontra gli spigoli aguzzi della morte e riesce difficile attribuire un’opera di questo tipo a Terence Young, che passerà alla storia con James Bond anni dopo. Eppure il genio giovanile di questo regista ci ha regalato forse una delle visioni più sofisticate e squisitamente macabre degli anni quaranta, una favola amara e piena di rimpianti, una lezione sul tempo, l’ossessione e la magia degli incontri, in cui trova posto anche un esordiente Christopher Lee.
Così ci si emoziona assistendo all’incrocio di anime complementari, lo sfioramento di pelle di due amanti incontrollabili e impossibili, destinati a sparpagliarsi nel vento che sovrasta un incendio.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection

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Scheda tecnica

Titolo originale: Corridor of Mirrors
Anno: 1948
Durata: 105'
Regia: Terence Young
Soggetto: Chris Massie
Sceneggiatura: Rudolph Carier
Fotografia: André Thomas
Musiche: Georges Auric
Attori: Christopher Lee, Joan Maude, Lois Maxwell, Barbara Mullen, Eric Portman, Edana Romney

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PERFIDO INVITO - L'amica senza cuore

21/2/2017

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​Un padre premuroso, quello di Elena, forse troppo. Alle prime luci del mattino la novella sposa riceve una pelliccia, ennesimo dono paterno, ennesimo scatolone dove quel padre apprensivo riversa valanghe d’amore. L’argenteria, gli arredi, le ceramiche: ogni piccolo pezzo del regno di Elena e suo marito Carlo proviene dalle mani generose di papà. Lei (Dorothy McGuire) compare sullo schermo come una visione, un giglio avvolto dalla seta bianca di una vestaglia.
Una donna fragile, che apre lo scatolone, osserva l’ennesima pelliccia, si rallegra, la ripone con le altre. Sarà lei a guidarci in questo melò che ha un grande, innegabile pregio: fotografa fedelmente le donne come Elena e ci restituisce per un paio d’ore tutta la bellezza delle giovani spose che il cinema americano ha sfilato dal cilindro. Leggiadria e grazia, primi piani ovattati che danno al volto femminile i contorni del sogno. 
Precipitiamo piacevolmente nella vita della sposina, la grande casa piena di doni, il marito allegro e galante (Van Johnson, un vero fidanzatino d’America), arriviamo persino a godere di quelle cure paterne che continuano a circondare la protagonista. Il mondo di questa quieta mogliettina è anni luce dal nostro quotidiano: “Il mio unico pensiero quando mi sveglio è fare colazione, poi nulla fino a pranzo quando comunico ad Agnese (la domestica, ndr) ciò che prepareremo a pranzo e cena. Quindi aspetto che Carlo torni a casa dal lavoro e gli faccio trovare un aperitivo. Non ho altri pensieri, non ho nulla da fare”. Si rimane incantati ad ascoltarla, è una fiaba che arriva decisamente da un’altra dimensione.
Tuttavia, nella magnifica bicocca circondata dal giardino, si vive da reclusi e prigionieri. “Non affaticarti” è il monito che tutti ripetono a Elena da mattina a sera, temendo che il suo cuore malato non regga gli sforzi. Lei, cardiopatica da sempre, è cresciuta da brava figlia del medico Toynberry, orfana di madre, certa che la vita non le avrebbe mai serbato emozioni. “Io resterò zitella” aveva detto al padre, solo un anno prima, mettendo in dubbio la propria avvenenza e rassegnandosi al lento scorrere delle giornate, lontana dagli svaghi. Poi l’amore di un uomo, un amico di infanzia che mai era sembrato interessato alla povera piccola figlia del medico, ha rimesso ogni cosa in discussione. La fragile donna ha scoperto gioie ingombranti per un cuore malconcio e, con immenso orgoglio di suo padre, è convolata a nozze.
Così il giardino, lo stagno, le siepi fiorite e le vestaglie di seta sembrano gli angoli di una deliziosa cameretta dei giochi per la giovane donna.
Fino a quando l’amica Martha (Ruth Roman) insinua in quel quadretto idilliaco un atroce sospetto. Martha (nella versione originale Maud) è donna di tutt’altro stampo: fatale, arguta e piena di fuoco. Un contrasto che passa anche attraverso gli abiti – a tinte tenui quelli di Elena, neri e vaporosi quelli di Martha – per due amiche diverse in tutto. Nei modi e nella scelta delle parole, nel corpo e negli sguardi. A renderle identiche c’è soltanto l’ambizione di essere amate dallo stesso uomo.
Carlo, in origine, era legato proprio alla seducente e mondana Martha, ma infine ha sposato l’amica timida e malata che non poteva concedersi il lusso delle partite di tennis o i tuffi in mare. Così assistiamo impietriti al ritorno di Martha dal passato, messaggera di sventure, venuta a sbattere in faccia all’antica amica una profezia oscura: “Ti lascio Carlo per un anno e allo scadere dell'anno tornerò a prendermelo”.
È così che una minaccia lugubre spezza le gioie di una giovane sposa. Poco alla volta, in quello che appare come un puzzle diabolico, anche lo spettatore è in grado di far collimare i tasselli. Attorno ad Elena c’è un disegno preciso e lei, con le lunghe vestaglie e i sorrisi gentili, è l’unica a non essersene accorta. Il cuore, forse, le batteva troppo forte.
Gottfried Reinhardt, figlio del grande Max, esordisce come regista puntando tutto su questo melò con un buon cast e una trama per nulla scontata. Un lavoro modesto e ben fatto che sa intrattenere lo spettatore per ottanta minuti di intrighi e flashback, ricordando a sprazzi le atmosfere hitchcockiane de Il sospetto. 
La fragilità femminile appassiona. Sia questa Dorothy McGuire che la ben più celebre Joan Fontaine sposa di Grant nel film di Hitchcock, sono due ragazze cresciute in famiglia fino a “tardi” (il “tardi” dell’epoca). Innamorate dei genitori e desiderose di non deluderli vivono il matrimonio come un innocente tradimento dell’amore famigliare. Sono altresì appese a queste gioie coniugali, al rituale di benvenuto sulla porta quando i cari mariti rientrano a casa, alla salute delle rose in giardino e alla bellezza dei tendaggi. Eppure sconvolte dall’ipotesi di avere accanto un mostro ben diverso dall’uomo sognato.
Una sorta di silenziosa propaganda perbenista che sulle prime sembra incoraggiare le ragazze a restare in casa, sotto la solida ala di papà, immolandosi a monumenti di dedizione.
Ma infine è sempre l’amore vero a trionfare.
Dopo una serie di perfidi inviti al fallimento.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Invitation
Anno: 1952
Durata: 84'
Regia: Gottfried Reinhardt
Sceneggiatura: Paul Osborn
Attori: Van Johnson, Dorothy McGuire, Ruth Roman, Ray Collins
Musiche: Bronislau Kaper
Fotografia: Ray June

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PICNIC - L’America alla fiera

6/2/2017

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​Siamo in un grazioso paesino del Kansas, dove oggi la vita, fra le casette bianche dai piccoli giardini scompigliati, è ferma per un giorno di riposo. Il Labor Day, un unico lungo giorno che vivremo con gli occhi scanzonati di Hal Carter, spiantato e affascinante ragazzone (William Holden, più energico che mai), giunto in paese su un treno merci senza nemmeno una camicia addosso.
​Povero in canna ma disposto a rimboccarsi le maniche, Hal spera di ripescare il suo antico compagno di studi Alan Benson. Alan è figlio di un ricco industriale e ha ereditato senza troppi sforzi l’impero di cereali paterno: potrebbe facilmente rimediare un impiego per il vecchio amico Hal, figlio di un ubriacone e più volte capitato al centro di qualche grattacapo con la legge. Ma l’arrivo di Hal, in questo giorno di festa, sembra portarsi appresso aria di burrasca.
Accolto dalla signora Potts, una brava abitante del luogo ansiosa di preparare ghiotte merende per il forestiero, l’occhio di Hal non potrà fare a meno di cadere sul giardinetto attiguo: in quel fazzoletto d’erba e fiori si muovono inquiete alcune donne perfettamente intonate a quel quadro campagnolo a tinte vivaci. Flo Owens (Betty Field) rimasta sola ad allevare due figlie pestifere, la piccola Millie, impenitente maschiaccio e topo di biblioteca, e la superba Madge. Quest’ultima compare alla finestra intenta ad asciugare al vento una cascata di capelli biondo ramato: per lo spettatore, trovare il viso di Kim Novak fra le ciocche è una squisita sorpresa. 
In quella casa semplice dove si avvicendano liti fra signorine e cicalecci di macchine da cucire per confezionare abiti da ballo, vive anche una “rispettabile zitella”, la professoressa Sydney, interpretata da una caustica Rosalind Russell. Hal è piovuto dal cielo e quattro donne incredule spalancano gli occhi sul ragazzone a torso nudo, scuro di sole, arrivato chissà come il giorno della festa del lavoro. Festa che prevede, per tradizione, un grande picnic serale e l’elezione della più bella del paese.
Se da un lato cresce l’atmosfera di festa, dall’altro la tensione fa voce grossa: Hal, schietto e solare, sembra gettare benzina sul fuoco mai sopito dei vecchi rancori di paese; il suo fascino genuino e il suo rabbioso bisogno di essere sincero di fronte al prossimo aprono un solco nella vernice immacolata di una intera comunità.
Ogni maschera di rispettabilità crolla. Alan (Cliff Robertson) sembra propenso ad accogliere il vecchio amico, ma è cauto nel concedergli spazio e segretamente invidioso di quella forza fisica che ha fruttato ad Hal buoni risultati sportivi. L’industriale integerrimo e studioso si confronta con l’animale da soma sorridente e spensierato; fra i due si crea una netta frattura quando la bella Madge sembra preferire il secondo al primo. Sua madre Flo, frattanto, la frastorna con discorsi matrimoniali nella speranza che si conceda ad Alan a costo di perdere l’onore e diventi una vera signora agli occhi dei compaesani. La professoressa Sydney rivela una frustrazione bestiale, annidata fra le viscere, un disperato desiderio di maritarsi e un’instabilità ben dissimulata che talvolta dilaga spingendola troppo vicina alla bottiglia.
La lunga sequenza dedicata al Picnic è un vero e proprio affresco di impeccabile borghesia americana: angurie, balli, giochi e quadriglie, torte di mele fumanti, coretti e canti sguaiati, inni gloriosi, corsa nei sacchi e alberi della cuccagna. Tutto sorride, in questa cartolina azzurra di un Kansas rurale e industriale, dove un buon matrimonio organizzato pende sulla testa di ogni fanciulla come una spada di Damocle. Hal, senza smussare nemmeno un angolo del suo carattere e senza rinnegare un passato pieno di disgrazie, conquista il cuore di Madge e tenta di strapparla a un matrimonio conveniente quanto infelice. 
I due attori – qui illuminati da una bellezza raramente sfiorata in altri film – ci lasceranno attoniti a seguire i disegni ipnotici e quasi immobili delle loro danze notturne sulle rive del fiume. Un dramma di un giorno che capovolge le vite già decise di un gruppo di giovani, un Picnic che accende lanterne colorate e sentimenti scomodi.
Tratto dal testo teatrale di William Inge e vincitore di un Premio Oscar nel 1956, Picnic è un film che si potrebbe guardare all’infinito per lasciare che l’ordine venga scompigliato ancora una volta, per bearsi di una bella notizia, per respirare la ventata di freschezza di un uomo semplice in un piccolo mondo costruito a regola d’arte. Ci si emoziona sulle parole risolute della piccola Millie quando giura alla sorella “Finirò l’università e andrò a New York, scriverò romanzi che faranno uscire di sentimento la gente e non andrò a vivere in qualche città di provincia per sposare un uomo qualsiasi e allevare una nidiata di marmocchi”. Si sospira alla vista di queste donnine stanche di imposizioni e piene di amore doloroso, irresponsabile, autentico.
Con la certezza che non si possa amare una persona “perché è perfetta”, il film semina speranza nel cuore di chi sa guardarlo. Una seconda prova per il regista Joshua Logan (dopo il debutto nel 1938 con I Met My Love Again) magistrale ed eterna, che ancora oggi sembra sussurrare al nostro orecchio un buon consiglio.
Va a prendere la vita che desideri finché sei in tempo.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Picnic
Anno: 1955
Durata: 113'
Regia: Joshua Logan
Soggetto: William Inge (opera teatrale)
Sceneggiatura: Daniel Taradash
Fotografia: James Wong Howe
Musiche: George Duning
Attori: William Holden, Kim Novak, Betty Field, Rosalind Russell, Susan Strasberg, Cliff Robertson

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DONNE INQUIETE - All’improvviso, Robert Vaughn

15/12/2016

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Una fossetta sul mento e gli occhi scherzosi o impauriti, il cappello come western comanda o la giacca elegante. Un volto da grande e piccolo schermo, uomo con la pistola e miglior attore non protagonista: quella di Robert Vaughn è una carriera ricca di prove fra cinema e televisione, ma per molti il suo nome è legato a un paio di film soltanto. Forse non conoscevamo davvero quest’uomo con la brava stella sulla passeggiata più famosa di Hollywood, o forse abbiamo preferito innamorarci di alcuni dei volti che ci ha regalato senza pretendere di conoscerli tutti.
L'11 novembre il suo volto, i suoi personaggi conosciuti o ancora da scoprire, sono comparsi sui social unitamente alla notizia del suo decesso. Per chi lo ricordava bene, un’altra tacca luttuosa in questo 2016 che sembra falciare i grandi talenti senza tregua.
Per tutti gli altri, l’occasione per ricostruirlo attraverso i tanti film con Robert Vaughn che ancora non abbiamo visto.
Io l’ho ritrovato per caso fra le scene di un'opera che sembrava essermi sfuggita finora, nonostante la tematica trattata apparisse da subito vicina ai miei gusti: Donne Inquiete (The Caretakers), film del 1963 di Hall Bartlett.
I riflettori devono essersi spenti inesorabilmente su questo lavoro di Bartlett, liquidato da molti siti con qualche riga, debole abbozzo di una trama. Sembra che una lunga noncuranza si sia posata su questo dramma, nonostante il suo cast formidabile sfoderi una stella come Joan Crawford. E le sorprese non finiscono con lei.
Candidato all’Oscar per la miglior fotografia in b/n di Lucien Ballard, il film può contare su scene potenti, giochi di luce calibrati e un senso di angoscia dilagante, al punto che questa accuratezza nei dettagli finisce per sopperire a una trama che non è forse invecchiata nel migliore dei modi.
La netta divisione fra buoni e cattivi, in questa pellicola, rischia talvolta di lasciare perplesso lo spettatore. Presso l’ospedale psichiatrico Canterbury, luci e ombre sono ben definite: da un lato c’è il Dottor MacLeod (Robert Stack) uno psichiatra dalle idee innovatrici che lotta per promuovere nuove forme di terapia di gruppo, sbarazzandosi di lacci e strumenti di contenzione, inneggiando al dialogo. Dall’altro c’è la capo-infermiera Lucretia Terry, una vera regina delle camice di forza – chi meglio della Crawford avrebbe potuto impersonarla? – glaciale e inflessibile tiranna che addestra le giovani reclute a difendersi con le maniere forti. 
Questa allarmante inclinazione alle punizioni corporali sfocia persino in surreali lezioni di judo condotte da una Crawford in guaina nera e fisico di acciaio, decisa a tirare fuori prontezza e impeccabile tono muscolare dalle infermiere più giovani: insomma, è vera e propria autodifesa dalle pazienti e appare quasi eccessiva. Inoltre, il braccio di ferro logorante fra lo psichiatra gentile e illuminato e la tradizionalista sempre pronta ad assestare schiaffoni appiattisce ogni possibile sfumatura di carattere. I personaggi sono autenticamente buoni o irrimediabilmente cattivi, e solo alla fine del film si aprirà qualche lieve crepa nel muro dell’ostilità conservatrice. 
Il concetto altamente morale espresso dal titolo stesso, la voglia di prendersi cura di donne confuse ma ancora disposte a combattere, diventa vero messaggio dell’intero film, nel corso del quale saremo noi stessi ad affezionarci ad alcune pazienti. Dalla ninfomane sempre in vena di rispostacce volgari (Janis Paige), alla principessina schiava delle malinconie (Sharon Hugueny, qui bella come non mai), fino alla tenerezza di una attempata mamma di bambole (Ellen Corby, viso appassito e indimenticabile) e il ferreo mutismo di una ragazza sconvolta (Barbara Barrie). 
Ruolo di vera protagonista spetta a Lorna Melford (Polly Bergen), moglie rispettabile scivolata in un baratro emotivo dopo la perdita del figlio. Impossibile sorvolare sulla voce di Lorna nel doppiaggio italiano: gli amanti del genere riconosceranno subito Andreina Pagnani, la donna che diede un timbro immortale a Norma Desmond in Viale del tramonto e a molte altre eroine nere. 
Seguendo la vicenda di Lorna, che sta molto a cuore al Dottor MacLeod, conosceremo non solo la vita delle pazienti ma la quotidiana missione delle infermiere. Ancora una volta divise fra buonissime come Susan Oliver (che ameremo anni dopo in Star Trek) e spietate come Constance Ford.
In questo gineceo di donne che curano e donne che si rassegnano a farsi curare con la speranza che venga messa la parola fine alle scosse elettriche, ho dunque accolto con sorpresa l’arrivo di un uomo. Il signor Melford, sconfortato marito di Lorna, costretto a osservare il declino nervoso della donna che ama e puntualmente respinto da lei, fra urla e accuse. Robert Vaughn è quel volto: quello disperato e supplicante del giovane marito in visita che compare poche volte sullo schermo, con scatole di cioccolatini e inutili dichiarazioni d’amore.
Il Vaughn che abbiamo perso poche settimane fa era anche questo. Un versatile talento pronto a entrare in una clinica psichiatrica rincorrendo l’amore della moglie, una figura che scivola discreta nella pellicola di Bartlett per poche scene. Tenere, ben costruite, umane.
Potrebbe essere l’inizio di un’avventura per tutti: la riscoperta di un interprete che, senza mai fare troppo rumore, ha attraversato numerosi film ancora da vedere.
Oggi abbiamo un motivo in più per andare a cercarli.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: The Caretakers
Anno: 1963
Durata: 97'
Regia: Hall Bartlett
Sceneggiatura: Henry F. Greenberg
Fotografia: Lucien Ballard
Musiche: Elmer Bernstein
Attori: Robert Stack, Polly Bergen, Diane McBain, Joan Crawford, Constance Ford, Robert Vaughn

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SCANDALO AL SOLE - Spiaggette appartate

18/10/2016

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​“Vieni, da questa parte c’è una spiaggetta appartata”.
Questa proposta, nelle sue varianti, compare nel film circa ogni tre scene: abbiamo a che fare con un film pieno di piccoli luoghi d’amore.
Divertita e mai annoiata da quei colori un poco opachi, sono tornata a Pine Island per rivivere lo scandalo e gongolare sui visi raggianti di un vero campionario di bellezza. Bellissime creature, naufraghe emotive su un’isoletta che si rivela poco alla volta con roseti abbandonati, calette deserte e quelle piccole spiagge appartate dove l’inibizione viene meno. Richard Egan dal sorriso accecante, l’evanescente e lunare Dorothy McGuire schiava di uno sguardo triste e dolcissimo, quella prorompente Sandra Dee dalle labbra ciliegia e gli occhi da cerbiatta, innocente dea dell’amore, acerba e ubriaca di lunghi sospiri. E Troy Donahoue, il principe azzurro smaccatamente americano, immaturo seduttore, a volte così tragicamente inespressivo nella sua condanna alla bellezza impeccabile. Sono loro le pedine affascinanti di un gioco scandaloso ed è alle loro peripezie che ci si appassiona, perdonando qualche risvolto che oggi appare davvero troppo banale pur raccontando l’immaginario di un’epoca.
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Due famiglie si ritrovano su un’isola calda di sole e pulsioni represse: gli Hunter, decaduti albergatori ancorati a un fastoso passato ormai scolorito e gli Jorgensen, nati nella polvere, fatti da sé e ora pronti a riscattarsi apparendo a bordo del loro yacht. Una vacanza tesa, quella del capofamiglia Ken Jorgensen (Egan) tornato all’isola dove ha lavorato come bagnino nel suo nuovo ruolo di uomo piacente e benestante con la stupenda figlioletta Molly al seguito (Dee) e l’irritante moglie Helen al braccio (Constance Ford). Un mese di vacanza al vecchio hotel Hunter dove Sylvia lavora ancora, la stessa Sylvia che Ken ha amato da ragazzo. Quest’ultima sorregge a fatica il peso di un matrimonio sbagliato e ha come unico affetto il bellissimo figlio Johnny (Donahue). E se fino a qui siete riusciti a ricostruire il puzzle di amori intrecciati, sappiate che la vera difficoltà sorge ora. Ora che la piccola Molly si lascia condurre a spasso per l’isola dal bel Johnny. Ora che l’affranta Sylvia scivola di nuovo fra le braccia di Ken. 
Un doppio amore clandestino, quello di figli e genitori che sembrano trovare su Pine Island la dimensione del sogno e dell’incoscienza, il sapore delle passioni perdute. A gettare ombra su entrambi i lieti idilli è Helen, mostro di snobismo e aridità, intollerante e razzista, dispotica e vendicativa: Delmer Daves regala allo schermo una delle peggiori madri cinematografiche di sempre. Terrorizzata dal sesso e ossessionata dalla nettezza dei costumi, castiga la figlia e le riserva le più crudeli punizioni cercando di reprimere una spigliata vitalità, una sana freschezza e una curiosità romantica verso l’amore. Helen è l’unica grande antagonista dalle primissime scene alle ultime: con i suoi eleganti cappotti, il viso arcigno, le sentenze spietate e le soporifere prediche puritane attira su di sé immediate antipatie.
Di sesso, appunto, si vuole parlare in questo ambizioso lavoro infarcito di spiaggette dove baciarsi in segreto. Il sesso ovviamente censurato eppure propugnato silenziosamente al pubblico – il pubblico dell’epoca, che immaginiamo ben più trasognante di quello attuale – assume una valenza rivoluzionaria. Per Molly e Johnny tenersi stretti è tanto importante che poco importa se rischiano di scontrarsi con gli scogli in mare aperto; il loro insaziabile desiderio di baciarsi li spinge come banderuole nell’occhio di un ciclone materno assai pericoloso. Ad ogni sconfitta dei due giovani amanti segue un momento musicalmente perfetto in cui la loro esigenza di appartenersi – anche fisicamente – prenderà il sopravvento. 
Così da un lato i ragazzi combatteranno per spezzare le catene dei falsi moralismi e dall’altro Ken e Sylvia, pur facendo parte del mondo adulto, non sapranno trattenere la passione e diventeranno simili ai loro figli nel giro di un’estate. L’amore è la grande livella del film e con lui il sesso: rende ogni personaggio incapace di dominare le emozioni, accomuna e travalica ogni ostacolo. Forse un tentativo troppo ardito da parte di Daves, un cult che oggi trova una nuova dimensione ai nostri occhi strizzando vagamente l’occhio alla telenovela.
Perché allora scandalizzarsi ancora sotto il sole?
Per due validi motivi. La musica superba e vibrante di Max Steiner che alterna umori ed esagera magnificamente con i violini, un tappeto morbidissimo sul quale i bei corpi sotto il sole trovano rifugio.
E poi per Sandra Dee, icona assoluta di purezza, adolescente da grande schermo, visetto pulito, labbra irresistibili. I bronci di un’eterna ragazzina immortale, le sue corse lungo la spiaggia e la testolina di capelli corti, ricci, soffici, che si scompigliano al vento.
Così felice sullo schermo, così triste nella vita.
Così tanto che Scandalo al sole, oggi, appare davvero come un film distante anni luce dalla realtà.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: A Summer Place
Anno: 1959
Durata: 130'
Regia: Delmer Daves
Sceneggiatura: Delmer Daves
Fotografia: Harry Stradling
Montaggio: Owen Marks
Musiche: Max Steiner
Attori: Sandra Dee, Troy Donahue, Richard Egan, Dorothy McGuire, Constance Ford

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SABRINA - Abiti eleganti

22/8/2016

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Non posso certo parlare di delusione, forse soltanto di un timido disincanto. Di un sorriso per me stessa. Di un senso di cambiamento che ha sempre l’ultima parola.
Sabrina, fra tutti i film vintage visti in questi anni, è quello che più mi ricorda la magica eccitazione di una vita fa: ero una bambina quando vedevo la splendida Audrey Hepburn scivolare nel giardino e spiare il suo amato, fra le siepi, inarcando il collo da cigno. Una scena magica che subito rimanda all’atmosfera dell’intero film, a quel senso di purezza e candore che appartiene a Sabrina – povera, innocente, sognante Sabrina – e la consacra a eterno splendore.
A quei tempi ero rapita dalla favola ed è una sensazione che rammento molto bene. Anni dopo, capitando davanti alla stessa favola, sorrido di me stessa. E non posso certo parlare di delusione, forse è solo un timido disincanto per davvero.
Romanticismo senza compromessi in questa vicenda eccessiva, parigina e americana, dolcissima, in effetti un po’ stucchevole che Wilder regala a un pubblico chiaramente più femminile che maschile.
Sabrina ha un cruccio ed è quello a emozionare le bambine di ogni epoca: si è invaghita del giovane Larrabee, ma lui ha per le mani qualche bionda mozzafiato e non la considera nemmeno per errore. Per questa giovane e già molto intensa Audrey Hepburn, castigata in abiti sempliciotti, ogni scusa è buona per scivolare in giardino durante le feste dei padroni di casa. Lei, figlia dell’autista dei Larrabee, può vedere le meraviglie solo da lontano: le va a cercare con i grandi occhi lucenti fra le foglie, nel buio, godendo della musica che arriva a ondate e sognando ad occhi aperti mentre altri – quegli adulti, eleganti, sconosciuti altri – festeggiano dietro una vetrata. 
Sabrina non è invitata al ballo e ci sono poche possibilità che il rampollo David Larrabee (un affascinante William Holden, perfetto nel ruolo del cascamorto) si accorga della testolina arruffata che lo spia giorno e notte. Una Cenerentola con il cuore stretto e piccino, così infelice da arrivare persino a tentare il suicidio per amore, con drammaticità vera e risultati fallimentari. A sventare la sua teatrale uscita di scena è il fratello maggiore di David, Larry, interpretato da un tenebroso Humphrey Bogart, a suo agio nella parte dell'uomo d’affari di poche parole. È radicalmente diverso e ben contrapposto alla disarmante leggerezza del fratello minore; i due personaggi maschili denotano indubbio talento e sanno palleggiare con sapienza dialoghi vivaci. Così c’è David, figliol prodigo tutto sorrisi e galanterie. E Larry, imbronciato e tutto preso dagli impegni di lavoro.
Al centro c’è l’incompresa Sabrina e il suo bisogno di lasciare i panni di bambinetta goffa per sbocciare in una splendida donna: un viaggio a Parigi per frequentare una scuola di cucina sembra offrirle l’occasione per mutare in farfalla.
La parentesi parigina mi piacque molto anni fa e riconfermo massima preferenza per quel passaggio del film dove un eccentrico cuoco, con tanto di torre Eiffel che ammicca alla finestra e baffetti impomatati, dà istruzioni agli aspiranti chef della scuola d’alta cucina. Scuola che Sabrina frequenta con passi falsi e incertezze, con piccoli pasticci e soufflé che si sgonfiano all’improvviso. Tuttavia, consigliata saggiamente da un anziano gentiluomo divenuto suo amico, la sfortunata figlia di autista cambia pelle.
Genesi di una favola: un brutto anatroccolo capita nella città più chic del mondo e rivoluziona la propria immagine. Quando l’insipida Sabrina torna a Long Island è una signorina di classe e David, puntualissimo, cade nella tenera trappola del suo fascino studiato. Sarà lui ad aggiudicarsi il suo cuore? O forse l’ombroso fratello Larry, sotto la maschera corrucciata di Bogart, è il vero principe azzurro?
Una commedia romantica che delizia per la leggerezza della trama, che si riguarda a distanza di anni senza smettere di sorridere per l’abilità di Billy Wilder nell’accostare personaggi diversi e dare spazio alle loro speranze. Saranno gli abiti eleganti comprati a Parigi a garantire a Sabrina l’ambito titolo di “donna”? Sarà il taglio di capelli alla moda ad assicurarle l’amore?
Il disincanto scalcia per rispondere.
Wilder incaricò la Hepburn di cercare abiti adeguati al film, previe dritte di Edith Head. L’attrice comprò i modelli suggeriti nelle boutique parigine, da Balenciaga ad Hubert de Givenchy, una carrellata di magnifici abiti che hanno emozionato generazioni di ragazze “figlie di autista”. Anche oggi, vedendo la Hepburn fasciata dal vestito bianco di organza ricamata, sfugge alle labbra un sospiro. “Che bello, come le dona”. Nel 1955 un Premio Oscar per i migliori vestiti ricompensa la Hepburn (e Wilder) per la scelta azzeccata del guardaroba.
Così, davanti a Sabrina, tanti anni dopo, si chiede al disincanto di tenere la bocca chiusa ancora per un po’. Quel tanto che basta a credere alla strana, zuccherosa, spiritosa vicenda della figlia d’autista vestita di organza.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Sabrina
Anno: 1954
Durata: 113'
Regia: Billy Wilder
Soggetto: dal lavoro teatrale “Sabrina Fair” di Samuel A. Taylor
Sceneggiatura: Samuel A. Taylor, Billy Wilder, Ernest Lehman
Fotografia: Charles Lang
Musiche: Frederick Hollander
Costumi: Edith Head e (non accreditato) Hubert de Givenchy
Attori:: Audrey Hepburn, Humphrey Bogart, William Holden, Walter Hampden, Martha Hyer

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LA VERITÀ - Ballando nuda

25/7/2016

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Nel 1951 la Francia inorridisce davanti al caso di una ragazza, bellezza glaciale e altezzosa. Il suo nome è Pauline Dubuisson. Definita dalla stampa l’orgogliosa sanguinaria, Pauline si è macchiata di una colpa terribile: ha sparato al suo ex fidanzato Félix e l’ha ucciso. Un caso di cronaca nera che nel 1960 approda alle mani di Clouzot e conosce il grande schermo: a impersonare la gelida Pauline dai capelli bruni c’è un’esplosiva Brigitte Bardot e anche la storia subisce radicali modifiche.
Potremmo dire che La verità non racconta affatto la verità sul caso Dubuisson, ma è un magnifico film che indaga la psiche umana e si pone a metà strada fra il dramma e il film legale arricchendo, scrutando ed esaltando una storia di torbidi istinti.
Siamo in un’aula di tribunale dove si giudica la più affascinante delle creature e, secondo l’opinione francese, la più diabolica: Dominique Marceau (Brigitte Bardot), accusata di aver ucciso quel Gilbert Tellier che ha sostenuto di amare in passato. L’avvocato Eparvier (Paul Meurisse) si batte per difendere l’assassina dai lunghi capelli biondi; gli rende la pariglia un agguerrito avvocato Guérin (Charles Vanel). Il loro confronto verbale, acceso e ficcante, è la solida struttura del film.
Dominique compare in aula castigata in abiti insolitamente sobri, capelli legati e grandi occhi impauriti: sta a lei ripercorrere i fatti attraverso lunghi e appassionanti flashback; difficilmente guadagnerà consensi fra i giurati e anche il pubblico sarà indotto a guardarla con sospetto. Questa indomabile creatura ha le sue colpe, ultima non per importanza quella di aver estratto una pistola dalla borsetta facendo fuoco su un promettente direttore d’orchestra. Ancora più schiacciante, tuttavia, è la sua responsabilità morale nei confronti di Gilbert Tellier, ragazzo che l’ha ciecamente amata e ha subito nel tempo i peggiori trattamenti da parte sua.
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A chi appartiene Dominique?
​
A nessuno e forse anche per questo la società si schiera con Gilbert. Appartiene alle compagnie sbagliate, ai locali chiassosi di una Francia anni Sessanta che scalpita per ballare. Appartiene alle scollature audaci degli abiti che indossa, al primo che le offre una sigaretta o la riaccompagna a casa, a chi gioca con lei al gatto e al topo al tavolo di un bar e poi fra le lenzuola. 
Sfacciata, disinibita, provocatoria, la ragazzina infelice fuggita dalla famiglia di Rennes ha trovato rifugio fra i coloriti personaggi della Rive Gauche. Attorno a lei ruotano bizzarri scrittori, intellettuali e perdigiorno incalliti, una strampalata famiglia adottiva che campa di sogni, radio accesa, sigarette e bagordi notturni. Tutt’altra realtà rispetto a quella che ha scelto la sorella Annie Marceau (Maria-José Nat) promettente violinista da sempre prediletta di mamma e papà. 
In Dominique emerge l’aspetto umano, verso il quale possiamo soltanto sentirci empatici, e appare l’essenza puerile e immatura, in netto contrasto con la conturbante fisicità. Attira così il giovane e insicuro Gilbert (Sami Frey) nella sua trappola frivola e carnale; il regista non esita a catturarne la sintesi suprema nella scena che vede B.B. ballare per casa nuda e ammiccante al suono di Yo tengo una muneca, sotto gli occhi increduli del timido direttore d’orchestra. I due vivranno un amore eccessivo e tumultuoso all’insegna di scoppi d’ira, tradimenti e ritorni di fiamma, una storia dove Dominique sembra stare scomoda, non riuscendo a dimostrarsi seria e fedele nemmeno quando ci si mette d’impegno: se Gilbert sogna l’altare e la tranquillità domestica, lei non si sottrae alle attenzioni di altri ragazzi ed è avvezza a clamorosi colpi di testa. 
Il loro amore è ben racchiuso dalle note di quell’Uccello di Fuoco di Stravinskij che Gilbert dirige in sala prove, sotto gli occhi (spesso annoiati) della bellissima fidanzata. Quando il ragazzo si legherà sentimentalmente alla sorella Annie, il mondo di Dominique si sgretolerà portandola all’ossessione prima romantica, poi omicida. L’ingrato compito dei presenti in aula e del pubblico è quantificare l’innocenza di una bambina complicata, una Circe involontaria dai nervi a pezzi.
Terminate le riprese B.B. tentò il suicidio, quasi calcando le gesta della protagonista del film, dopo la lunga pressione nervosa subita sul set: un lavoro lungo e sfiancante per l’attrice che più volte si è scontrata con il severo Clouzot e ha cercato di perfezionare la sua Dominique Marceau con meticolosità. 
Il risultato è un lavoro ineccepibile, una prova attoriale difficilmente superabile, una storia che attinge al reale e si smarrisce altrove. In quel folle affresco di personaggi tormentati da pulsioni, fra melodie classiche e ritmi da jukebox, fuori e dentro un letto dove ancora ci sembra di vedere la bella B.B., che si arrotola al lenzuolo ancheggiando su Yo tengo una Muneca e strizza l’occhio maliziosa al ragazzo che un giorno ucciderà.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: La verité
Anno: 1960
Durata: 122 minuti (edizione originale), 110 minuti ca. (edizione italiana)
Regia: Henri-Georges Clouzot
Sceneggiatura: HG Clouzot, Véra Clouzot, Simone Drieu, Jérôme Géronimi, Michèle Perrein, Christiane Rochefort
Fotografia: Armand Thirard
Montaggio: Albert Jurgenson
Attori: Brigitte Bardot, Sami Frey, Charles Vanel, Paul Meurisse, Marie-José Nat.

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L'ANGELO DEL MALE - Notturni e proibiti

30/6/2016

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​Questo film è respiro, pur accogliendoci sin dalle prime scene con il carbone incandescente di una sala fuochi di locomotiva. Eppure è ossigeno quello che Jean Renoir ha saputo dosare fra una scena e l’altra, in una campagna francese per nulla stilizzata ma vaporosa, calda, grassa di rumori e doveri, abitudini e piccoli alloggi.
Quello di Renoir non è soltanto un treno diretto a Le Havre, ma un viaggio fra le abitudini dei ferrovieri francesi: abituati a guadagnarsi la pagnotta lottando contro le viscere arroventate delle locomotive, ancora capaci di ritagliarsi qualche momento per ballare e bere un bicchiere, franchi e schietti, uomini semplici che a notte fonda si confortano con un po’ di prosciutto e un uovo fritto. Come Lantier (Jean Gabin, di un’intensità come sempre insuperabile), un fuochista dal viso fuligginoso che porta a spasso colei che definisce la sua unica vera compagna: Lisa, una bella e capricciosa locomotiva dai cilindri tendenti al surriscaldamento. 
Per Lantier e il collega Pecqueux (Carette) la vita è un andirivieni frenetico fra Parigi e Le Havre sopra draghi di ferraglia sbuffante, arrabattandosi per un pasto e una buona dormita: se Pecqueux è sensibile al fascino delle fanciulle, Lantier è intimamente tormentato. All’apparenza bonario e sereno, è in lui l’ombra terribile di un’eredità famigliare, quella dell’alcolismo, che per generazioni ha sconvolto la mente dei suoi predecessori. 
L’uomo intende sfuggire a quel retaggio, tenta di soffocarlo ma vive sul ciglio di un precipizio nervoso. Soffre della “sua tristezza”, qualcosa che lo isola dal mondo e gli fa fremere le mani ogni volta che una donna appare sul suo cammino. Uno come Lantier non può arrendersi all’amore, quelle sue pericolose mani sembrano incapaci di carezze e l’impulso omicida vive nella profondità del suo sguardo chiaro. Nessuna donna può avvicinarlo, eccettuata Sevérine.
Sevérine (Simone Simon) è una gatta vestita di nero, occhioni innocenti e musetto infantile; le sue labbra dagli angoli all’insù regalano sorrisi dolcissimi, è poco più che una ragazzina ma fa di tutto per apparire raffinata e seduttiva: ha sposato Roubaud (Fernand Ledoux), un vice capostazione avanti con gli anni e morbosamente geloso della piccola moglie perfetta. La vita dimessa della coppia stona con i modi affettati e l’eleganza di Sevérine: gli alloggi appaiono spogli e impersonali e la moglie giovane, annoiata, passa il suo tempo in casa coccolando un gattino. Quando Roubaud, folle di gelosia, scopre un prevedibile tradimento coniugale trascina Sevérine nel baratro dell’omicidio: l’amante va eliminato, i due lo uccidono a bordo di un treno.
Un piano folle e perfetto, se non fosse per la presenza di Lantier nel corridoio del vagone fumatori. Il meccanico dalla mente sconvolta diventa testimone di un’azione omicida e Sevérine, femme fatale di dubbia moralità, non esita a ingraziarselo.
Questo film diventa così un treno pericoloso, un treno che solca la Francia vera e popolare – quella che continuiamo a respirare con massimo piacere – ma svela via via ombre inquietanti. Il triangolo fra la bella sposa bambina, il meccanico turbato e il marito geloso è pura geometria della suspense; ci si abbandona all’intreccio di scene sul filo del rasoio. 
Lantier non può amare nessuna donna, ma per Sevérine farà un’eccezione: il loro amore clandestino è baci rubati sotto la pioggia, appuntamenti proibiti fra le rotaie fino al picco di passione che ha luogo su un vagone vuoto, di notte. La liason romantica è rischiosa, azzardata e spesso troppo vicina agli occhi furibondi di Roubaud. Quest’ultimo scende verso un abisso di degrado umano, abbraccia l’annullamento di ogni nobile principio e il demone ispiratore di questa tetra metamorfosi è una minuta, meravigliosa dea. Vittima di un marito oppressivo eppure carnefice spietata, Sevérine sembra gettare nel fango ogni uomo che l’avvicini in una disperata corsa su rotaie scottanti.
Tratto da La Bestia Umana di Zola il film si apre con una citazione del romanzo, poche righe efficaci che riassumono la disperata condizione di Lantier. L’uomo, perseguitato dagli errori di padri e nonni alcolisti, tenta sino all’ultimo di affrancarsi e cede a una mente sconvolta, mente che infine trionferà sui sentimenti. Bestie umane, quelle che Renoir racconta nel 1938, divenendo ispiratore per un successivo lavoro di Fritz Lang. Nel 1954 le bestie sul set saranno Glenn Ford e Gloria Grahame, mentre in questa prima versione Gabin e la Simon restano scolpiti nella nostra memoria, coppia indimenticabile e ben assortita nell’oscuro dramma alle porte del Neorealismo.
L’incursione in questa Francia di duro lavoro è ossigeno nella sua semplicità e veleno nelle sue sfumature segrete. Il cuore resta appeso agli uomini dal volto annerito, aggrappati alla velocità dei treni e schiavi degli orologi di stazione, abituati a saltare da un capo all’altro del paese stringendo tenere amicizie, incrociando sguardi.
Talvolta pericolosi.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: La bête humaine
Anno: 1938
Durata: 100'
Regia: Jean Renoir
Soggetto: Émile Zola (romanzo)
Sceneggiatura: Jean Renoir
Fotografia: Curt Courant
Musiche: Joseph Kosma
Attori: Jean Gabin, Simone Simon, Fernand Ledoux, Juliene Carette, Colette Régis

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BUNNY LAKE È SCOMPARSA - I nascondigli dei bambini

7/6/2016

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Odierete quella scuola, il trambusto della fine delle lezioni. Saranno momenti di ansia allo stato puro, momenti che passerete con gli occhi fissi sullo scalone che rigetta all’esterno un’orda di rumorosi bambini. Nella calca si perdono i discorsi delle mamme, è il primo giorno di scuola e la fila di donne sta composta ad aspettare i piccoli: c’è un bimbo che ha perso i calzini e un altro che è proprio una peste, ci sono madri che salutano e se ne vanno, la scuola che si svuota e una donna angosciata che resta sola nell’atrio e ancora guarda verso lo scalone torturandosi le mani. Sua figlia Bunny non è uscita dalla classe. Bunny Lake è scomparsa.
Inizia così un incubo dai ritmi serrati, un gioco al massacro di domande intrecciate, l’inseguimento più doloroso, l’indagine più ingrata: Anna, una ragazza madre emotiva che può contare unicamente sull’aiuto del fratello, ha perso la sua bambina. Noi tutti l’abbiamo persa con lei, in quella scuola inglese fredda e del tutto nuova dove cuoche e maestre sembrano aver stretto un ferreo patto del silenzio. Bunny Lake? Nessuno l’ha vista, nemmeno l’attonito pubblico che tenta di darle un volto ascoltando le descrizioni della madre (Carol Lynley) in lacrime. Quattro anni, bionda, si chiama Felicia ma tutti la chiamano Bunny.
La scuola stessa si rivela un tortuoso covo di serpi, svela meandri agghiaccianti e una cupa soffitta dove una vecchia professoressa in pensione – eccentrica e spaventosa – vive fra insane fantasie del passato, registrando la voce dei bambini per analizzarne i comportamenti. Mentre la donna si aggira fra le piante del suo appartamento chiamando Bunny come fosse un cagnolino, Anna capisce che nessuno potrà darle appoggio nella ricerca. “Andiamo a caccia!” le dice la vecchia signora sogghignando; subito un brivido s’impone alle nostre schiene.
In questo dedalo non c’è nessuna bambina, soltanto specchi deformanti e figure spettrali che si affollano attorno a una madre disperata. L’ispettore Newhouse (Laurence Olivier, non più giovanissimo e più che mai imperioso) interviene per fare luce sul caso; il suo arduo compito è credere a questa donna fragile che grida “hanno rapito mia figlia!” in un mondo che sostiene di non averla mai vista. A tratti il nascondino si fa più incalzante. “Fuochino” sembra sussurrare la piccola Bunny nascosta nelle mille stanze dell’edificio. Eppure ogni volta, per quanto ci sembri di esserle passati accanto, si rimane con un pugno di mosche in mano.
Bunny Lake è scomparsa davvero e un nuovo, logorante dubbio pianta il suo seme dentro di noi: siamo certi che questa bambina esista?
Anna è una madre a pezzi e del suo passato si scorge ben poco. L’Inghilterra benpensante dell’epoca sembra accusarla continuamente – “Che ne è del padre?” – e la donna si fa piccola dietro un imbarazzato “Figlia illegittima”. Un tema scottante per quella Londra di rigide formalità, un elemento che accresce la confusione attorno alla bambina bionda senza volto.
Veniamo sbalzati dalla nuova scuola alla nuova casa di Anna e Bunny, luogo dove si sono appena trasferite e dove la polizia cerca instancabilmente una pista da seguire. Anche Horatio Wilson (padrone di casa, importuno e spaventoso scrittore con passioni sadomasochiste) irrompe in scena per buttare benzina sul fuoco: è un bizzarro topolino d’appartamento che viola senza riguardo l’intimità delle inquiline appena arrivate, aggirandosi in casa a suo piacimento. Cosa vuole quello strano ometto? È forse lui ad aver rapito la piccola?
Una domanda s’impone su tutte: dove sei nascosta, Bunny Lake? Perché anche lo zio Stephen (Keir Dullea), figura rincuorante sin dalla prima scena, non sembra scomporsi davanti alla tua sparizione? Cosa si agita nell’abisso umano di Anna?
Un film atipico di orrore psicologico, dove a un ricco serraglio di freaks si aggiungono location come l’ospedale delle bambole e i suoi cento occhi di celluloide sbarrati. Otto Preminger non lascia nulla al caso, e dissemina il percorso di tremende briciole di pane. Anna e Stephen si dimenano all’ombra di un ricordo: quello dei loro giochi d’infanzia, quello degli amici immaginari e di quanto è rimasto sepolto nella loro psiche. Si trattiene il fiato ogni volta che la soluzione si avvicina, si sospira per ogni buco nell’acqua.
L’ansia materna ci viene gettata addosso da un Preminger incattivito, in un film che risuona di echi hitchcokiani e non esita a snervarci con motivetti musicali infantili, carillon e incontri raccapriccianti, in un'Inghilterra algida ma pervasa da musiche nuove e sete di cambiamenti, di sonorità inesplorate fino a quel momento, come la canzone di The Zombies trasmessa in un locale dove Anna si reca nel corso delle ricerche.
Odierete quella scuola e non potrete buttarvi facilmente alle spalle un film come questo. Vi porrete quella tragica domanda, molte volte.
Bunny Lake è scomparsa?
Perché, in fondo, non siete certi che esista.
Non l’ha vista nessuno, d’altronde.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Bunny Lake Is Missing
Anno: 1965
Durata: 107'
Regia: Otto Preminger
Sceneggiatura: Marryam Modell (romanzo), John Mortimer, Penelope Mortimer
Montaggio: Peter Thornton
Attori: Laurence Olivier, Carol Lynley, Keir Dullea, Martita Hunt, Anna Massey

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