ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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VENEZIA 72 - Tempête, di Samuel Collardey

28/9/2015

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A sette anni dal suo lungometraggio d'esordio, L'Apprenti, interessante fotografia di un percorso di formazione, Samuel Collardey ha presentato a Venezia 72 nella sezione Orizzonti il delicato e intenso Tempête, racconto che ha come fulcro la figura di un uomo e di un padre, Dominique Leborne (protagonista nella visione filmica e nella realtà, alla sua prima e ben riuscita prova attoriale), che a sua volta ha a cuore come centro totalizzante e finalizzante del suo essere il legame con i due personaggi secondari (ma con ruolo chiave), Maylis e Mattéo, anch'essi interpreti di se stessi nonché suoi veri figli nella vita. 

Dominique, 38 anni, è un pescatore di Les Sables d'Olonne, cittadina della Loira nella Francia Occidentale. Si trova a scontrarsi contro gli scogli di una situazione difficile, a causa di un avvenimento destinato a lasciare il segno e incrinare gli equilibri delicati che fino ad allora avevano costituito le dinamiche portanti del nucleo familiare. A un anno dalla separazione con la moglie, vissuto con i due figli adolescenti di cui ha ottenuto l'affidamento in quanto loro stessi hanno scelto di rimanere con lui, Maylis rimane incinta. Le circostanze che prenderanno forma in seguito, e il rendersi conto della sua assenza in un momento fondamentale e cruciale per la figlia, danno il via a una serie di decisioni esistenziali che lo porteranno a mettersi totalmente in discussione con se stesso e ad affrontare scelte stravolgenti, fino a lasciare l'unico lido in cui da sempre si sono annidate le sue sicurezze: il mare. 

L'uomo che fino ad allora è stato un padre/amico e che ha convissuto momenti e situazioni propri di un passaggio adolescenziale insieme ai figli, ma pur sempre con l'autorevolezza di un adulto, dimostra di saper fronteggiare il cambiamento con la stessa forza e atteggiamento con cui ha sempre contrastato la durezza di quel mare che l'ha plasmato e forgiato fin dall'infanzia. Assumendo tutte le conseguenze che derivano dalle sue decisioni, frenate dalle ristrettezze economiche e dettate dalla finalità di essere più presente nella vita dei figli, Dominique prova comunque a mantenere solido il legame con loro, dando prova di grande dignità e coerenza, nonostante comprensibili e umane mancanze e difetti, affermando così la sua capacità di offrire a tinte sfumate coraggio, trasporto e tenerezza.
A fare da sfondo, su tutto, rimane sempre l'Oceano Atlantico, altro protagonista principale e punto fermo dell'esistenza di Dominique, a decidere delle sue sorti come una figura fondamentale che impone la cadenza a tutta la vicenda, intervallando le soste a terra in cui prendersi cura dei figli e condividere momenti di vita quotidiana a suggello del loro rapporto e le lunghe, obbligate e dure settimane in mare in cui dover far fronte alle sue responsabilità. A lasciare intendere ancora una volta che, così come è l'uomo a doversi piegare alle sue imperturbabili leggi e ad adattarsi ai suoi ritmi per vivere e sopravvivere, così deve saper fare anche con la vita. Dominique deve accettare il cambiamento, senza opporre resistenza per non essere travolto dalle onde del destino, che altrimenti lo risucchierebbero inesorabili nei loro gorghi portandolo al largo e facendogli perdere di vista la spiaggia, investita del significato di ciò che assume realmente importanza nella vita e di ciò che resta veramente: gli affetti più cari.

Il terzo lavoro di Collardey non smentisce le caratteristiche che hanno contraddistinto il progetto delle sue precedenti opere, riproponendone la stessa efficace e ben riuscita matrice, funzionale all'intento estetico e di messa in scena perseguito dal regista. Sovrapponendo una miscellanea di elementi estratti ed elaborati dalla vita reale e facendo sfumare il confine tra documentario e fiction, Collardey ottiene il risultato di trasmettere con immediatezza empatica (benché senza picchi emotivi durante tutta la narrazione) le sensazioni che transitano dagli occhi del protagonista allo spettatore, riuscendo con efficacia a coinvolgerlo e renderlo partecipe in modo diretto, con uno stile privo di orpelli e fronzoli inutili. Una scelta derivante proprio dalla ricerca di semplicità e verosimiglianza con la realtà.
Come il cineasta ha affermato durante la conferenza stampa veneziana, da tempo desiderava fare un film sulla pesca insieme alla sceneggiatrice Catherine Paillé, che è originaria proprio di Les Sables d'Olonne, dove è ambientato il film. Quando ha conosciuto Leborne ha subito capito che era la persona che cercava. Dalla situazione e dall'esperienza che ha avuto con i figli del protagonista è stata tratta la sceneggiatura, attingendo i dialoghi direttamente da frasi e comportamenti che l'uomo ha nella realtà. Collardey racconta di aver vissuto in casa di Dominique e di aver seguito la sua vita, a cominciare dal suo lavoro sopra il peschereccio, estrapolando il materiale interessante che emergeva e consegnandolo alla sceneggiatrice, girando di volta in volta anche filmati di stile prettamente documentaristico da inserire nel lavoro.
Tutti e tre i protagonisti si sono rivelati più che all'altezza della loro prova attoriale d'esordio, pur brillando senza dubbio sulle altre quella di Dominique Leborne, vincitore del premio come miglior attore nella sezione Orizzonti (foto in alto a sinistra). L'interprete si è commosso in sala al termine della proiezione del film, di fronte a un pubblico che lo ha applaudito per lunghi minuti.
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Da ricordare anche, per chiudere con una nota di tenerezza e confermare il timbro con cui sono state effettuate tutte le riprese, le considerazioni di Collardey sulle motivazioni che hanno spinto in particolare la figlia sedicenne di Leborne a calarsi nel ruolo di stessa davanti allo schermo, con effetti e risvolti sorprendenti poi anche nella vita: “Quando abbiamo cominciato le riprese, il rapporto tra Dominique e la figlia non era dei migliori. Vi era una crisi di fiducia e i due si stavano allontanando. Lei alla fine ha accettato per due motivi: se rinunciava ero costretto a chiamare un’attrice a recitare la sua vita, questo era il primo motivo; il secondo era legato al fatto che parlare della propria vita a delle persone davanti a una macchina da presa consente di dire cose che si fa fatica a dire in faccia. In pratica, in questo modo, sono riuscito a farli riavvicinare”.

Amanda Crevola

Sezione di riferimento: Venezia 72


Scheda tecnica

Titolo originale: Tempête
Anno: 2015
Regia: Samuel Collardey
Durata: 89'
Sceneggiatura: Samuel Collardey, Catherine Paillé
Attori: Dominique Leborne, Matteo Leborne, Mailys Leborne
Fotografia: Samuel Collardey
Montaggio: Julien Lacheray

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VENEZIA 72 - Il palmarès: giudizi e canti funebri

15/9/2015

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Ci abbiamo messo un po’, a metabolizzare (mentalmente e fattualmente) il decorso, in retrospettiva a breve distanza, di questa edizione 72 della Mostra del cinema veneziana e, soprattutto, a ripensare ai risultati effettivi il più oggettivamente possibile. 
Cercando di tenere da parte cuore, pancia e cinefilia – quest’ultima indissolubilmente legata a ogni (pre)visione – il nostro spirito critico impone una parziale spietatezza che non si regala facilmente a un oggetto d’amore. Provando un sintetismo che concentri queste due settimane, ciò che rimane è un senso di delusione, per aspettative nemmeno troppo alte perdutesi tra i posti a sedere e una cerimonia di chiusura avvilente in quanto a frutti (fin troppo eclatanti, considerato l’evidente spirito nazional-popolare di un Alfonso Cuaròn simpatico e disinibito) e indegni silenzi. 
Silenzi e disabilità nei confronti di quei rari, sprazzi di genio non colti che la rassegna, quando tutti s’erano abituati all’idea di sorprese che non sarebbero arrivate, ha infilato, ricordandoci cos’è essere un regista e fare del Cinema con l’immenso lavoro di Skolimowski, 11 Minut e l’ottima sorpresa di Zhao Liang, Behemoth. Per quanto Sokurov e Gitai abbiano – entrambi parzialmente – deluso con opere non all’altezza delle precedenti, viene il sospetto, se non la certezza, che un Leone d’Oro al venezuelano Desde Allà, di Lorenzo Vigas, opaco dramma per nulla originale, e un Leone d’Argento a El Clan, dell’argentino Pablo Trapero, siano scelte di parte, di ripiego, mosse da noncuranza e daltonismo critico. Quest’ultimo, poi, scorre liscio e incalzante con soluzioni registiche che ci hanno tenuti svegli tra il torpore narcolettico generale; dunque non ci sentiamo di giudicare troppo severamente una scelta, forse, fin troppo di comodo. 
Il Gran Premio della Giuria a Charlie Kaufman non stupisce e non pare nemmeno forzato; eppure, nonostante la giusta delicatezza, turbamento e inquietudine immaginifica che il film ci rimanda, rimane un lavoro sulla soglia della sufficienza, stanco e incompleto. Ricollegandoci, dunque, al Premio per la Miglior Sceneggiatura, seguono altre discutibili scelte, come il premiato L’Hermine, di Christian Vincent, che mischia arbitrariamente love story e teatro giudiziario, mentre vuole essere qualcosa d'altro e fallisce nel tentativo. A Fabrice Luchini, anche, la Coppa Volpi per il Miglior Attore, per una prova solo discreta – con a fianco un Idris Elba che in Beasts of No Nation risultava senz’altro più ficcante e carismatico. Valeria Golino approda alla seconda Coppa Volpi per la Migliore Attrice dopo quasi trent’anni da Storia d’Amore, nella medesima cornice. E questo lo si comprende di più.
Ci interessa, invece, il Leone del Futuro che sceglie, inaspettatamente, lo spiazzante e morboso debutto di Brady Corbet, con Childhood of a Leader, sorta di pseudo-dramma suddiviso in capitoli a descrivere la lenta ascesa di un bambino dispotico, con finale pazzo e roboante ad assordare l’udito e a scolpire nuovi, malsani deliri di potere. Anche il premio Orizzonti per il Miglior Film va a un affresco di morbosità che tenta di travalicare il fondamentalismo religioso per sondare la disperazione dell’animo nei confronti della malattia, nei confronti degli outcast: Free in Deed, di Jake Mahaffy. Un lavoro che non splende ma risolve, tentando la strada dell’originalità, utilizzando tematiche già altrove affrontate ma in modalità essenzialmente più standardizzate. Il Premio Speciale della Giuria Orizzonti si consegna a Neon Bull, di Gabriel Mascaro, disturbante e ironica rassegna della vita bizzarra di un vaccaro che sogna la gloria nel campo della moda e una bambina che, in un mondo di tori, disegna soltanto cavalli. Vibrante. Non mancano altre visioni notevoli a cui ci siamo affezionati, ma preferiamo restringere il campo alla sola lista dei premiati.
Un'edizione veneziana a cui avevamo riservato il beneficio del dubbio ma che ha deluso, stancato, lasciato mitragliatrici nell’occhio, che trascura le poche opere forse non eccezionali verso le quali sarebbe stato almeno d’obbligo conservare un’ultima, sana dose di onestà intellettuale. Skolimowski è il vero, (im)morale vincitore del festival. 

Suonando un Requiem, qui sotto il palmarès completo.

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Venezia 72

Leone d'oro al miglior film: Desde allá di Lorenzo Vigas (Venezuela)
Leone d'argento per la miglior regia: Pablo Trapero per El Clan (Argentina)
Leone d'argento - Gran premio della giuria: Anomalisa, Charlie Kaufman e Duke Jonhnson (USA)
Premio speciale della giuria: Abluka, Emin Alper (Turchia/Francia/Qatar)
Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile: Fabrice Luchini per L'Hermine (Francia), Christian Vincent
Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile: Valeria Golino per Per amor vostro (Italia), Giuseppe Gaudino
Premio Osella per la migliore sceneggiatura: Christian Vincent per L'Hermine (Francia)
Premio Marcello Mastroianni ad un attore o attrice emergente: Abraham Attah per Beasts of No Nation (USA)

Premio Orizzonti per il miglior film: Free in Deed, Jake Mahaffy
Premio Orizzonti per la miglior regia: The Childhood of a Leader, Brady Corbet
Premio Speciale della Giuria Orizzonti: Boi Neon, Gabriel Mascaro
Premio Orizzonti per il miglior attore: Dominique Leborne per Tempête
Premio Orizzonti per il miglior cortometraggio: Belladonna, Dubravka Turic
Premio Venezia Opera prima “Luigi de Laurentiis”: The Childhood of a Leader, Brady Corbet
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VENEZIA 72 - Behemoth, di Zhao Liang

12/9/2015

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L’occhio si ferma sul dolore. Un dolore che s’incarna nel magma di un calcareo paesaggio, fatto di roccia, di fango e melma, di distese saturate e allucinanti, di sovraesposizione carnale dell’immagine del mondo. Il mondo come specchio di una disperazione inestirpabile dalla materia. 
Behemoth dischiude le proprie palpebre su un sogno di colore abbagliato, accecato da un’impressione che vuole stoccare una sfilettata sorda ma al contempo avvenente, per il limbo compiaciuto della mente osservante. È la sensazione di una visione lucida e vivida come un’eclissi solare totalizzante che accoglie lo sfibramento psicofisico dei manovali nella Mongolia contemporanea. 

Il documentarismo di Zhao Liang muove da evidenti radici di sperimentazione concettuale ed esperienze nella video arte, rarefacendosi in un progetto compatto che s’affranca da intenti di tipo strettamente informativo e osservativo per abbracciare una concezione intertestuale di opera poco socio-culturale e più apoditticamente visuale, che vaga sull’estetica dell’immagine per riproporre uno superficie riflettente di alterazione (quasi) chimica e para-industriale di una sorta di fenomenologia del reale. La fisicità diventa scalino per una deformazione soggettiva dell’istanza tangibile ed immanente del mondo, osservato da occhi provati dal sudore e dal deperimento, figlio di lavori meccanici e disumanizzanti.
L’opera di Liang ha evidenti pretese oniriche e si rimodella su una tripartizione poetica che guarda alla Divina Commedia come mossa per una suddivisione in gironi, dall’inferno delle montagne dove operano gli estrattori di carbone, al purgatorio di una pneumoconiosi che travalica gli organi e collassa i polmoni, fino a un Paradiso asettico e detergente di palazzoni lividi e inabitati, la cui intoccabilità determina un fantasmatico risanamento, ma il cui potenziale non è (e non sarà) a loro destinato. 
Per chi s’imbratta il volto di cenere e di sozzura, l’unico sterile piacere consiste in un orizzonte pulito di strade desertificate e grattacieli zombificati, e in un campo sterminato ove l’uomo nudo possa stendersi e regredire alla posizione fetale. L’infernale metafisica dello sfruttamento fisico giunge ad allucinare, ad assorbire il cromatico nello schermo rosso trangugiante, a divorare (e vomitare, dissolvendosi in uscita) una sinfonia paleolitica della disumanizzazione febbricitante, con picconi e trivelle e perforatrici a sincopare la ritmica in un’assordante eco di cacofonica (e armonica) fusione semi-musicale. 
È un bacino che inonda, letteralmente, quello di Liang, che ammicca al potere perforante e perturbante dell’impressione cinematografica, con voce off a inserire fughe elegiache e ad accennare una narrazione che attribuisce metafisicità al lavoro e distacco netto da un report fruibile in senso divulgativo o ancorato alla qualità indicativa delle immagini. La metaforica giustapposizione tra struttura lirica, realismo della meccanica del lavoro e simbolismo immaginifico – si pensi all’errante cinese che trascina dietro di sé lo specchio (di ciò che vede? di ciò che non potrà mai vedere?) – configura un universo di forte impatto visivo, a partire da quel titolo che tanto significativo è: Behemoth, mostro biblico d’incommensurabile forza e demonismo, riflette la propria entità in quella degli esseri dispersi e votati alla schiavitù lavorativa. 

La lettura viene inficiata, tuttavia, da un mancante sostrato antropologico realizzato a più piani, da un’apertura alla profondità che avrebbe smussato il ricercato impianto estetico e la tensione alla raffinatezza del quadro, destinando l’opera a un’interpretazione più istintiva e d’effetto, che di reale approfondimento sociologico e permanente. Le soluzioni sono certamente interessanti, a partire dai prismi che dissezionano le catene montuose, rendendole spaccati di un’interiorità che si riflette nel visivo. 
L’opera di Liang rischia però di rimanere sempre un gradino distante dall’epicentro a ridosso del cuore documentaristico, sfondando nella video art e perdendo di vista una stratificazione auspicabilmente più significativa. Eppure, la percezione è quella di ritrovarsi di fronte a un lavoro di rilievo, istintivamente pregnante, d’impatto illusorio e crudo nel medesimo istante. 
Un appello, una ricerca, un atto di affezione e di attenzione nei confronti di una realtà pedissequamente ignorata, quella di chi sogna un paradiso, dantesco o meno, che possa riconciliare lo strappo tra sopravvivenza e vita. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Venezia 72


Scheda tecnica

Titolo originale: Bei xi mo shou
Regista: Liang Zhao
Sceneggiatura: Zhao Liang, Sylvie Blum
Attori: Zhao Liang (narratore)
Fotografia: Zhao Liang
Anno: 2015
Durata: 95’

BEHEMOTH (2015) by Zhao Liang [excerpt] from Richard Lormand on Vimeo.

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VENEZIA 72 - 11 Minutes, di Jerzy Skolimowski

10/9/2015

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Jerzy Skolimowski è un signore di 77 anni. Ha all’attivo una carriera cinematografica non prolissa ma consistente, spaventosamente sconosciuta se non agli onnivori di immagini, un paio di film imprescindibili – La ragazza del bagno pubblico e Le dèpart (diventato odiosamente Il vergine) – e una carrellata di lavori notevoli, ma sovente scivolati in sordina. Ebbene, a 77 anni Skolimowski gira questo lavoro acutissimo e perfettamente oliato che è 11 minutes, portandolo in concorso a Venezia, così com’era stato per il precedente Essential Killing, vincitore del Leone d’Argento nel 2010. 

11 Minutes è un gioco dichiarato, un’ora di elucubrazione circolare, di incastri e di rimandi spesso non-sense, funzionali soltanto a essere un antefatto in perpetua dilatazione a preparare l’ascesa parodica finale. Intersecando personaggi volutamente stereotipati (il regista, l’attrice avvenente, un marito geloso, il venditore di hot dog, il motociclista cocainomane, il ladruncolo spiantato, e così via) che intorno alle 17:00 fanno qualcosa (ma cosa?), alle volte s’incrociano ma non si conoscono, organizza una parata di futuri teatranti  che convergeranno nell’epilogo catastrofico, in quella nebulosa grigia che estirpa la definizione; un finale strabordante, che canzona l’ostentato slow-motion delle macchinette hollywoodiane che tanto si prendono sul serio. Skolimowski intreccia un pretesto, una tensione al cogliere la compresenza del tempo tramite un solo concetto, quello del concatenamento casuale come materia ultima del presente.
Poi, alla fine, un’amputazione clamorosa e sorda di immagini che diventano altre immagini che diventano finalmente punti che scoprono le loro ossa: riprese da telecamere di servizio a rimpicciolirsi, mosaici infiniti, indefiniti, puro rumore. La compresenza di un’affermazione e di una negazione: l’immagine è e non è, insieme, sempre. È l’interruzione della trasmissione, l’annullamento (al contempo la massima panoramica possibile su tutti gli infiniti eventi che una camera può riprendere) e un perentorio pixel nero a lato del quadro, un pixel che c’era sempre stato, come reminder di una falla in potenza, di quel caso a cui non si sa dare nome e per cui siamo fisiologicamente ciechi. 
Skolimowski retrocede da lì. Dalla macchia di un pittore cadutagli sul foglio bianco, distratto dalla visione di un uomo in procinto di buttarsi da un ponte. Massimo ghigno dolceamaro, l’uomo è uno stuntman, la tragedia non c’è, ma la macchia sì, e il pittore non lo saprà mai. Tanto basta a rovinare il quadro.

Trasversalmente alla riflessività e all’impianto ludico (puro anti-thriller), Skolimowski ammicca sovente con la mdp e con la traccia sonora, valorizzando massimamente il fragore, la perturbazione (veicolata dall’aereo che seziona orizzontalmente l’inquadratura), ovvero l’incidente in decibel, sordo come il pixel, che preme, avvisaglia di un buco nero a venire. Montaggio fluido e avvenente, scherzi in cabina di regia che decidono un’ulteriore comparsa, nell’affastellamento dei moti umani che attraversano la città: la soggettiva, ricercata e frequente, di un cane. Skolimowski ci ricorda che, in fondo, è tutto solo un gioco.
11 Minutes è, essenzialmente, una dichiarazione di credo, un’apologia all’immagine in sé, come moltiplicazione potenziale di possibili accidentali (re)visioni, dove esiste solo il cinema di oggi, dove esiste solo il codice binario, a susseguirsi di 0 e 1, in uno dei 16 777 216 formati di colore immaginabile; ma, soprattutto, dove la vita fa difetto, per caso, addensatasi in un pixel nero (bruciato, irrecuperabile, immaterialmente estintosi). 
Insomma, Skolimowski ritorna sempre a quello snodo cruciale e dialettico del rapporto tra cinema e vita, irriducibili eppure vicinissimi, laddove un pixel che si rompe acquisisce il significato di una frazione di secondo reale, senza differita, dove c’è l’auto-combustione, l’esplosione (o implosione?), il disaster-movie finale. Ogni cosa per un’inafferrabile concomitanza di forze meccaniche e ideali.  
Sono (e siamo) solo incidenti in attesa di verificarsi. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Venezia 72


Scheda tecnica

Titolo originale: 11 minut
Regista: Jerzy Skolimowski
Sceneggiatura: Jerzy Skolimowski
Attori: Agata Buzek  Richard Dormer 
Fotografia: Mikołaj Łebkowski
Anno: 2015
Durata: 81’
Uscita al cinema: 23 ottobre (Polonia)

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VENEZIA 72 - Non essere cattivo, di Claudio Caligari

8/9/2015

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Tanta è l’emozione nell’approcciarsi a questo film postumo di un regista, Claudio Caligari, che, nonostante le “sole” tre opere all’attivo, merita la devozione con la quale gli si è stati soliti avvicinarsi negli ultimi decenni di silenzio e malattia. In tutta la sua anomalia, Caligari pare esser interessato solo e interamente all’autenticità del corpus dei fatti, lasciando la poesia del marcio a parlare da sé.
Non essere cattivo, di fondo, inizia ricollegandosi idealmente (e anche fattualmente) a quello che fu Amore tossico, incastrando i suoi ultimi antieroi (Cesare e Vittorio) sul litorale ostiense sul quale aveva lasciato i protagonisti erranti di vent’anni prima, a mangiarsi un gelato accasciati sul muretto di una spiaggia attonita, in osmosi alla decadenza delle case popolari e all’ingordigia di una vita che passa di fianco uccidendo a vista. 

Non sembra cambiato poi molto, per Caligari e per Valerio Mastandrea (amico e produttore del film), da quella desolazione contaminata e dalla tela bianca che si dipingeva di sangue debordato dalla vena nel lontano 1983, anno del suo film-manifesto. La concezione è la medesima: sempre a sfondarsi di eroina (ma questa volta è la cocaina) tra le strade e i cantieri romani; sempre a lottare contro una vita brutale nell’unica maniera possibile; sempre a ricadere negli stessi schemi senza scampo, masticando una lingua ignorante e fedele a un verismo che accerchia gli individui facendone sbiadite impossibilità umane. 
Questa volta, però, la visione corale e (neo)neorealista di un tempo vira decisa verso un plot meno destrutturato, che sceglie un passo a due per incanalare il motore tragico della vicenda. Cesare e Vittorio sono due amici cresciuti assieme che condividono pasticche e zuffe notturne, figli di una sporcizia antropologica e immortali nella loro simbologia urbana, entrambi intenti a ricondursi alla propria quotidianità con sforzo encomiabile (gli smerci della “roba”) e a bighellonare tronfi nella loro disoccupazione ostentata. 
La dialettica tra i due è funzionale a spingere la narrazione verso due moti divergenti, laddove Cesare, protagonista di una canzone ostinata alla disintegrazione, assume il ruolo archetipico della figura cieca incapace di vedere (e di vedersi) nella propria discesa verso lo sventramento psicofisico; Vittorio, controparte sana, smette, nonostante le ricadute, di ricalcare vecchi modelli malsani non appena la possibilità di un lavoro da manovale in un cantiere edile gli si presenta davanti. Il “non essere cattivo” ammicca a un monito, in fondo, paradossale, perché non v’è traccia di reale cattiveria in questa ballata per certi versi ingenua e naif. L’ammanto compassionevole di cui sono imbevuti collabora alla resa di un affresco discendente profondamente umano, redatto da un uomo che evidentemente conosce e ama gli outsider di cui narra.
L’ammonimento al tragico è, in fondo, imprescindibile per il genere della pellicola; in questo senso Caligari opera in modalità piuttosto procedurale e programmatica nella costruzione di una narrazione semplicissima e in sé per nulla memorabile. L’effetto straniante, semmai, è guardare un’opera di Caligari che della fotografia fa vanto estremo, lucidandone una patina altrimenti grezza, robotizzando (e incattivendo) tutto tramite inserti immaginifici ed estetizzanti, calcando su bruttura e volgarismo di certe ragazze perdute, insistendo sul basso, sulla soundtrack discotecara di fine anni ’90, su una mdp girovaga che aggira, e si addentra, sulla superficie coatta delle cose. La verniciatura notturna inscena persino un’allucinazione circense che si squarcia dal nero e agevola l’inserimento di situazioni tragicomiche e divagazioni che slabbrano completamente il sostrato funesto aleggiante. 
Si può rimproverare, forse, oltre a un eccesso di prevedibilità strutturale, una chiusa che abbozza al lacrimevole e suona tanto da omaggio retorico piuttosto stonato. Commuove, invece, la volontà di essere sinfonia d’amore per questa natura umana tesa alla dispersione, all’auto-annientamento a corsia unica, nel dilaniarsi affaticato di un’esistenza. Indelebili le interpretazioni abbacinanti di Luca Marinelli e Alessandro Borghi. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Venezia 72, Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Claudio Caligari
Sceneggiatura: Claudio Caligari, Francesca Serafini, Giordano Meacci
Attori: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Silvia d’Amico, Roberta Mattei
Fotografia: Maurizio Calvesi
Anno: 2015
Durata: 100’
Uscita al cinema: 8 Settembre 2015

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VENEZIA 72 - Spotlight, di Thomas McCarthy

6/9/2015

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Epoca post-postmoderna, comunque la si voglia chiamare; questo è un momento dove tutto sembra il passato (di tutto) e, per quanto sia banale ripeterlo, il sovraccarico eidetico giova non poco a chi si affanna a spezzare il cordone dell’abuso e ri-abuso cinematografico. 
Esiste ancora un cinema, quello americano, che in coazione a ripetere sforna titoli che si propongono (mal riuscendoci) di richiamare alla mente la pulizia e la nobiltà registica delle produzioni hollywoodiane dell’era classica. Lo fa spessissimo nei formati del biopic e del dramma sentimentale, come un formulario di riadattamenti leziosi, seppur godibili. Talvolta ci si dimentica di cos’è l’America, tanto che puritanesimo, perbenismo, patriottismo e buona morale del giusto sacrificio svettano solenni tra le pieghe (più piaghe) di dialoghi puramente didascalici. 
L’America, invece, si scorda di omaggiare una tradizione cinematografica che non trova pari, quella del sentimento rooseveltiano, dalla cui nostalgia gli statunitensi non hanno ancora trovato la cura. La nazione pragmatica, individualista, il valore della comunità e, soprattutto, la fede nella santa stampa del giornalismo d’inchiesta, massimo promulgatore di verità e altissima etica – quella di Frank Capra, acutissimo costruttore di metafore civiche e civili, lato illuminato di quel ghigno cinico che, dall’altra, Wilder interpretava benissimo (infischiandosene di tutto). 

Si potrebbe dire che questo Spotlight, presentato Fuori Concorso a Venezia e diretto da Thomas McCarthy, forse in maniera non del tutto consapevole e con, sulle spalle, qualche scivolone mal celato, riprende quell’America da dov’era stata lasciata, abbassando al minimo il tassametro su eroismi e spettacolarizzazioni ridicoleggianti. Riducendo la retorica, emancipando il nucleo del concetto in sé di valore e valorizzazione del contenuto. 
Lo Spotlight, anzitutto, è un antico team che lavora con materiale segretissimo presso il Boston Globe, testata giornalistica dell’omonima città, ponendosi obiettivi d’inchiesta ambiziosi e non privi di ostacoli legislativi. Punto centrifugo dell’opera è l’investigazione serrata e in incognita di uno scandalo mai scoppiato, inerente a una presunta fittissima rete di pedofilia interna al patriarcato cattolico del Massachussets. 
Prescindendo dallo scorrevole apporto sociologico da cui il lavoro muove – perché McCarthy fa un film meno che mai sul castigo dell’epidemica deviazione sessuale in campo politico/religioso - questo Spotlight è un revivre di sentimenti solidissimi, fossilizzatisi nella cultura mediatica e socio-psicologica di un certo tipo di cinema che si mette al servizio, senza svilimenti stilistici di alcun tipo, del contenuto, e facendo(ne) di più: ne accoglie intenti e dinamiche e ne imita la forma, al punto che scelte registiche coincidono con il metodo di lavoro puntuale e pedissequo del gruppo di reporter; ovvero, si lavora in parallelo, a costituire un prodotto meccanicamente oliato a precisione, asciutto e quadrato nelle dimensioni interne, ove finalmente il contenuto assorbe la forma (e viceversa). 
Viene da pensare che poco importi delle reali conseguenze dello scandalo o della criminalità dei responsabili (boicottate con intelligenza dalla trama e per nulla declamate) o dello scoprire l’entità assoluta del problema, perché il film è un esempio visibile di innescamento di quest funzionale all’evidenziare tutt’altri limbi concettuali. In questo senso, Spotlight non è nemmeno un film sulla fede e sul poter (dover?) continuare a credere (e sbrodola quando impugna la stessa per esemplificare il guaio della gerarchia ecclesiastica e lo scoramento dei protagonisti nel perpetuare le indagini). Spotlight è invece il pretesto per girare un film sulla comunità, sul senso della collettività in quanto etica immortale della vera fede americana, quel pragmatismo che si sostituisce alla religione e il cui scettro s’impugna tanto raramente nei fatti, ma più che sufficientemente a parole. 
Con il valore dell’idealismo e dell’unione civile il film di McCarthy vince quando, nella maniera più nostalgicamente classica, quasi pedagogica, ne fa un’imprescindibilità dimostrandone, più dell’idillio del team, falle, ipocrisie, mancanze, omertà, zone d’ombra essenziali a definirne gli opposti. Boston è una città che del senso del comune ha perso le orme, tanto che quel negarsi a vicenda il diritto di sapere (i cittadini presumibilmente conoscono l’effettività degli abusi, persino uno dei reporter ne venne a conoscenza nel passato e decise di insabbiare progressivamente il tutto) ha il sapore agrodolce di una sconfitta universale. Tanto quanto la pubblicazione dell’articolo, redatto con inserti di documentazione inizialmente priva di accesso pubblico, che sortisce l’effetto di un boomerang e non necessariamente si propone di modificare il reale (semmai torna indietro per nobilitare il passato). Ciò che importa è porre la vittoria (mai definitiva) dell’autoaffermazione della libertà e della verità (di stampa, che in America equivale a quella civile e umana). 
Persino il cast di attori (alcuni sempre notevoli, come Mark Ruffalo e Michael Keaton, altri spesso opachi, come Rachel McAdams, qui efficacemente in linea con la sobrietà dell’opera – il film e l’inchiesta) si piega giocoforza a questa missiva di rivitalizzazione etica, scoperchiando il non-accaduto del passato (se avessimo agito prima…) per effettuarlo nel presente. Le esuberanze ci sono, purtroppo anche messe in bocca a un’esemplare isterica reazione di Ruffalo, che sbraita domandandosi perché l’articolo debba essere posticipato se a soffrirne sono stati dei bambini indifesi. Forse non è bene pretendere oltre.
Incastrato in un montaggio secco e funzionale e con ottima padronanza di ritmo, sempre teso dall’incipit alla chiusa, McCarthy fa cinema intelligente, forse non entusiasmante, ma onesto e consapevole, come un vecchio mascherato in un’epoca che del cinema ancor di più non sa che farsene. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Venezia 72


Scheda tecnica

Regia: Thomas McCarthy
Sceneggiatura: Thomas McCarthy, Josh Singer
Attori: Michael Keaton, Mark Ruffalo, Stanley Tucci, Rachel McAdams
Fotografia: Masanobu Takayanagi
Durata: 128’
Uscita: Novembre 2015 (Stati Uniti)

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VENEZIA 72 - Francofonia, di Aleksandr Sokurov

5/9/2015

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Il Cinema, come una sonda aerea, micro e macroscopica, esplora la superficie (dell’arte, per l’arte) tramite la percezione ottica del reale: percezione, perché non si preoccupa di giungere al vero, ma vi si avvicina, sperando in una pulsazione sensoriale del pittorico, dello scultorio, dell’umano.
L’attesissima nuova opera di Aleksandr Sokurov, presentata quattro anni dopo il Leone d’Oro al Faust, è, previdentemente, un lavoro dal difficile dipanamento concettuale. La concentrazione temporale (87 lunghi minuti) inganna sulla fruizione istintiva di un’opera che si pone come oggetto di studio, nei molteplici sensi del termine. Opera come studio della cosa, e opera come studio di se stessa. Dopo la narrazione storica e letteraria, dopo il monumentale della tetralogia del potere (Moloch, Hitler, Taurus, Il Sole), ancora il potere, effettiva affezione del regista. Esattamente come ne il Faust, rilettura del romanzo (e dell’omonimo film di Murnau), nel quale lo spettro del potere, inteso come facoltà e desiderio di possesso, veniva liberamente immesso, distanziandosi dall’opera originale. 

Chiarendo ciò che di più comprensibile vi è di questa tensione al concettuale, Francofonia si apre (anzi, si schiude) sbocciando su sfondi nero e bianco, paralleli e divergenti: udibili solo le voci della connessione uditiva e temporale tra mittente e destinatario. Il collegamento nell’era tecnologica avviene tra la postazione di un computer e la differita di una nave che trasporta opere museali; un incipit programmatico e in sé sufficiente.
Sokurov si immerge, infatti, nelle sale del Louvre, in maniera divergente e convergente, tentando di conciliare storia (del dominio politico), prospettiva epidermica dell’Arte e cinefilia, in un’angolatura a tratti semi-documentarista, a tratti sperimentale. È, in effetti, un assemblaggio, quasi un pastiche, ma coeso, di unione tra frammenti originari di operatori francesi che riprendono la vecchia Parigi (la Parigi liberata), prospettive aeree sulla Parigi contemporanea che non vuole esserlo e metacinema (numerosi i ciak di fronte alla mdp, e inserti in pieno stile informativo). 
L’umanizzazione, quasi animistica, della città, incontra narratori vagabondi: Napoleone che osserva la ritrattistica che lo riguarda dispiegata all’interno delle solenni stanze museali; la Libertà, eterna figura femminile de “La libertà che guida il popolo” di Eugene Delacroix; soprattutto, il dialogo impossibile (come impossibile vuole essere il film) tra Jacques Jaujard, storico direttore del Louvre, e Klemens von Metternich, nazista in territorio francese, entrambi miracolosamente impegnati nell’impedire la razzia dei suppellettili artistici del repertorio europeo. L’Europa, dunque, e assolutamente la volontà di ravvivarne, recuperarne, inscriverne, tramite l’occhio, la Memoria, oasi infinitamente perdutasi. Il mezzo, un incontro di due intelletti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. 
Un’ouverture splendida che a tratti si appanna nel cuore del lavoro, ove la necessità di rendere l’idea più discorsiva accorda l’accesso a espedienti visivi non sempre indovinati (cartine della Francia come evidenziatori che si sovrappongono a cartoline della città) e talvolta didascaliche ripetizioni sulla materia della storia franco-tedesca. Sokurov si lascia evidentemente possedere da un pathos vissuto in modalità del tutto viscerale, perdendosi talvolta nel ridondante e nell’ostentato. Certo, evocazioni dall’innegabile fascino visivo vi sono: esemplarmente tristi de-saturazioni nei toni fotografici. Una su tutte la contemplazione della Gioconda, in un gioco di occhiate che è di nuovo vivo e giocatosi tra Napoleone, Libertà e la Monna Lisa leonardesca.
L’intento qui vuole essere, soprattutto, un ammonimento sull’importanza dello sguardo, dell’osservazione ravvicinata, del lambire la fusione quasi ectoplasmatica tra uomo e oggetto. Sokurov desidera con impellenza squarciare quel Rinascimentale tanto agognato per tornare a viverne gli istanti, ora persi nelle macerie dei palazzi egizi e babilonesi distrutti sotto le bombe naziste. 
La chiusa, un minuto di pure rumore fotografico e di grana coniugata in tonalità differenti, è una vera riverenza che nobilita la visione, nostalgicamente citazionista nel “FIN” della dipartita.
Non è miracolosa quest’opera sokuroviana, forse nemmeno splendida come molti avranno modo di dire. La stanchezza del lungo iato centrale ne soffoca le possibili diramazioni meno sfoggiate. Francofonia è, anche, un film ambizioso e, come tale, non smette di credere di poter essere, forse, troppe cose. Ne si evince la pulsione all’Eros e allo Thanatos di un regista che in passato ci ha concesso monumenti al Cinema anche superiori.

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Venezia 72, Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Aleksandr Sokurov
Sceneggiatura: Aleksandr Sokurov
Attori: Louis Do de Lencquesaing, Benjamin Utzerath, Vincent Nemeth, 
Fotografia: Bruno Delbonnel 
Durata: 90’
Anno: 2015
Uscita: 16 dicembre 2015

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VENEZIA 72 - Beasts of No Nation, di Cary Fukunaga

4/9/2015

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“E dopo aver visto tutto ciò, potremo ancora reclamare la nostra innocenza?”.

Un ventre aperto, uno squarcio senza fondo (o con fondo policromo e iperrealista), la terra occidentale africana del terzo lungometraggio di Cary Fukunaga e con lei queste bestie umane che tra la guerriglia civile si perdono. Eppure conservano il loro nome, si direbbe, a impressionare la lente di sangue e di fango. 
A guardare con continuo shift di soft e deep focus lo sguardo di piombo, vagante, di un figlio bambino, Agu, che apre una pagina di storia strappandosi il volto di dosso, tra le macerie di una vita già marchiata d’impersonale e pernottando in uno stato di sensazione visiva, pornografia di tinte, tra la giungla equatoriale. 

Agu vive un’infanzia d’ingenuità e inesperienza in una famiglia comune, con padre, madre e fratello, con il quale s’evince da subito esservi un idillio consanguineo, una spartizione delle più disparate azioni giornaliere, avvertendo entrambi, però, il senso incombente della guerra cittadina. Il senso di una guerra percepita e annunciata che stravolgerà assegnazione e pregnanza della sua esistenza. Si ritroverà, infatti, da solo, strappato alla madre, costretta per la sopravvivenza a disgiungersi da lui, e destinato, poco dopo, a subire l’uccisione del padre e del fratello da parte dei militari occupanti il territorio. Un antefatto, questo, a dare il via al fulcro specifico dell’opera, che intende allargare conoscenza e sguardo sull’iniziazione a una vita da bambino soldato in un organizzazione di ribelli autoctoni, la quale si propone di contrastare, in totale osmosi di dinamiche e mezzi, le fucilazioni e le distruzioni dell’apparato militare sui civili.
È in fondo una disanima assai comune, quella di Fukunaga per Netflix, su come (ovunque) il fine (la padronanza, il potere) finisca per giustificare i mezzi di una violenza che per essere veramente efficace deve proporsi come stratificata, pragmatica e anzitutto di sezionata gerarchia. Gerarchia di volontà di potenza a divenire, sempre, necessità di vendetta, di riscatto, per chi non è mai stato ascoltato, per chi ha dovuto rinunciare al proprio nome, agitando mutilazioni e sostituendo ferite interiori con arti di materiale esplosivo. Prende inizio un viaggio fanatico tra la non-umanità sporca e feroce, con Agu portato a seguire la parola del capo dei ribelli, qui interpretato in maniera ficcante da Idris Elba (già in American Gangster, Takers) e, con obbligato nascondiglio d’insicurezze e lutti precoci, a procedere in una natura ostile (eppure spesso magnanima), indossando le vesti di un prediletto e iniziato promettente. 
Ma Beasts of No Nation di certo non sconvolge per la fattezza della sua materia morale o psicologica: la prima, in fondo, piuttosto ricalcata su una riproposizione, per quanto d’effettivo realismo, della banalità del male e di un superomismo dilagante; la seconda, talvolta ridondante e copincollata, rimasta sullo fondo, abbozzata (pur non disdegnante passaggi di voce-off dal calcato intento evocativo, presumibilmente rintracciati dall’omonimo romanzo di Uzodinma Iweala del 2005). 

La (parziale) efficacia dell’opera si cela, in modalità manifesta, nella forte consapevolezza di un impianto visivo d’attrazione colorista e dinamica, tra saturazione e sovraesposizione fotografica, tra scelte estetiche ammiccanti e slow-motion dosato (e condensato), in un profilo ritmico sostenuto, destinato a perdersi in parte sulla via del finale, ma manifestando, va detto, un’artigianalità improntata a un’idea di perfezione, infine, non insoddisfacente. 
Il rapporto gerarchico è, poi, topos del lavoro, un fil-rouge che si percorre a iniziare da Agu e il fratello, per giungere all’ammaestramento operato dalla mente alienata (eppure, anche qui, umanissima – e suadente) del generale ribelle nei confronti di Agu, in un tentato passaggio di testimone, e in una relazione d’abuso continuo ed effettivo. A intensificare la convinzione estetica evidentissima, gli inserti d’allucinazione narcotica, a riallacciarsi alle sostanze di cui gli insorti fanno costantemente uso, e la carne (scarnificata) che si appronta, come su un tavolo operatorio, per divenire macellaio e macelleria paleolitica, con gli schizzi di sangue a insudiciare l’occhio, nell’emergenza di (at)trarre a sé. 
Gli avvallamenti in fase di sceneggiatura si fanno certo sentire, e nascono per piacere, per allargarsi a un pubblico indistinto, nel loro essere (i dialoghi) spesso abbacinati da una necessità di comprensione universale. L’impronta dell’esigenza manifesta di un condotto comunicativo strutturato e ampio, dunque. 
Ma è un pregio, affossamenti e scivoloni di pensiero sulla forma a parte. 
Infine, Beasts of No Nation (si) salva, tra altri titoli deludenti e poca frescura para-autunnale. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Venezia 72


Scheda tecnica

Regia: Cary Fukunaga
Interpreti: Idris Elba, Abraham Attah, Ama K. Abrebese
Sceneggiatura: Cary Fukunaga 
Musica: Dan Romer 
Anno: 2015 
Durata: 136’ 
Uscita: 16 Ottobre 2015 (America)

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