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TORINO 34 - Lady Macbeth, di William Oldroyd

30/11/2016

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​Inghilterra, 1865. La giovane Katherine si unisce in un matrimonio privo di amore con un signore più in età di lei. Confinata in una casa isolata in campagna, tra l’autoritarismo, la mancanza di attenzioni e le assenze del marito, i suoi fremiti di affermazione esplodono quando intreccia una liberatoria passione con l'operaio (alle dipendenze del marito) Sebastian, passione che non passa inosservata. Determinata a non lasciar soffocare il loro legame, Katherine, con la complicità dell’amante, inizia a uccidere. Eliminare con freddezza le persone di ostacolo al sogno di una vita a modo suo, magari sempre in quella casa ma con l'uomo scelto da lei al suo fianco, sembra per la ragazza il modo di affrancarsi. Ma a vivere lì e reclamare i suoi diritti familiari arriva poi qualcun altro, e la strada diventa senza ritorno.
Basato sul racconto di Nikolaj Leskov Lady Macbeth del Distretto di Mcensk (poi diventato un'opera), il film è scritto e diretto da due personalità affermate provenienti dal teatro: l'autrice Alice Birch e il regista William Oldroyd, che al loro esordio nel lungometraggio mostrano idee chiare.
All’inizio Lady Macbeth sembra una provocazione femminista dall’indubbia efficacia: impossibile non parteggiare per la protagonista, “rinchiusa” in una vita impossibile e del tutto priva di calore umano. Con il procedere della vicenda e l’avvio del body-count, però, il film prende una strada diversa, meno basata sull’empatia col personaggio.
Nell'esistenza che Katherine sembra condannata a vivere, gli uomini fanno gli uomini nel modo peggiore possibile, e tra i due sessi si alza un muro di disprezzo. Mentre il luogo della signora (e della sua serva) è la casa, e lo scopo di vita affidatole è arrivare a sfornare un erede (difficile, dato che il consorte non vuole o non riesce ad avere rapporti con lei: ma ovviamente la colpa è data alla donna), il marito Alexander col padre Boris sono quelli che mettono piede nel mondo al di fuori, per motivi di cui non è opportuno chiedere. D’altronde lei è praticamente una cosa, comprata e posseduta, come le viene esplicitamente ricordato a un certo punto.
I contrasti nel film sono sottolineati, qua e là, con una punta di umorismo: il corpo della ragazza è costretto, irregimentato, sia per quanto riguarda gli abiti (vedi il passaggio della vestizione dolorosa) che la postura, e si libera negli amplessi selvaggi con l’amante. Anche gli spazi sono rigidamente definiti, non solo sulla base dei sessi ma anche classista: Katherine che irrompe nello stanzone (una sorta di stalla) dei lavoratori è la prima scintilla del suo rapporto con Sebastian, che li porterà a violare la camera coniugale in cui poi si svolgerà l'estrema provocazione della donna di fronte al marito, nel climax, anche quanto a violenza, del film – notevole, in questo discorso di spazi, anche Sebastian che viene freddato a parole per aver osato violare il salotto di casa, quando vi riporta il bambino in pericolo di vita – . Violenza che, nella mancanza di positività del film, permea tutto: in particolare psicologica, come quella esercitata dal marito e ancor più dal suocero, uomo sempre digrignante e colmo di disprezzo, poco celato e compiaciuto, verso Katherine in quanto donna e in quanto persona. Un clima pesante, che Oldroyd cerca e nel ritratto di questo personaggio maschile un poco forza, ma senza lasciare indifferenti.
Di tutto è testimone impotente, e poi muta – perde la voce a causa di uno shock – la serva meticcia, che però paradossalmente risulta anche la più consapevole: il suo pianto disperato, di fronte ai gesti estremi della padrona che stanno rompendo l’ordine di un pur terribile mondo, assume una luce diversa di fronte a quel che sarà il finale, e la fine per lei.
Il regista nega completamente il fasto solitamente associato a un film in costume (in pratica e non a caso limitato all'abito “da signora” della protagonista) a favore di una scenografia essenziale, fatta di ambientazioni semplici, che si salda a una messinscena ordinata, pulita, e alla presenza in scena di pochi personaggi (senza contare i quadri in cui è in scena solo la protagonista).
Film che si chiude confermando un nichilismo quasi fastidioso (Katherine alla fine è una maschera impenetrabile, e la conclusione è beffarda e circolare), Lady Macbeth, nero dentro anche se pianamente luminoso sul piano fotografico, non è un lavoro gradevole ma è un esordio di forza indubbia, plastica ed emotiva. 
Guardando la Katherine impersonata da Florence Pugh, soprattutto quando esercita ironia o inganna, la sensazione è lievemente straniante: sembra di vedere una attrice di oggi (brava) che interpreta quella che può essere una ragazza di oggi calata in un (vecchio) contesto assurdo. Non che questo sia un difetto, ed è per lo spettatore strumento di complicità e ingresso in un micro-mondo. La Pugh ha da poco partecipato a The Commuter, prossimo film dell’accoppiata Jaume Collet-Serra e Liam Neeson.
Già passato con successo a San Sebastian, Zurigo e Toronto, Lady Macbeth uscirà in Italia l'anno prossimo per Teodora Film.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Torino 34


Scheda tecnica

Anno: 2016
Regia: William Oldroyd
Sceneggiatura: Alice Birch
Fotografia: Ari Wegner
Scenografia: Jacqueline Abrahams
Montaggio: Nick Emerson
Cast: Florence Pugh, Cosmo Jarvis, Paul Hilton, Naomi Ackie, Cristopher Fairbank
Durata: 88'

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TORINO 34 - Christine, di Antonio Campos

27/11/2016

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​Presentato al Sundance Film Festival, il terzo lungometraggio del regista americano Antonio Campos è un’opera penetrante, conscia di una forte componente magnetica che si attracca a una solida scrittura e a un linguaggio asciutto, teso tra la contemplazione dell’intimità della protagonista e gli scatti freddi e automatizzanti della macchina giornalistica (i mezzi televisivi, propriamente) nella quale ella è inserita. 
Siamo in Florida, negli anni ’70, e Christine Chubbuck è giornalista in una modesta emittente proprio negli anni in cui la spettacolarizzazione della violenza, figlia di quelle immagini che nel 1968 scioccarono il mondo con l’omicidio Kennedy, si propone agli occhi e nelle case di tutti, per iniziare quel processo di lenta disinibizione dell’immagine che porterà alla crasi dell’informazione e dell’intrattenimento che tutt’oggi conosciamo. 
Sembrerebbe l’ennesima parabola di ascesa al successo di una giovane donna in carriera illuminata da un’inedita capacità di rielaborazione dei metodi comunicativi (in questo senso ogni immagine legata all’apparato promozionale del film andrebbe ignorata, in quanto contaminatrice della tensione di cui l’opera si nutre), probabilmente destinata ad essere l’eroina di un biopic densamente classico e omologato. Tutto il contrario: il regista di Afterschool e di Simon Killer (rispettivamente figli di Cannes e del Sundance) riesce a disorientare positivamente la fruizione tramite una messa in scena dal ritmo pacato e trattenuto, che sembra sempre dover decollare ma che, invece, corrisponde all’atrofizzarsi interiore della protagonista, al suo annichilirsi costante prodotto da un disequilibrio interno che dell’immobilismo professionale fa incetta. 
Scopriamo che è di uno sgretolamento che osserviamo l’incedere, che gli occhi puntati della camera non hanno che attenzioni per la personalità tumultuosa della protagonista, pur non sdegnando un certo feticismo tecnico per gli apparati di ripresa dell’epoca (che contribuiscono all’isolamento di un’atmosfera metodica e asettica combaciante con la placidità sospetta di Christine). L’incedere tensivo della narrazione avanza per episodi ritagliati dal quotidiano, in sé sommessi, che rifiutano l’eclatante per concorrere alla composizione di un puzzle psicofisico più ampio, costruito per giustapposizione di rifiuti, di impotenze emotive, di giornate trascorse nella sua camera dedicate allo studio e alla ricerca estenuante di un’idea professionale che la possa emancipare dal ruolo secondario che riveste. 
Christine dimostra una disabilità relazionale che la porta a nascondersi dalla possibilità di un rapporto con un collega che esuli dall’ambito lavorativo, mentre Campos dissemina elementi descrittivi senza cedere mai al didascalico, imponendosi contro un ventriloquio dei personaggi infusi di vita e voce non propri. Letteralmente, le sfortune di Christine si accatastano gracili, quasi sottotono rispetto alla loro gravità: l’impossibilità di farsi avanti in un ambito che tende sempre più a ingozzare l’audience e che alla sua nozione di inchiesta si accosta in modalità del tutto avversa; la contraddizione interiore generatasi che la tiene scissa tra la volontà di auto-affermazione e la necessità di rimanere fedele alla propria concezione del lavoro giornalistico; l’infertilità e l’inesperienza sessuale, entrambe occlusioni di uno status psico-sociale che sterilizzano ulteriormente il sentirsi e l’essere donna al di fuori dell’occupazione lavorativa. 
Christine è impotente, e Campos, parallelamente, sembra mettere in scena un film a suo modo impotente e rassegnato, che mai spinge l’acceleratore e che mai s’incattivisce, tutto imperniato com’è su una figura femminile sfaccettata che si dischiude man mano e per la quale dimostra una sorta di soggezione, di distacco e calore insieme. Si direbbe che Campos teme di farle violenza o di incespicare arrovellandosi su una drammatizzazione esasperata, scegliendo la via più efficace di un’opera scritta in un diagramma di accordi in tonalità minore, sospesa, sempre sott’acqua. Perciò, quando la parabola sembra giungere alla sua ideale (e, qui, reale, essendo la sceneggiatura tratta da una storia vera) esplosione/implosione, egli gestisce il climax con la stessa lucida sobrietà, svuotandola da ogni virgola posticcia (anche sonora), riportando l’oggetto-film alla sua capacità di raccontare storie efficaci, perfettamente funzionanti in loro stesse, senza spaventosi orpelli ricattatori o lacrimevoli. 
L’indolenza e il carattere monocorde di cui è affetta l’opera potrebbero apparire, viceversa, limiti ritmici e narrativi eccessivamente gravanti su una richiesta di empatia non eclatante, ma connaturata. Sotto a un’apparente refrattarietà del discorso, giace una figura femminile, forse, ancora anomala per il grande schermo, e a lei si guarda con grande delicatezza e rispetto. Al di là dei giudizi di merito sul lavoro nel complesso, a interpretare Christine v’è un’eccezionale Rebecca Hall che sequestra l’attenzione e dà prova di inconsueta bravura, la cui segnalazione qui giunge ultima per oggettività di valore. Per lei ci auspichiamo giunga presto una nomination ai prossimi Oscar. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Torino 34

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Scheda tecnica

Titolo originale: Christine
Regia: Antonio Campos
Sceneggiatura: Craig Shilowich
Interpreti principali: Rebecca Hall, Michael C. Hall, Tracy Lettis, Maria Dizzia
Fotografia: Joe Anderson
Musiche: Danny Bensi, Saunder Jurriaans
Durata: 115’

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