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TORINO 33 - God Bless the Child, di Robert Machoian e Rodrigo Ojeda-Beck

3/12/2015

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Un’istantanea sull’infanzia lunga un film, quella realizzata dai registi Robert Machoian e Rodrigo Ojeda - Beck. Un’operazione in presa diretta che unisce vocazione documentaristica e afflato umano, facendo coesistere in maniera meravigliosa entrambe le istanze (perché dopotutto non sta scritto da nessuna parte che il documentario debba essere solo e soltanto una registrazione clinica e asettica di ciò che accade). 
God Bless the Child, punta di diamante del concorso dell’ultimo Torino Film Festival, è un piccolo, profondo film che restituisce l’utopia di un mondo senza adulti, guardando tutto ad altezza di bambino, in maniera limpida e purissima. Un’opera che riconcilia con gli occhi e con il cuore, che annulla quasi la presenza della macchina da presa pur sottolineandone a dismisura la presenza mobile e il movimento tangibile, che si dedica a innumerevoli momenti di vita quotidiana con dedizione e attenzione millimetrica per ogni dettaglio messo in scena. Un bambino su un letto, altri due bimbi che dissertano di supereroi chiedendosi chi impersonerà uno e chi invece farà l’altro. Molti sono piccolissimi, la loro madre è assente, e a badare a loro c’è la sorella maggiore, che però ha solo tredici anni e non sembra nemmeno vivere l’età che ha, subissata com’è da una quantità impressionante di responsabilità che la attanagliano e la frenano.

Sono le premesse di un universo familiare sfaccettato ed enormemente realistico, mai artefatto e sempre coinvolgente, anarchico e vitale, dove non ci sono regole e la regia pare inseguire a più riprese tale assenza di steccati e di imposizioni, fluttuando liberamente da una situazione all’altra. La costruzione visiva delle singole sequenze, nonostante tale impronta impressionistica e il tono saltellante dell’insieme, non perde però mai l’occasione di marcare la propria cura estetica, chiaro indizio di uno sguardo profondamente formale ma mai formalista. 
Non rinuncia al gioco, allo scherno e alla sincerità disarmante della propria visione del mondo, God Bless the Child, eppure è in grado di trovare, da qualche parte, una compostezza morale in grado di ricomporre tutto quanto e far quadrare il cerchio, con una solidità ammirevole che trascende l’apparente immediatezza e si fa sguardo sul mondo strutturato e composito. Tra levità e stupore, tra acutezza e incanto ludico. 

I bambini, che nella realtà sono figli di uno dei registi, Robert Machoian, sono oggetto di un’attenzione curiosa e interrogativa ma mai meramente giudicante, che non esita a specchiarsi nella loro libertà sfrenata, regredendo al grado zero dell’esistenza per poter tornare a vedere con occhi più puri e rinnovati. Non c’è ovviamente sceneggiatura, in God the Bless the Child, ma una cosciente e consapevole volontà di sganciarsi da qualsiasi forma di ripresa studiata e di soluzione paludata per dare vita a un affresco potente e grondante di spontaneità, capace di travalicare la rigidità dei generi. 
Documentario? Film di finzione abilmente negato e truccato da qualcos’altro? La più classica delle docufiction? Il film, a questo proposito, dà l’idea di infischiarsene con lo stesso incantevole menefreghismo dei suoi giovanissimi protagonisti, pescando dalla vita vissuta per ritagliare epifanie e istanti di verità da portare sullo schermo e da immortalare in tutta la loro irripetibile bellezza (si veda in particolar modo la scena corale nella quale più bambini insieme lavano un cane, una sequenza immersa in un’atmosfera di estatica bellezza). 
Girato in tre mesi, God Bless the Child è una scoperta preziosa, un film di una semplicità disarmante eppure complesso e mutevole, che cambia pelle di continuo inseguendo le bizze dell’età più irripetibile e incontaminata della vita, aprendosi nel finale a sequenze notturne dal forte impatto e a un epilogo che lascia un segno profondo, ben oltre i titoli di coda.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Regia: Robert Machoian, Rodrigo Ojeda-Beck
Sceneggiatura: Robert Machoian, Rebecca Graham
Fotografia: Robert Machoian
Montaggio: Robert Machoian, Rodrigo Ojeda-Beck
Cast: Harper Graham, Elias Graham, Arri Graham, Ezra Graham
Anno: 2015
Durata: 92'

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TORINO 33 - Keeper, di Guillaume Senez

1/12/2015

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​Maxime e Mélanie hanno 15 anni e stanno insieme. Quando lei comprende di essere incinta Maxime, dopo un'iniziale incredulità, si sente appagato dall'idea di un bambino in arrivo, mentre lei ci impiega un po' a prendere la decisione di non abortire. Decisione che deve fare i conti con l'ostilità della madre single di lei e con la rinuncia, da parte del ragazzo, alla strada che potrebbe aprirglisi di fronte, ovvero diventare un calciatore -portiere- professionista. L'apprestarsi a essere genitori così presto è qualcosa di gravoso; incertezze, passi falsi e influenze peseranno sui due.
Dopo essere passato a Locarno e Toronto, Keeper (titolo fondato su due significati del termine, “custode” e, in gergo calcistico, portiere) è stato inserito in concorso anche a Torino, aggiudicandosi il premio come miglior film. In effetti si tratta di un lavoro pregevole, dotato di leggerezza e di un'apprezzabile dose di pregnanza drammatica allo stesso tempo.
Senez – anche co-sceneggiatore – ci immette da subito nella vita dei due e nel loro essere coppia, tra effusioni e discussioni. Ma è proprio Maxime, il keeper del titolo, il personaggio seguito maggiormente. Se Mélanie, come ovvio, vive sul suo corpo la scelta di portare avanti la gravidanza – passando dall'impegnativa difesa di fronte alla madre allo sfogarsi per il sentirsi perennemente stanca a gestazione avanzata, con nel mezzo la felicità del momento della radiografia e della scoperta del sesso (maschile) del nascituro: chiaro quindi che non è un personaggio trascurato – , Maxime si trova paradossalmente ad abbandonare un sogno non più solo personale, in quanto assicurazione messa sul piatto per un futuro a tre, per stare insieme nell'immediato alla ragazza amata, in un momento cruciale nel quale necessita un supporto.
La convivenza dei due sotto il tetto dei genitori di Maxime, dopo una permanenza di lei in una casa per ragazze madri, non costituisce però uno scivolo sereno verso un happy end. Perché nell'ultima parte c'è un punto di svolta imprevisto che vira Keeper verso una gradazione più seria, e leva l'aura di bello che l'avventura dei due, ma anche il loro essere giovani, “carini” e innamorati, poteva ancora avere.
C'è poco da fare: i due neogenitori sono ancora maledettamente giovani e non indipendenti, con il carico di elementi positivi e negativi che questo comporta. Negativi come il fatto che arriva qualcun altro, si suppone più maturo e pragmatico, a prendersi carico di qualcosa che i due hanno cercato di rendere il più possibile una questione loro. Di fronte a ciò, a nulla possono gli “È mio” del giovane padre di fronte all'operatore del consultorio: logici, ma non pesano abbastanza. L'idealismo della coppia si rivela definitivamente debole di fronte a una realtà che a confronto è sicuramente spiacevole, frustrante e gretta. Maxime e Mélanie ne escono sconfitti, la loro relazione incerta.
Tutto questo viene fuori senza discorsi né aria da teorema (e togliendo al film ipotetici sospetti di conservatorismo) ed è narrato da Guillaume Senez con un naturalismo “autoriale”, in cui la testa sembra prevalere leggermente sul cuore; ma niente di grave, perché se non si entra davvero nei personaggi si accede comunque al loro mondo e in moderata misura si partecipa; il momento registicamente più marcato e che più esula dallo stile generale del film è quello che accompagna una svolta, quando nel disco pub la camera rimane a lungo sul volto serio di Mélanie che, seduta, medita una scelta.
L'ultima sequenza, in cui Maxime può finalmente vedere e tenere, in modo incerto, tra le braccia quel bimbo che è stato il centro di tutto ed è anche “cosa” sua, ma che è difficile sentire davvero tale – per la distanza fisica subito ripristinata col piccolo e per l'enormità del concetto di essere padre – funziona. Ma volendo segnalare un altro momento anche più riuscito, c'è la scena in cui il ragazzo si allena a parare insieme al padre, con una rabbia che è gioventù, l'imporsi di mettercela tutta e il sentire tutto il presente e il futuro sulle spalle.
Il personaggio della madre di Mélanie (Laetitia Dosch, emozionata fino alle lacrime durante la presentazione a Locarno) donna vissuta e decisa che è già passata per un'esperienza simile a quella della figlia e quindi la prende in malo modo, è al limite del programmatico nella sua antipatia ma efficace nel dare emotività a sequenze come quella del dialogo tra adulti e ragazzi riuniti. E sono giusti i due giovani protagonisti, Galatea Bellugi e il promettente Kacey Mottet Klein, già ammirato nell'ottimo Sister di Ursula Meier, calati in modo del tutto convincente in personaggi che suscitano simpatia, empatia e (consapevole) irritazione.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Regia: Guillaume Senez
Sceneggiatura: David Lambert, Guillaume Senez
Fotografia: Denis Jutzeler
Montaggio: Julie Brenta
Cast: Kacey Mottet Klein, Galatea Bellugi, Catherine Salee, Laetitia Dosch
Anno: 2015
Durata: 95'

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TORINO 33 - Coup de chaud, di Raphaël Jacoulot

29/11/2015

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​Una calda estate. Tanto calda. La più afosa degli ultimi decenni. Sudore, fatica, respiro affannoso, nervosismo che cresce sottopelle. Un piccolo villaggio di campagna, guidato da un sindaco/veterinario. Agricoltori che traggono il proprio sostentamento dai loro campi. Un artigiano da poco trasferitosi in paese. Adolescenti perdigiorno. Gente semplice, alla buona. O almeno così parrebbe. La classica comunità dove tutti conoscono tutti. E poi lui, Josef: un ragazzo affetto da lieve ritardo mentale, con il vizio di rubacchiare cose e infastidire le signore anziane e le poche coetanee graziose che si trovano nei paraggi; lo “scemo del villaggio”, sopportato ma non certo amato. Affatto.
I giorni passano, il caldo aumenta sempre più, di pioggia neanche l'ombra. L'acqua per irrigare i campi inizia gravemente a scarseggiare. Si decide di acquistare una pompa utile per estrarre acqua dal fiume e utilizzarla per evitare che la siccità distrugga i raccolti. Dopo qualche giorno la pompa sparisce. Nessuno ha le prove, ma tutti pensano che il colpevole del furto sia Josef. Il capro espiatorio più facile e immediato. La tensione sale, infine esplode. Josef viene assassinato. La polizia indaga, gli abitanti mostrano tristezza e dolore. Ma in realtà, sottotraccia, non sono poi così dispiaciuti. Anzi.

Terzo lungometraggio di Raphael Jacoulot, dopo Barrage (2006) e Avant l'aube (2011), Coup de chaud si è imposto come uno dei migliori titoli visti in concorso a Torino 33, tanto da aggiudicarsi due riconoscimenti non di poco conto: il premio del pubblico e quello di miglior attore, vinto dal giovane e sorprendente Karim Leklou, per il quale si può senz'altro prospettare (e auspicare) anche una nomination ai prossimi César. 
Tratto da una storia vera, il film accoglie su di sé molti elementi che caratterizzano e glorificano tanto cinema francese contemporaneo: la parziale semplicità della trama al servizio di una messinscena di alta precisione; la capacità di scavare in profondità all'interno del narrato; l'ambientazione in un microcosmo contenuto per spazi e personaggi, entro il quale si indagano le molteplici sfumature logistiche e caratteriali responsabili dei comportamenti umani. 
Il regista, sin dagli albori della trama, mette subito in mostra un'idea di base interessante, ovvero l'analisi della difficoltosa convivenza tra i cosiddetti “normali” e i presunti “diversi”. I comportamenti bizzarri di Josef, che gira per le vie del paese su un'automobile a tre ruote ascoltando musica techno a tutto volume, cozzano totalmente con le abitudini consolidate di chi vive a contatto con la natura e ogni giorno si sporca le mani lavorando nei campi; allo stesso modo l'imprevedibilità del ragazzo, la sua umoralità, i suoi scatti istintuali, mal si sposano con i ritmi degli altri abitanti del villaggio, chiusi in una quotidianità forse banale e noiosa ma almeno sicura e tutto sommato serena. 
La situazione, già in precario equilibrio, si sfalda quando il caldo insopportabile scioglie il raziocinio, annebbia i pensieri e obnubila la pazienza, insinuando nel villaggio un pericoloso germe volto a trovare tutti i costi un colpevole a cui affibbiare ogni evento spiacevole. L'attacco frontale a Josef diviene così uno sfogo, una boccata d'aria con cui combattere l'afa, un tagliente rasoio con cui provare a spezzare l'egemonia del tempo inclemente; la sua successiva morte si trasforma invece, addirittura, in un sollievo.

Chabroliano nell'anima, Coup de chaud è un “noir in pieno sole”, per citare e parafrasare il classico diretto da René Clément nel 1960; un lavoro arguto e preciso, schematico nelle sue coordinate basilari ma efficace nel disegnare i temi portanti di un terreno minato dove mettendo il piede nel punto sbagliato si rischia di saltare per aria. Jacoulot si fa accompagnare da un grande cast, dove accanto a Leklou si impongono il sempre meraviglioso Jean-Pierre Darroussin, il bravissimo Grégory Gadebois (Les Revenants) e una scatenata e carismatica Carole Franck, oltre ai quali si nota con affetto la presenza della ozpetekiana Serra Yilmaz. Attori di primo livello, bravi a sintonizzare la propria esperienza per dare volto e cuore a una realtà che sfida la luce opprimente della calura per trovare malsana consolazione nell'abbraccio del buio.
Quasi perfetto nella sua globalità, Coup de chaud si slabbra soltanto nella parte finale, quando decide di svelare a tutti i costi l'enigma riguardante l'assassinio di Josef; un epilogo più incerto e sfumato sarebbe stato preferibile. Restano comunque, senza dubbio, i meriti di un'opera che abbina sostanza e qualità, tessendo la tela di una società ipocrita e malata nella quale la solitudine impera e la perfidia si nasconde ovunque, scaltra e affamata, pronta a saltar fuori all'improvviso per catturare la malcapitata vittima di turno.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Regia: Raphaël Jacoulot
Sceneggiatura: Lise Machebœuf, Raphaël Jacoulot
Fotografia: Benoît Chamaillard 
Montaggio: François Quiqueré 
Costumi: Elisabeth Tavernier 
Musica: André Dziezuk 
Attori: Karim Leklou, Jean-Pierre Darroussin, Grégory Gadebois, Carole Franck, Isabelle Sadoyan, Serra Yilmaz
Anno: 2015
Durata: 102'

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TORINO 33 - I racconti dell'orso, di Samuele Sestieri e Olmo Amato

26/11/2015

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Inserito in concorso alla 33esima edizione del Torino Film Festival, I racconti dell’orso è la sorprendente e ispirata opera d’esordio di due giovani registi romani, Samuele Sestieri e Olmo Amato. Un oggetto volante non meglio identificato, specie se raffrontato con buona parte del cinema italiano contemporaneo che difficilmente si permette di osare e di sperimentare; una scheggia impazzita che richiede di essere contemplata e accolta dallo spettatore.
Durante un viaggio in auto una bambina si addormenta e sogna un mondo magico e incontaminato in cui un monaco meccanico dalla voce robotica e aliena rincorre un omino rosso buffo e spaventato. Arrivati sulla cima di una collina i due trovano un orsetto di peluche scucito e malandato che li farà riavvicinare; decideranno entrambi di prendersene cura per provare a rimetterlo in sesto e a ridargli nuova vita.
Incorniciato da paesaggi evocativi, suggestivi, meravigliosi, I racconti dell’orso si presenta come una favola onirica, tenera e poetica. Sostanzialmente privo di dialoghi, necessita di una certa pazienza e un elevato grado d’attenzione da parte del pubblico, purtroppo sempre più abituato a fruire di prodotti dove tali caratteristiche non sono richieste. 
Un piccolo gioiello immerso in scenari ancestrali, quasi fuori dal tempo, girato nel nord Europa, tra Finlandia e Norvegia, e finanziato in larga parte grazie ad una campagna di crowdfunding. Notevoli l’audacia e il coraggio dei due autori esordienti, che dimostrano di possedere, oltre a una certa padronanza del mezzo tecnico, grande personalità e una netta e precisa idea di cinema. Inquadrature ben studiate, un gran lavoro sulla luce e sull’immagine, un interessante utilizzo del sonoro e della musica.
Il film, diviso in sette capitoli, risulta più compatto e fluido nella prima parte, dove facciamo la conoscenza con i due strani e bizzarri protagonisti, interpretati proprio da Samuele Sestieri e Olmo Amato, capaci da subito di suscitare un’immediata simpatia e d’invitare e trascinare il pubblico a recuperare lo sguardo puro e limpido della fanciullezza. La seconda parte forse è un po’ troppo insistita e non si priva di qualche lungaggine che denota in ogni caso un profondo amore da parte dei due registi, autori anche di soggetto, sceneggiatura, fotografia e montaggio, nei confronti della loro creatura filmica. 
In conclusione I racconti dell’orso è un’opera sui generis, insolita e innovativa, da difendere e preservare all’interno del nostro cinema e a cui auguriamo le migliori fortune e una probabile e più che auspicabile visibilità attraverso i festival internazionali, in attesa di una possibile seppur difficoltosa distribuzione nelle nostre sale.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Titolo originale: I racconti dell’orso 
Anno: 2015
Regia: Samuele Sestieri e Olmo Amato
Sceneggiatura: Samuele Sestieri e Olmo Amato
Fotografia: Samuele Sestieri e Olmo Amato
Musiche: Riccardo Magni
Durata: 67’
Attori principali: Samuele Sestieri e Olmo Amato

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TORINO 33 - Paulina (La Patota), di Santiago Mitre

22/11/2015

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“Una delle sfide che La patota ci pone riguarda il rispetto delle decisioni che non condividiamo. È facile rispettare scelte identiche a quelle che avremmo fatto noi stessi, ma è praticamente impossibile provare a comprendere ciò che riteniamo sbagliato. Perché Paulina prende quella decisione? Cosa sta cercando, e cosa vuole dimostrare? Ce lo siamo domandati in ogni momento del film e continuiamo a farlo anche adesso.”

Le parole di Santiago Mitre, regista argentino classe 1980, qui al suo secondo lungometraggio dopo El estudiante (2011, premiato a Locarno), ben riassumono il senso profondo racchiuso all'interno di Paulina (La Patota), film reduce dalla vittoria alla Semaine de la Critique dell'ultimo festival di Cannes e ora presentato in concorso a Torino. Un lavoro che naviga con coerenza nel mare dell'incertezza, ponendo diverse domande senza peraltro fornire risposte, lasciando in eredità riflessioni mutevoli racchiuse negli occhi dolenti ma sempre determinati della sua protagonista.
Paulina ha 28 anni, è figlia di un potente giudice e ha un brillante futuro di avvocatessa davanti a sé. Eppure decide di deviare dalla comoda strada che ha di fronte, per partecipare a una missione umanitaria destinata all'insegnamento dei diritti fondamentali a ragazzi disagiati che vivono in una zona periferica situata al confine tra Argentina, Paraguay e Brasile. La sua decisione manda su tutte le furie il padre, incapace di comprendere per quale motivo la figlia possa anche solo pensare di perdere il proprio tempo con adolescenti sbandati invece di mettere a frutto i suoi studi e dare sostanza alla carriera di successo che l'attende. 
Paulina prosegue nel suo intento, si trasferisce nella scuola dove dovrà insegnare, fa amicizia con alcune colleghe, prova a inserirsi nella nuova e difficile realtà. Quando le cose iniziano a ingranare, sulla donna si abbatte la sventura: una notte viene assalita da cinque ragazzi del luogo, e stuprata da uno di essi. Lo shock è dirompente, ma superate le prime traumatiche ore Paulina volta le spalle a qualsiasi prassi relativa alla giustizia, finge di non sapere chi siano i suoi aguzzini, torna a insegnare come se niente fosse accaduto, e quando apprende che a causa della violenza subita è rimasta incinta, dimostra di non essere affatto sicura di voler abortire. 
Il bambino di Paulina è un essere che ha diritto alla vita, a discapito delle orribili circostanze in cui è stato concepito. Per questo motivo l'idea dell'aborto le risulta indigesta. Alla donna oltretutto non interessano né la vendetta, né tantomeno lo stancante iter giudiziario necessario a condannare i colpevoli. Ciò che le preme è soltanto comprendere i perché dell'accaduto. Trovare proprie risposte, proprie verità. Superare il terrore e ragionare sui fatti e le circostanze. Forse anche concedere una possibilità di redenzione ai suoi carnefici. Ma soprattutto, con intima urgenza, capire.
​
Sorretto dalle buone interpretazioni di Dolores Fonzi (la protagonista) e Oscar Martinez (il padre progressista che tale poi tanto non è), il film di Mitre intavola sin da subito un dialogo aperto con lo spettatore, mettendo sul piatto un'ampia gamma di dilemmi morali senza peraltro, fortunatamente, arrogarsi il dovere di fornire interpretazioni, chiarimenti o conclusioni. Il tema portante della pellicola, ovvero l'incapacità che spesso abbiamo di sforzarci nell'accettare le scelte altrui, per quanto sulla carta folli esse siano, diviene specchio riflettente di una realtà fragile in cui la violenza porta con sé cause non visibili a una prima lettura, ma abbastanza evidenti qualora se ne vogliano approfondire i connotati. Lo sguardo mai domo di Paulina, prima e dopo il nero evento, rappresenta in toto il cuore pulsante di una donna che ancora trascina con sé un'incrollabile fiducia nell'uomo, in quanto creatura depositaria di diritti sacrosanti e inalienabili per il solo fatto di essere una parte attiva e presente del mondo. Un dogma cristallino, solido e feroce, al punto di non crollare neanche dopo l'abiezione.
Compatto, denso, privo di fronzoli e pervaso da una tensione silente ma palpabile, il lavoro diretto e sceneggiato dall'autore argentino scivola dalla notte al giorno, dal pianto alla speranza, dalla paura alla coraggio, dall'istinto alla razionalità, senza mai perdere di vista il sentiero intrapreso e senza mai togliere alla sua figura di riferimento l'inesausto desiderio di camminare, respirare, imparare, analizzare, perdonare. Con fierezza e dignità. Forse sola contro tutti. Ma sempre a testa alta.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 33

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Scheda tecnica

Titolo originale: La Patota
Anno: 2015
Regia: Santiago Mitre
Sceneggiatura: Santiago Mitre, Mariano Llinás
Fotografia: Gustavo Biazzi
Montaggio: Delfina Castagnino, Leandro Aste, Joana Collier 
Musica: Nicolás Varchausky 
Durata: 103'
Attori: Dolores Fonzi, Oscar Martinez, Esteban Lamothe, Cristian Salguero, Verónica Llinás

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