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TORINO 33 - Tag, di Sion Sono

5/12/2015

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Si bea di un incipit folgorante e truculento, uno dei nuovi capitoli dell’esoso Sion Sono nel finire di questo 2015. Impianta un discorso destrutturato, per molti versi imperfetto, l’autore di Tag (Real onigokko), ma lo fa con i mezzi di sempre, forse, e al contempo in maniera diversamente originale, diversamente stratificata, spingendo al massimo l’acceleratore, solo lambendo le corsie preferenziali, toccando più e più rettilinei perpendicolari, con conscia ostentazione e alcun imbarazzo stilistico. 
La leva narrativa, fondante un discorso più ampio e a gamma esistenziale, consta di una teenager protagonista, Mitsuko, già outsider e già eroina, che assiste al trucidare impazzito delle teste delle compagne ad opera di un non meglio identificato vento, veicolato da foglie assassine che dimezzano un autobus di scolare. Anche le foglie corrono, ma mai più veloce di Mitsuko, che sembra privilegiata nel coglierne il passo e nel prevederne gli spostamenti. È solo un’entrée, roboante, allucinata, esaltante nell’unire gioco splatter ad apertura semi-drammatica, mentre s’insinua la metafora portante del meccanismo ludico, incapsulato in questa matriosca mobile e in continuo auto-plasmarsi. 
L’opera di Sion Sono, in questo senso, forte di elementi grotteschi, smaccatamente kitsch nel suo unire elementi impari e cozzanti, non teme di riavvolgersi continuamente, di imbastire diversi (medesimi) automatismi discorsivi ambendo a un rimescolare di situazioni disorganiche che puntano a confondere il fruitore, allietato nel tempo dagli strati di stridula comicità e dal virgolettante uso della camera, al solito esibizionista, fuori controllo, invischiata nel filmico come materia da ammaestrare, da suggellare. 
La corsa di Mitsuko copre, sotto forme ampliate e camuffate, l’intera lunghezza del corpo autorale, e lo farà sdoppiandosi e triplicandosi in ulteriori “umane” agenti in universi paralleli contingenti ma distinti, ove lo spunto sci-fi non può che sverginarsi presto collocandosi in un videogioco nipponico a tre, mezzo twist, mezzo apostrofo di una trama in apparenza verbosa ma consciamente misurata. 
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Il metamorfismo stilistico, che accarezza limbi smaccatamente volgari nella disposizione della materia, trova giustificazione in un appagamento da percepirsi in rapporto preferenziale con lo spettatore disposto a non domandare compostezza - laddove invece la sensazione a una terminata visione è quella di un’opera divertita, nervosa, procedente per scatti, ma inverosimilmente coesa. In fondo, ma anche in superficie ben osservabile, la meditazione di Sono è identica a se stessa, estremamente lucida ma anche, sostanzialmente, limpida nel suo dipanare il frangersi (e il consolidarsi) dell’elemento fatalista, assunto a metafora semplice dal fil rouge del testo, nonché piuma bianca che trova modo di infiltrasi sui campi macchiati di sangue e di action, sugli schermi neri, tra le fila di vite uniche e diverse, a relegare ogni divertissement per ridefinire spettro e linguaggio di un destino mitigato, ma biunivoco. 
Basterebbe l’universalità del tema e la sua primigenia ontologica a dissipare eventuali, pericolosi marchi di femminismo, sebbene la coralità inseminata da un unico elemento maschile sul finale potrebbe assurgere a testimonianza di un voler raccontare un “coming of age” circoscritto alla femminilità. Procrastinando chiuse, interrompendo climax testuali, Sono giunge poco stremato a un addensarsi di elementi tragici culminanti, che gettano nuova luce al continuo ibridarsi precedente e, preferendo, al solito, l’esistenzialismo che lo caratterizza nel tirare le fila, dimenticandosi della distensione umorale fino a quel momento liberamente sdaziata.  Sdrammatizzando, dunque, un correre di per sé salvifico, un correre contro un tempo fin troppo relativo, contro l’amnesia iniziale di Mitsuko, contro l’elemento escatologico di fondo che inzuppa il corpus integrale, a condurre, per dovere, all’annientamento consciamente imboccato come traguardo, ma, forse, già raggiunto in esordio. 
Un affastellamento faticoso, talvolta frustrante, quello dei registri e delle trame infilate l’una nell’altra; ma con Sono ci si diletta occhi, si rimane intrappolati nel ciclone (e qui, forse, con presa affettiva), anche dove la riflessione ultima pare non eccessivamente sotterranea o esposta a letture infinite. Il focus sul surreale, come sfondo riflessivo e a dimostrazione estetica, è qui davvero marchio indelebile e funzionale. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Torino 33

Articoli correlati Sion Sono:    Love & Peace     The Whispering Star     Love Exposure

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Scheda tecnica

Titolo originale: Real Onigokko
Anno: 2015
Regia: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono (ispirato al racconto di Yusuke Yamada)
Attori: Mariko Shinoda, Reina Triendl, Erina Mano
Durata: 85’

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TORINO 33 - Love & Peace, di Sion Sono

24/11/2015

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Il cinema come identità: è la chiave con cui Sion Sono affronta di volta in volta i soggetti più disparati, alla ricerca di quell'elemento comune che permetta la definizione di un personaggio o una comunità. Perché non è questione di bizzarria a tutti i costi, né della ricerca dello stupore fine a se stesso: la posta in gioco è sempre il cosa ci definisce in quanto esseri umani e società, nei suoi punti critici e in quelli virtuosi. La particolarità è il patto di tacita legittimazione che Sono chiede allo spettatore, la possibilità di unire punti altrimenti considerati lontani e che permettono di tracciare una mappa coerente ma allo stesso tempo aperta alle più svariate possibilità – da cui la sua tendenza a una produzione prolifica e molto diversificata.
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Prendiamo questo ultimo Love & Peace, ad esempio: c'è Ryoichi, un timido impiegato vessato dai colleghi d'ufficio che diventa una superstar pop dopo aver espresso il suo dolore per la perdita dell'amata tartaruga Pikadon. Particolare da non trascurare: il nome dell'animale è lo stesso che designa le bombe atomiche e quindi crea l'equivoco della star “impegnata”. Pikadon, intanto, finisce in una sorta di rifugio degli animali e dei giocattoli dimenticati, ma continuerà a cercare la felicità del suo padrone.
Un protagonista “mutante”, dunque, che si lega a doppio filo a una tartaruga che di per sé si fa carico di una mutazione fisica e concettuale: perché, in fondo, è l'animale che nel buddhismo simbolizza la felicità e che al cinema è Guardiano dell'universo (vedi alla voce: Gamera). Ecco, il segreto dell'identità per Sion Sono è a metà strada fra la rappresentazione mitologica che chiama in causa cultura e Storia, e l'immaginario derivato dal cinema che permette la traslazione in una chiave poetica. Il messaggio di speranza e di incitamento a costruire un mondo migliore, verso la realizzazione della propria felicità, si sposa perciò a una cifra più divertita e in grado di esaltare la meraviglia.
In tal senso, Love & Peace si offre come una tenera favola natalizia sulla traccia delle memorie perdute: che sono quelle storiche (le Olimpiadi del 1964 che hanno generato il boom economico, lo sgancio delle bombe atomiche del 1945) ma anche quelle personali, del legame infantile fra l'uomo e il giocattolo o l'animale domestico, destinato a essere infranto dalle logiche voraci della società “adulta” e consumistica. La parabola di Ryoichi è in fondo questa, da personaggio introflesso e ripiegato su un mondo di sogni, a icona di massa che oggettiva il desiderio proprio e altrui, ma perde di vista il suo vero io, secondo una logica – non a caso – un po' dickensiana. La forza di Sono è il candore con cui racconta tutto questo, come una favola dimenticata e che può ancora trasmettere un messaggio di speranza; ma anche come un universo poetico che alla modernità preferisce il tocco un po' retrò dell'effetto artigianale, delle marionette, delle barbe finte, delle parrucche e della suitmation (i figuranti nelle tute di gomme per creare il mostro di turno).

L'approdo finale al kaiju eiga è così lucido e doveroso, trattandosi in fondo di uno dei generi attraverso cui il cinema di genere nipponico ha definito la propria identità, anche e soprattutto in rapporto ai modelli orientali (il film sembra quasi una sorta di versione “adulta” di Gamera the Brave, di Ryuta Tasaki): è come se, con aria divertita, il regista giapponese spingesse il suo pubblico a guardarsi allo specchio, laddove il riflesso è l'immaginario partorito da un meccanismo spettacolare che cerca di recuperare la cifra più genuina della vita. Anche per questo la storia è un continuo saliscendi, un passare repentino dalle dinamiche più “grandi” (anche in rapporto al gigantismo di Pikadon), a quelle più piccole, personali e “intime”: da cui la deriva sentimentale di un amore fra Yoichi e la collega Yuko, nascosto eppure esplicito, ma destinato a restare l'unico filo narrativo non urlato, discreto, che non trova nemmeno la più completa delle risoluzioni, affidandosi al fuoricampo e alla speranza dello spettatore.
Il doppio passo è in fondo reso esplicito dalla marcia finale di Pikadon, fra il gigantismo dei palazzi che ricreano il gioco da tavolo del rapporto iniziale con Ryoichi: si scherza, ma non troppo, e il cinema spettacolare torna a essere veicolo di pulsioni più profonde. In fondo così si faceva un tempo, giusto per restare in tema di memoria...

Davide Di Giorgio

Sezione di riferimento: Torino 33

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​Scheda tecnica

Titolo originale: id.
Anno: 2015
Regia: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono (ispirato all'omonimo manga)
Fotografia: Nobuya Kimura 
Musica: Yasuhiko Fukuda 
Durata: 103'
Attori: Hiroki Hasegawa, Kumiko Aso, Toshiyuki Nishida

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TORINO 33 - Il programma ufficiale

16/11/2015

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​Lo scorso 9 novembre 2015 è stato annunciato presso la Casa del Cinema di Roma il programma per questa tangibilmente attesa 33esima edizione del Torino Film Festival, ideale (e reale) locus amoenus privilegiato da gran parte dei soliti frequentatori di festival cinematografici da molti anni. Non ce ne vogliano i festival “minori”, ma nemmeno le istituzioni rinsecchite e le rassegne (quasi) neo-nate e già stanche. 
Questa previsione sulla carta, a distanza di una settimana di riflessione e di irreprimibile hype, si dispiega, al solito, in tutta la sua bella potenzialità, con un’ampia e disparata gamma di titoli provenienti dalle cinematografie internazionali e mettendo a lucido monumenti del passato. Tra quest’ultimi si scomodano, nella sezione “Cose che verranno” e sotto il denominatore dello sci-fi distopico, un manipolo di nomi delle cui visioni ci si bea sempre gli occhi, a partire dall’Alphaville godardiano al mai abbastanza goduto “Stalker” di Tarkovskij, ai classici di Miller e di Scott, fino ai dissotterramenti più che dovuti di Fleischer e Watkins. 
​
Pur non archiviando con fretta, ma obbligatoriamente proseguendo dall’esterno al cuore pulsante di questa parata torinese, e sedando (per ora) l’immancabile frenesia quando si lambisce l’asiatico e determinate zone di culto, svettano, rimbombano in tutta la loro caratteriale e inquieta marca autoriale, i tre (!) titoli in lista del poliedricissimo Sion Sono. Costretto a distribuire tra i festival del mondo uscite cinematografiche polpose e numerose e schizofrenicamente diversissime l’una dall’altra (si ricordano sempre ben volentieri le sue sei opere pronte al rilascio), Torino, già memore della rassegna interamente dedicata al regista nel 2011, propone “Tag”, a metà tra horror e fantascienza, possibilmente sanguinolento e impazzito; “Love & Peace” che cambia registro, probabilmente dissolvendosi in una comedy/musical dispersa in una polvere (mai troppo) zuccherosa; “Shinjuku Swan”, che come prima Tokyo Tribe tenta l’adattamento da un manga, assimilandone forse la tenuta ritmica e l’impianto coloristico (auspicando, noi, in risultati dissimili). Basterebbe già, in sé, a dichiararne la non fortunata (perché ormai abituale) superiorità in campo di alchimia filmica. Citiamo, però, e in modalità del tutto obbligata, “The Assassin” del taiwanese Hou Hsiao-hsien, premiato quest’anno a Cannes con il Prix de la mise en scène, per la cui misurata e liquida regia è lecita una fiduciosa aspettativa. A lui s’aggiunge Apichatpong Weerasethakul (polimorfo autore che spazia dalla regia alla video arte) con il suo “Cemetery of Splendour”, che si promette lavoro umbratile, riflessivo e stratificato nell’affrontare fantasmi autobiografici e antichi spiriti. 
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In prossimità inglese (e, a seguire, americana), invece, scorgiamo un numero quasi imbarazzante per orizzontalità di titoli, tra i quali si fatica a sbrogliare e districare per assoggettarsi a un qualsivoglia orientamento. La vastità è tale che a isolare i nomi arbitrariamente o con selettività si compierebbe dell’eguale torto, perciò ci limitiamo a segnalare le sovraesposizioni, le appetibilità, gli echi più lunghi. Quasi a campione, a ruota libera, estraendo: Sarah Gavron (che esordì nel 2007 sempre in loco piemontese con “Brick Lane”) e il suo “Suffraggette”, fresco della triade di un cast felicemente ultra-femminile (Mulligan, Bonham-Carter e Streep); John Crowley, giovane regista di cui si ricorda il più che discreto “Boy A”, 2007, con “Brooklyn”, tormentata love story imbastita in scenari 50s; “High-rise” di Ben Wheatley, dal suo canto, oltre a un cast a fuoco (la Miller e Hiddleston), assicura una degenerazione paranoide in odore di algidità e perfezionismo della mise en scène; in sentore già statunitense, “Burnt” di John Welles, produttore d’una infinità di pellicole di successo, scardinato da un cast impazzito e diseguale (Bradley Cooper, Sienna Miller, Uma Thurman, Alicia Vikander, Lily James), a narrare l’autoaffermazione esistenziale e lavorativa di uno chef impantanato nelle sue galere mentali; trionfante al Sundance di quest’anno, “Me and Earl and the Dying Girl” di Alfonso Gomez-Rejon, che s’evince già godibile indie-teen-movie scapestrato e disfunzionale; ancora una donna a dirigere un’altra (meravigliosa) donna, nonché una Kate Winslet rossa e incattivita sotto le fila dell’australiana Jocelyn Moorhouse, con “The Dressmaker”.

Pregne anche le file dall’impronta orrifica e i lidi strettamente documentaristi, tra i quali indichiamo, per la prima delle categorie, Sean Byrne e il suo “The Devil’s Candy”, già autore del notevolissimo “The Loved Ones”, 2009, e “The Girl in the Photographs” di Nick Simon, nonché ultima fatica in qualità di produttore esecutivo per Wes Craven; nella sezione documentaria isoliamo il canto d’amore per la gente honkonghese di Cristopher Doyle, idolatrato direttore della fotografia per Wong Kar-wai, Jim Jarmusch e Gus Van Sant, e una lista davvero eterogenea di autori francesi, italiani, spagnoli, e ancora. 
Si fa un gran parlare, d’altronde, della colossale trilogia-fiume del portoghese Miguel Gomes, sorta di rielaborazione storico-sociale in chiave satirica de “Le Mille e una Notte”, mitologie innescate dalle angosciose sorti di un regista che si vede costretto a introdurre un narratore, dal quale si dipanerà poi un excursus nella terra portoghese, teatro di visionarietà drammatica. 
Ridotte, invece, le presenze francesi e dense quelle italiane, anche se ricolme, per entrambi le nazioni, di scie documentarie. Da una parte, l’opera prima dello sceneggiatore di Jacques Audiard (“Sulle mie labbra” e il recentissimo Dheepan), Frédéric Grivois, un film d’animazione e, per l’appunto, numerosi documentari; dall’altra, “La felicità è un sistema complesso” di Gianni Zanasi, immaginabile commedia nera, insieme al film di pre-apertura “Bella e perduta” di Pietro Marcello (e, comunque, moltissimi altri). 
Come sempre, si destina grande affidamento agli esordi, alle promesse, agli autori nascosti da ammirare per la prima volta. 
Davvero, buon (gran) Torino. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Torino 33

Tutto il programma dettagliato sul sito ufficiale

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