ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
  • HOME
  • REDAZIONE
  • LA VIE EN ROSE
  • FILM USCITI AL CINEMA
  • EUROCINEMA
  • CINEMA DAL MONDO
  • INTO THE PIT
  • VINTAGE COLLECTION
  • REVIVAL 60/70/80
  • ITALIA: TERZA VISIONE
  • AMERICA OGGI
  • ANIMAZIONE
  • TORINO FILM FESTIVAL
    • TORINO 31
    • TORINO 32
    • TORINO 33
    • TORINO 34-36-37
  • LOCARNO
    • LOCARNO 66-67-68
    • LOCARNO 69
    • LOCARNO 72-74-75
  • CANNES
    • CANNES 66
    • CANNES 67
    • CANNES 68
    • CANNES 69
  • VENEZIA
  • ALTRI FESTIVAL
  • SEZIONI VARIE
    • FILM IN TELEVISIONE
    • EXTRA
    • INTERVISTE
    • NEWS
    • ENGLISH/FRANÇAIS
  • SPECIAL WERNER HERZOG
  • SPECIAL ROMAN POLANSKI
  • ARCHIVIO DEI FILM RECENSITI
  • CONTATTI

TORINO 33 - The Assassin, di Hou Hsiao-hsien

8/12/2015

0 Comments

 
Immagine
Il misticismo di Hou Hsiao-hsien, nove anni dopo “Le Voyage du Ballon Rouge”, ammanta e satura, più come necessaria liberazione che posticcia aderenza, un maestoso – eppure incorporeo, etereo, impalpabile – lavoro che da radici culturali (e in sé, letterarie e cinematografiche) e storiche sceglie diramazioni mai scoscese, sebbene inusuali, che si allargano in una naturalezza del farsi rara e incapsulabile come fenomeno algebricamente esatto. Semmai, è sintomatico di condizioni tecniche e artistiche difficilmente isolabili e ripetibili (nell’ambito di una filmografia e in senso estremamente più onnicomprensivo). 
La sensazione è che si farebbe un torto e si sprecherebbero parole a voler riassumere un dispiegarsi dei fatti e degli antefatti in modalità del tutto didascalica, quando è l’oggetto stesso a ripudiare la prolissità e ad operare dinamiche di condensazione, in canali conduttivi epurati ma dai quali il messaggio scolastico e dogmatico viene bandito, in onore di una supremazia dell’immagine, a tentare una pulizia semantica e vincendo rischi di carattere convenzionale. 
Procede per flash, per istantanee assimilabili ad affreschi mai servilmente pittorici, da cogliersi programmandosi su una modalità il più fenomenica possibile, sorretti da una lunghezza che non giace sotto il suo peso, ma che fluisce immateriale ed astratta, in sé potenziando la comprensione percettiva. 
Una narrazione che circola attorno i topoi di un genere, come spesso didatticamente ricordato, quello del wuxia (più classicamente, le dinamiche arti marziali), che ivi si discioglie nella liquidità tangibile dei campi, dimenticando il suo nome e circumnavigando sentieri di significato abbraccianti una tonalità vasta, dal movente di vendetta che contrasta il moto di desiderio per un uomo che lei, Nie Yinniang, omicida suprema, deve uccidere; all’ordine degli assassini nel quale la  giovane donna combattente, dall’aura composta e dalla nobiltà fisionomica, è compartecipante -  sebbene poi divisa nel melodramma (che qui è disfatto in una soluzione acquosa, abbarbicato su una malinconia pervasiva, su un ripiegarsi intimista e minimale che smussa ogni snodo reattivo). 
La trasversalità storica è poi decisiva, e va al di là, si pensa, di una prospettiva ottica occidentale che pone, dovutamente, a una distanza lontana, ma non per questo meno munita nel cogliere il nevralgico che qui è per nulla discorsivo e, come si è detto, essenzialmente sensoriale. 
​
Nei campi medi e lunghi di cui è quasi integralmente composto il testo, giace una mobilità che è il paradosso di un’immobilità costante, la cui stasi viene sommariamente infranta da un’azione che riconduce alla via referenziale ma denuncia la sua fattuale e impraticabile comunanza: è il battito di un paio di ciglia, che persino il materico di spade e contusioni scompare in una nuvola greve di sostanza aerea, ad avvelenare un’altra giovane asservita a una casta governativa, a farla accasciare al suolo, esangue.  
A orpello inscindibile di uno sguardo terso e focalizzato sull’immanente, Hsiao-Hsien è forte di una fotografia congeniale al suo progetto, accentuando l’indice eidetico e differenziando le temporalità nettamente suddivise tra prologo, redatto in un bianco e nero memoriale, e uno sgorgare di cromatismo mediamente saturo e sovente sovraesposto o in un ricercato rumore dell’immagine a sottolineare il collante con il presente. Ma è una schiusa breve, perché, tra scenografie ammiccanti l’estetico (a cui è ovviamente irriducibile l’opera) e stasi osservative su un elemento paesaggistico infuso di riflessività, a imprimersi nella mdp, sonda statica, a caratterizzare il soggetto rimane un formalismo realmente calibrato, a sfiorare la diluizione perfetta, ove l’urgenza espressiva è rinnegata in favore di un alchemico, pensato dosaggio. 
A cogliere oltre la superficie di pura soggettiva percezione, si delinea la riflessione sulla gabbia socio-politica che stringe e soffoca l’imperturbabile Nie, divisa tra ordini ricevuti, rispetto di una legge di branco ingioiellata dal potere e spiragli emotivi, fiotti di sentimento represso ora forse non più segregabile. A riprova di questa cosa che è fare cinema: sfruttare logiche implicative sempre uguali e rendere essenziale lo Sguardo. 
Con registro anti-spettacolare, come primo fastello della tessera identificativa di un autore mai eccessivamente produttivo, con The Assassin Hsiao-Hsien conferma e si distanzia al contempo dai lavori più recenti, raccontando la stessa storia, alla maniera ellittica che gli è consona, ma avvolgendola di suggestioni visive sempre più rarefatte e rifuggendo perciò ogni referente con il proprio tempo e il proprio luogo.  E a ricordare, ancora e con alcuna stanchezza, la necessità di assecondare, seppur placidamente, il proprio naturale ordine emozionale. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Torino 33, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale:  Nie yin niang
Regia: Hou Hsiao-hsien
Anno: 2015
Sceneggiatura: Hou Hsiao-Hsien, Chu Tien-wen, Hsieh Hai-Meng, Zhong Acheng
Fotografia: Mark Lee Ping Bing
Musica: Lim Giong
Durata: 105’
Attori: Qi Shu, Chen Chang, Satoshi Tsumabuki

0 Comments

TORINO 33 - Tag, di Sion Sono

5/12/2015

0 Comments

 
Immagine
Si bea di un incipit folgorante e truculento, uno dei nuovi capitoli dell’esoso Sion Sono nel finire di questo 2015. Impianta un discorso destrutturato, per molti versi imperfetto, l’autore di Tag (Real onigokko), ma lo fa con i mezzi di sempre, forse, e al contempo in maniera diversamente originale, diversamente stratificata, spingendo al massimo l’acceleratore, solo lambendo le corsie preferenziali, toccando più e più rettilinei perpendicolari, con conscia ostentazione e alcun imbarazzo stilistico. 
La leva narrativa, fondante un discorso più ampio e a gamma esistenziale, consta di una teenager protagonista, Mitsuko, già outsider e già eroina, che assiste al trucidare impazzito delle teste delle compagne ad opera di un non meglio identificato vento, veicolato da foglie assassine che dimezzano un autobus di scolare. Anche le foglie corrono, ma mai più veloce di Mitsuko, che sembra privilegiata nel coglierne il passo e nel prevederne gli spostamenti. È solo un’entrée, roboante, allucinata, esaltante nell’unire gioco splatter ad apertura semi-drammatica, mentre s’insinua la metafora portante del meccanismo ludico, incapsulato in questa matriosca mobile e in continuo auto-plasmarsi. 
L’opera di Sion Sono, in questo senso, forte di elementi grotteschi, smaccatamente kitsch nel suo unire elementi impari e cozzanti, non teme di riavvolgersi continuamente, di imbastire diversi (medesimi) automatismi discorsivi ambendo a un rimescolare di situazioni disorganiche che puntano a confondere il fruitore, allietato nel tempo dagli strati di stridula comicità e dal virgolettante uso della camera, al solito esibizionista, fuori controllo, invischiata nel filmico come materia da ammaestrare, da suggellare. 
La corsa di Mitsuko copre, sotto forme ampliate e camuffate, l’intera lunghezza del corpo autorale, e lo farà sdoppiandosi e triplicandosi in ulteriori “umane” agenti in universi paralleli contingenti ma distinti, ove lo spunto sci-fi non può che sverginarsi presto collocandosi in un videogioco nipponico a tre, mezzo twist, mezzo apostrofo di una trama in apparenza verbosa ma consciamente misurata. 
​
Il metamorfismo stilistico, che accarezza limbi smaccatamente volgari nella disposizione della materia, trova giustificazione in un appagamento da percepirsi in rapporto preferenziale con lo spettatore disposto a non domandare compostezza - laddove invece la sensazione a una terminata visione è quella di un’opera divertita, nervosa, procedente per scatti, ma inverosimilmente coesa. In fondo, ma anche in superficie ben osservabile, la meditazione di Sono è identica a se stessa, estremamente lucida ma anche, sostanzialmente, limpida nel suo dipanare il frangersi (e il consolidarsi) dell’elemento fatalista, assunto a metafora semplice dal fil rouge del testo, nonché piuma bianca che trova modo di infiltrasi sui campi macchiati di sangue e di action, sugli schermi neri, tra le fila di vite uniche e diverse, a relegare ogni divertissement per ridefinire spettro e linguaggio di un destino mitigato, ma biunivoco. 
Basterebbe l’universalità del tema e la sua primigenia ontologica a dissipare eventuali, pericolosi marchi di femminismo, sebbene la coralità inseminata da un unico elemento maschile sul finale potrebbe assurgere a testimonianza di un voler raccontare un “coming of age” circoscritto alla femminilità. Procrastinando chiuse, interrompendo climax testuali, Sono giunge poco stremato a un addensarsi di elementi tragici culminanti, che gettano nuova luce al continuo ibridarsi precedente e, preferendo, al solito, l’esistenzialismo che lo caratterizza nel tirare le fila, dimenticandosi della distensione umorale fino a quel momento liberamente sdaziata.  Sdrammatizzando, dunque, un correre di per sé salvifico, un correre contro un tempo fin troppo relativo, contro l’amnesia iniziale di Mitsuko, contro l’elemento escatologico di fondo che inzuppa il corpus integrale, a condurre, per dovere, all’annientamento consciamente imboccato come traguardo, ma, forse, già raggiunto in esordio. 
Un affastellamento faticoso, talvolta frustrante, quello dei registri e delle trame infilate l’una nell’altra; ma con Sono ci si diletta occhi, si rimane intrappolati nel ciclone (e qui, forse, con presa affettiva), anche dove la riflessione ultima pare non eccessivamente sotterranea o esposta a letture infinite. Il focus sul surreale, come sfondo riflessivo e a dimostrazione estetica, è qui davvero marchio indelebile e funzionale. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Torino 33

Articoli correlati Sion Sono:    Love & Peace     The Whispering Star     Love Exposure

​
Scheda tecnica

Titolo originale: Real Onigokko
Anno: 2015
Regia: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono (ispirato al racconto di Yusuke Yamada)
Attori: Mariko Shinoda, Reina Triendl, Erina Mano
Durata: 85’

0 Comments

TORINO 33 - Iona, di Scott Graham

5/12/2015

0 Comments

 
Immagine
Iona e il figlio, dal soprannome Bull, sono in fuga: stanno tornando nell'isola in cui la donna è nata e cresciuta, perché il ragazzo ha ucciso il patrigno che le usava violenza. Lei arranca nel riambientarsi e riprendere i rapporti con persone della sua vita che non vede da molto; lui trova nel credere in Dio un modo per alleggerirsi dal gesto compiuto. Ma il passato, remoto e prossimo, ha conseguenze.
Vincitore del TFF nel 2012 con Shell, Scott Graham scrive e dirige con Iona un dramma dall'evidente punto di contatto con la sua opera prima, che vedeva al centro un (morboso) rapporto tra padre e figlia, mentre qui abbiamo una madre e un figlio dal legame tutto sommato distaccato. Un padre ci sarebbe anche ed è l'uomo attempato da cui i due alloggiano, e la cui figlia, Elizabeth, era la migliore amica di Iona; Elizabeth ha anche una figlia, dalle estremità inferiore paralizzate e oggetto di preghiere e cure, con cui Bull abbozza una relazione, malvista dai genitori di lei.
Nonostante sia stato il ragazzo a commettere il gesto che li ha portati a cercar rifugio altrove, la più tormentata, sotto una scorza di freddezza, è la madre. Tagliando un ponte per riallacciarsi al suo passato da cui a sua volta aveva tagliato ogni aggancio, Iona si rende conto di non poter controllare tutto e tutti (nonostante sia pronta anche a mettere in gioco il suo corpo per questo e nonostante Bull non giunga a sapere l'identità del padre), in primis il livello di elaborazione di quanto accaduto e la voglia di aprirsi da parte del figlio. Non può esserci per lei serenità o distensione, e non sembra comunque mai credere realmente che possano presentarsi. È come se la vita relazionale della protagonista non comprendesse rapporti personali risolti; se c'è stata felicità nella sua vita ne ha fatto esperienza, sull'isola, un po' di tempo prima.
In una comunità imbevuta di fede, in cui si ringrazia sempre il Signore prima di toccare il cibo (come siamo abituati a veder fare alle famiglie americane), la donna dice al figlio di non pregare, perché non serve. Ma su questo terreno lo vede sfuggirle (in un film, peraltro, in cui i personaggi, quasi sempre seri, a volte si perdono proprio di vista tra loro, muovendosi nell'ambientazione e meditando solitari); Bull, affascinato dalla religiosità altrui, sembra aver trovato una strada, cosa che lei è lungi dal riuscire a fare, anche se tutto deve ancora avviarsi alla sua conclusione.
​
Lo sguardo di Graham, non supportato da musica, è sempre meditato, dotato di senso e di forza, e i volti comunicano il peso del vissuto; anche se a conti fatti sorge qualche sospetto di maniera. Nel film si parla abbastanza poco, la laconicità ne è parte integrante. Essa ha anche dei fini espressivi e narrativi: all'inizio funge da scudo, poi rotto da muti flashback, per l'antefatto e tocca anche, lasciando disorientati, le motivazioni dei personaggi, come succede con Bull e con la scelta estrema che compie alla fine (dopo una bizzarra fuga al termine di un rapporto sessuale). Di fronte a ciò, un paio di passaggi in cui si parla del passato sembrano quasi didascalici, ma il punto è che tale laconicità sembra leggermente forzata, ai fini della messa a punto di qualcosa che sia “artistico”. Come se il regista avesse fatto prevalere le idee, e il suo modo di fare cinema, alla costruzione dei personaggi. Il conteggio finale dei morti lo si tende ad accettare trattandosi di un film controllato, ma siamo dalle parti di una sagra della sfortuna che non convince completamente.
Pur suscitando alcuni dubbi, e risultando meno bello e meno aperto verso l'emozione dello spettatore rispetto a Shell, Iona è comunque una boccata di buon cinema che non meriterebbe di sparire o quasi come capitato al film precedente. E la protagonista Ruth Negga (Iona) buca lo schermo.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Torino 33


​Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Scott Graham
Attori: Ruth Negga, Ben Gallagher, Michelle Duncan, Tom Brooke
Fotografia: Yoliswa von Dallvitz
Montaggio: Florian Nonnenmacher
Anno: 2015
Durata: 90'

0 Comments

TORINO 33 - God Bless the Child, di Robert Machoian e Rodrigo Ojeda-Beck

3/12/2015

0 Comments

 
Immagine
Un’istantanea sull’infanzia lunga un film, quella realizzata dai registi Robert Machoian e Rodrigo Ojeda - Beck. Un’operazione in presa diretta che unisce vocazione documentaristica e afflato umano, facendo coesistere in maniera meravigliosa entrambe le istanze (perché dopotutto non sta scritto da nessuna parte che il documentario debba essere solo e soltanto una registrazione clinica e asettica di ciò che accade). 
God Bless the Child, punta di diamante del concorso dell’ultimo Torino Film Festival, è un piccolo, profondo film che restituisce l’utopia di un mondo senza adulti, guardando tutto ad altezza di bambino, in maniera limpida e purissima. Un’opera che riconcilia con gli occhi e con il cuore, che annulla quasi la presenza della macchina da presa pur sottolineandone a dismisura la presenza mobile e il movimento tangibile, che si dedica a innumerevoli momenti di vita quotidiana con dedizione e attenzione millimetrica per ogni dettaglio messo in scena. Un bambino su un letto, altri due bimbi che dissertano di supereroi chiedendosi chi impersonerà uno e chi invece farà l’altro. Molti sono piccolissimi, la loro madre è assente, e a badare a loro c’è la sorella maggiore, che però ha solo tredici anni e non sembra nemmeno vivere l’età che ha, subissata com’è da una quantità impressionante di responsabilità che la attanagliano e la frenano.

Sono le premesse di un universo familiare sfaccettato ed enormemente realistico, mai artefatto e sempre coinvolgente, anarchico e vitale, dove non ci sono regole e la regia pare inseguire a più riprese tale assenza di steccati e di imposizioni, fluttuando liberamente da una situazione all’altra. La costruzione visiva delle singole sequenze, nonostante tale impronta impressionistica e il tono saltellante dell’insieme, non perde però mai l’occasione di marcare la propria cura estetica, chiaro indizio di uno sguardo profondamente formale ma mai formalista. 
Non rinuncia al gioco, allo scherno e alla sincerità disarmante della propria visione del mondo, God Bless the Child, eppure è in grado di trovare, da qualche parte, una compostezza morale in grado di ricomporre tutto quanto e far quadrare il cerchio, con una solidità ammirevole che trascende l’apparente immediatezza e si fa sguardo sul mondo strutturato e composito. Tra levità e stupore, tra acutezza e incanto ludico. 

I bambini, che nella realtà sono figli di uno dei registi, Robert Machoian, sono oggetto di un’attenzione curiosa e interrogativa ma mai meramente giudicante, che non esita a specchiarsi nella loro libertà sfrenata, regredendo al grado zero dell’esistenza per poter tornare a vedere con occhi più puri e rinnovati. Non c’è ovviamente sceneggiatura, in God the Bless the Child, ma una cosciente e consapevole volontà di sganciarsi da qualsiasi forma di ripresa studiata e di soluzione paludata per dare vita a un affresco potente e grondante di spontaneità, capace di travalicare la rigidità dei generi. 
Documentario? Film di finzione abilmente negato e truccato da qualcos’altro? La più classica delle docufiction? Il film, a questo proposito, dà l’idea di infischiarsene con lo stesso incantevole menefreghismo dei suoi giovanissimi protagonisti, pescando dalla vita vissuta per ritagliare epifanie e istanti di verità da portare sullo schermo e da immortalare in tutta la loro irripetibile bellezza (si veda in particolar modo la scena corale nella quale più bambini insieme lavano un cane, una sequenza immersa in un’atmosfera di estatica bellezza). 
Girato in tre mesi, God Bless the Child è una scoperta preziosa, un film di una semplicità disarmante eppure complesso e mutevole, che cambia pelle di continuo inseguendo le bizze dell’età più irripetibile e incontaminata della vita, aprendosi nel finale a sequenze notturne dal forte impatto e a un epilogo che lascia un segno profondo, ben oltre i titoli di coda.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Regia: Robert Machoian, Rodrigo Ojeda-Beck
Sceneggiatura: Robert Machoian, Rebecca Graham
Fotografia: Robert Machoian
Montaggio: Robert Machoian, Rodrigo Ojeda-Beck
Cast: Harper Graham, Elias Graham, Arri Graham, Ezra Graham
Anno: 2015
Durata: 92'

0 Comments

TORINO 33 - Keeper, di Guillaume Senez

1/12/2015

0 Comments

 
Immagine
​Maxime e Mélanie hanno 15 anni e stanno insieme. Quando lei comprende di essere incinta Maxime, dopo un'iniziale incredulità, si sente appagato dall'idea di un bambino in arrivo, mentre lei ci impiega un po' a prendere la decisione di non abortire. Decisione che deve fare i conti con l'ostilità della madre single di lei e con la rinuncia, da parte del ragazzo, alla strada che potrebbe aprirglisi di fronte, ovvero diventare un calciatore -portiere- professionista. L'apprestarsi a essere genitori così presto è qualcosa di gravoso; incertezze, passi falsi e influenze peseranno sui due.
Dopo essere passato a Locarno e Toronto, Keeper (titolo fondato su due significati del termine, “custode” e, in gergo calcistico, portiere) è stato inserito in concorso anche a Torino, aggiudicandosi il premio come miglior film. In effetti si tratta di un lavoro pregevole, dotato di leggerezza e di un'apprezzabile dose di pregnanza drammatica allo stesso tempo.
Senez – anche co-sceneggiatore – ci immette da subito nella vita dei due e nel loro essere coppia, tra effusioni e discussioni. Ma è proprio Maxime, il keeper del titolo, il personaggio seguito maggiormente. Se Mélanie, come ovvio, vive sul suo corpo la scelta di portare avanti la gravidanza – passando dall'impegnativa difesa di fronte alla madre allo sfogarsi per il sentirsi perennemente stanca a gestazione avanzata, con nel mezzo la felicità del momento della radiografia e della scoperta del sesso (maschile) del nascituro: chiaro quindi che non è un personaggio trascurato – , Maxime si trova paradossalmente ad abbandonare un sogno non più solo personale, in quanto assicurazione messa sul piatto per un futuro a tre, per stare insieme nell'immediato alla ragazza amata, in un momento cruciale nel quale necessita un supporto.
La convivenza dei due sotto il tetto dei genitori di Maxime, dopo una permanenza di lei in una casa per ragazze madri, non costituisce però uno scivolo sereno verso un happy end. Perché nell'ultima parte c'è un punto di svolta imprevisto che vira Keeper verso una gradazione più seria, e leva l'aura di bello che l'avventura dei due, ma anche il loro essere giovani, “carini” e innamorati, poteva ancora avere.
C'è poco da fare: i due neogenitori sono ancora maledettamente giovani e non indipendenti, con il carico di elementi positivi e negativi che questo comporta. Negativi come il fatto che arriva qualcun altro, si suppone più maturo e pragmatico, a prendersi carico di qualcosa che i due hanno cercato di rendere il più possibile una questione loro. Di fronte a ciò, a nulla possono gli “È mio” del giovane padre di fronte all'operatore del consultorio: logici, ma non pesano abbastanza. L'idealismo della coppia si rivela definitivamente debole di fronte a una realtà che a confronto è sicuramente spiacevole, frustrante e gretta. Maxime e Mélanie ne escono sconfitti, la loro relazione incerta.
Tutto questo viene fuori senza discorsi né aria da teorema (e togliendo al film ipotetici sospetti di conservatorismo) ed è narrato da Guillaume Senez con un naturalismo “autoriale”, in cui la testa sembra prevalere leggermente sul cuore; ma niente di grave, perché se non si entra davvero nei personaggi si accede comunque al loro mondo e in moderata misura si partecipa; il momento registicamente più marcato e che più esula dallo stile generale del film è quello che accompagna una svolta, quando nel disco pub la camera rimane a lungo sul volto serio di Mélanie che, seduta, medita una scelta.
L'ultima sequenza, in cui Maxime può finalmente vedere e tenere, in modo incerto, tra le braccia quel bimbo che è stato il centro di tutto ed è anche “cosa” sua, ma che è difficile sentire davvero tale – per la distanza fisica subito ripristinata col piccolo e per l'enormità del concetto di essere padre – funziona. Ma volendo segnalare un altro momento anche più riuscito, c'è la scena in cui il ragazzo si allena a parare insieme al padre, con una rabbia che è gioventù, l'imporsi di mettercela tutta e il sentire tutto il presente e il futuro sulle spalle.
Il personaggio della madre di Mélanie (Laetitia Dosch, emozionata fino alle lacrime durante la presentazione a Locarno) donna vissuta e decisa che è già passata per un'esperienza simile a quella della figlia e quindi la prende in malo modo, è al limite del programmatico nella sua antipatia ma efficace nel dare emotività a sequenze come quella del dialogo tra adulti e ragazzi riuniti. E sono giusti i due giovani protagonisti, Galatea Bellugi e il promettente Kacey Mottet Klein, già ammirato nell'ottimo Sister di Ursula Meier, calati in modo del tutto convincente in personaggi che suscitano simpatia, empatia e (consapevole) irritazione.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Regia: Guillaume Senez
Sceneggiatura: David Lambert, Guillaume Senez
Fotografia: Denis Jutzeler
Montaggio: Julie Brenta
Cast: Kacey Mottet Klein, Galatea Bellugi, Catherine Salee, Laetitia Dosch
Anno: 2015
Durata: 95'

0 Comments

TORINO 33 - Phantom Boy, di Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol

1/12/2015

0 Comments

 
Immagine
Li avevamo lasciati nel 2010 in compagnia di Un gatto a Parigi, e li ritroviamo in trasferta ideale a New York cinque anni dopo, Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol: il loro nuovo Phantom Boy è infatti ambientato in una stilizzata Grande Mela, divisa fra grattacieli e più meste aree portuali, ma dove si parla il francese e i ritmi sono più da polar che da frenetica metropoli. A far da ponte tra le due suggestioni c'è il cattivo di turno, un genio dei computer che minaccia il black out totale e chiede perciò un riscatto, con il suo volto sfigurato e ridotto a una maschera cubista. A contrastarlo ci sarebbe il detective Alex, ma è hitcockianamente bloccato in un letto d'ospedale da una gamba ingessata. 
Per sua fortuna c'è il piccolo Léo, anche lui in ospedale per un'operazione, che, a dispetto dei problemi fisici, ostenta un carattere vivace e amante dell'avventura. Il ragazzo ha un segreto: riesce a “uscire” dal suo corpo, diventando uno spirito invisibile che può per questo inseguire i malfattori e riferirne ogni movimento. Una condizione da supereroe “a metà”, che sposta il tono del racconto dal noir all'avventura a tinte fantastiche, dove l'azione non è mai frenetica perché sempre mediata dalla parola.
L'operatività è non a caso produttiva laddove è capace di creare narrazione: il cattivo di turno, infatti, prima ancora di mettere in atto il suo piano malvagio, cerca un pubblico che ascolti la sua storia e comprenda cosa ha trasformato il suo viso nella tragica maschera che ormai lo identifica, ma ogni volta le interferenze del caso impediscono al ricordo di esprimersi oralmente. Al contrario, Léo, sebbene immobile nel corpo, può ritornare a vivere grazie al resoconto verbale delle sue ricognizioni extra corporee, che quindi lo rendono un protagonista attivo, sebbene defilato perché impossibilitato ad agire materialmente su quanto accade. Il suo potere reale sta nel racconto di ciò che vede e che quindi, in opposizione alla mancata espressione verbale del cattivo, lo rende protagonista virtuoso e lo affranca dall'altrimenti triste condizione di immobilità.
​
Tutto è perciò “bloccato” in un'azione negata che si fa gioco di strategie destinate a diventare attive non più attraverso l'azione, ma con la forza della parola che genera racconto e mitopoiesi: non a caso, l'intera vicenda di Phantom Boy esalta quanto è nascosto alla dimensione pubblica. Il cattivo di turno minaccia il mondo da un nascondiglio introvabile e, di fatto, non entra mai in contrasto diretto e materiale con chi tira le fila del potere (che anzi è spiazzato e non sa come agire). Al contrario, tutto è affidato a un ragazzo invisibile insieme a un poliziotto immobilizzato – unica presenza d'equilibrio è quella di Mary, giornalista d'assalto che segue le direttive di Alex senza però comprendere fino in fondo il suo legame con Léo.
Il racconto si stratifica in questo modo, e il lavoro di scrittura si fa perciò teoricamente forte: come necessario bilanciamento la messinscena si fa invece leggera, il tratto è essenziale, vicino alle suggestioni veicolate da tanto fumetto delle aree francofone (si pensi al più noto Hergé, il creatore di Tintin) e la stilizzazione dello spazio riesce a restituire un certo sentire sensibile e poetico. Allo stesso tempo viene esaltato un continuo gioco delle trasparenze, con il fantasma di Léo visibile eppure non visto da alcuno, che perde persino la sua minima consistenza se resta troppo tempo separato dal corpo.
Ad aiutarlo non può che essere la sorella minore, altro personaggio defilato eppure centrale per il forte legame con Léo, tarato anch'esso sull'importanza della narrazione. Ogni volta che può, infatti, lui le legge una fiaba della buonanotte e si configura perciò ai suoi occhi, ancora una volta, come figura in grado di creare mitopoiesi.
​Naturalmente, nell'intelligente gioco di rovesciamenti di prospettive e controcampi che gli autori portano avanti per tutta la durata della narrazione, sarà proprio la piccola a fornire a Léo l'ultimo e necessario appiglio verso il reale: il ragazzo, infatti, si salverà dall'oblio proprio diventando protagonista di una delle favole tanto care alla piccola, rinsaldando l'andirivieni continuo fra realtà e sogno, fra dimensione fantastica e mondo vero, fra la concretezza di una vicenda che ci parla di problemi reali (malattia, criminalità, virus informatici) e la forza creativa di una narrazione che riesce a trasfigurare tutto in poesia. Anche per questo, una storia così complessa non può che offrirsi con il garbo del racconto a misura di bambino.

Davide Di Giorgio

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Titolo originale: id.
Anno: 2015
Regia: Jean-Loup Felicioli, Alain Gagnol 
Sceneggiatura: Alain Gagnol 
Fotografia: Izu Troin 
Musica: Serge Besset 
Durata: 84'
Attori (voci): Édouard Baer, Jean-Pierre Marielle, Audrey Tautou, Jackie Berroyer

0 Comments

TORINO 33 - Coup de chaud, di Raphaël Jacoulot

29/11/2015

0 Comments

 
Immagine
​Una calda estate. Tanto calda. La più afosa degli ultimi decenni. Sudore, fatica, respiro affannoso, nervosismo che cresce sottopelle. Un piccolo villaggio di campagna, guidato da un sindaco/veterinario. Agricoltori che traggono il proprio sostentamento dai loro campi. Un artigiano da poco trasferitosi in paese. Adolescenti perdigiorno. Gente semplice, alla buona. O almeno così parrebbe. La classica comunità dove tutti conoscono tutti. E poi lui, Josef: un ragazzo affetto da lieve ritardo mentale, con il vizio di rubacchiare cose e infastidire le signore anziane e le poche coetanee graziose che si trovano nei paraggi; lo “scemo del villaggio”, sopportato ma non certo amato. Affatto.
I giorni passano, il caldo aumenta sempre più, di pioggia neanche l'ombra. L'acqua per irrigare i campi inizia gravemente a scarseggiare. Si decide di acquistare una pompa utile per estrarre acqua dal fiume e utilizzarla per evitare che la siccità distrugga i raccolti. Dopo qualche giorno la pompa sparisce. Nessuno ha le prove, ma tutti pensano che il colpevole del furto sia Josef. Il capro espiatorio più facile e immediato. La tensione sale, infine esplode. Josef viene assassinato. La polizia indaga, gli abitanti mostrano tristezza e dolore. Ma in realtà, sottotraccia, non sono poi così dispiaciuti. Anzi.

Terzo lungometraggio di Raphael Jacoulot, dopo Barrage (2006) e Avant l'aube (2011), Coup de chaud si è imposto come uno dei migliori titoli visti in concorso a Torino 33, tanto da aggiudicarsi due riconoscimenti non di poco conto: il premio del pubblico e quello di miglior attore, vinto dal giovane e sorprendente Karim Leklou, per il quale si può senz'altro prospettare (e auspicare) anche una nomination ai prossimi César. 
Tratto da una storia vera, il film accoglie su di sé molti elementi che caratterizzano e glorificano tanto cinema francese contemporaneo: la parziale semplicità della trama al servizio di una messinscena di alta precisione; la capacità di scavare in profondità all'interno del narrato; l'ambientazione in un microcosmo contenuto per spazi e personaggi, entro il quale si indagano le molteplici sfumature logistiche e caratteriali responsabili dei comportamenti umani. 
Il regista, sin dagli albori della trama, mette subito in mostra un'idea di base interessante, ovvero l'analisi della difficoltosa convivenza tra i cosiddetti “normali” e i presunti “diversi”. I comportamenti bizzarri di Josef, che gira per le vie del paese su un'automobile a tre ruote ascoltando musica techno a tutto volume, cozzano totalmente con le abitudini consolidate di chi vive a contatto con la natura e ogni giorno si sporca le mani lavorando nei campi; allo stesso modo l'imprevedibilità del ragazzo, la sua umoralità, i suoi scatti istintuali, mal si sposano con i ritmi degli altri abitanti del villaggio, chiusi in una quotidianità forse banale e noiosa ma almeno sicura e tutto sommato serena. 
La situazione, già in precario equilibrio, si sfalda quando il caldo insopportabile scioglie il raziocinio, annebbia i pensieri e obnubila la pazienza, insinuando nel villaggio un pericoloso germe volto a trovare tutti i costi un colpevole a cui affibbiare ogni evento spiacevole. L'attacco frontale a Josef diviene così uno sfogo, una boccata d'aria con cui combattere l'afa, un tagliente rasoio con cui provare a spezzare l'egemonia del tempo inclemente; la sua successiva morte si trasforma invece, addirittura, in un sollievo.

Chabroliano nell'anima, Coup de chaud è un “noir in pieno sole”, per citare e parafrasare il classico diretto da René Clément nel 1960; un lavoro arguto e preciso, schematico nelle sue coordinate basilari ma efficace nel disegnare i temi portanti di un terreno minato dove mettendo il piede nel punto sbagliato si rischia di saltare per aria. Jacoulot si fa accompagnare da un grande cast, dove accanto a Leklou si impongono il sempre meraviglioso Jean-Pierre Darroussin, il bravissimo Grégory Gadebois (Les Revenants) e una scatenata e carismatica Carole Franck, oltre ai quali si nota con affetto la presenza della ozpetekiana Serra Yilmaz. Attori di primo livello, bravi a sintonizzare la propria esperienza per dare volto e cuore a una realtà che sfida la luce opprimente della calura per trovare malsana consolazione nell'abbraccio del buio.
Quasi perfetto nella sua globalità, Coup de chaud si slabbra soltanto nella parte finale, quando decide di svelare a tutti i costi l'enigma riguardante l'assassinio di Josef; un epilogo più incerto e sfumato sarebbe stato preferibile. Restano comunque, senza dubbio, i meriti di un'opera che abbina sostanza e qualità, tessendo la tela di una società ipocrita e malata nella quale la solitudine impera e la perfidia si nasconde ovunque, scaltra e affamata, pronta a saltar fuori all'improvviso per catturare la malcapitata vittima di turno.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Regia: Raphaël Jacoulot
Sceneggiatura: Lise Machebœuf, Raphaël Jacoulot
Fotografia: Benoît Chamaillard 
Montaggio: François Quiqueré 
Costumi: Elisabeth Tavernier 
Musica: André Dziezuk 
Attori: Karim Leklou, Jean-Pierre Darroussin, Grégory Gadebois, Carole Franck, Isabelle Sadoyan, Serra Yilmaz
Anno: 2015
Durata: 102'

0 Comments

TORINO 33 - The end of august at the hotel Ozone, di Jan Schmidt

28/11/2015

0 Comments

 
Immagine
Cose che verranno, la retrospettiva inaugurata quest’anno dal Torino Film Festival e articolata su due edizioni, pone la sua lente d’ingrandimento sugli scenari futuri immaginati nel corso dei decenni dal cinema di fantascienza, volgendo il suo sguardo sugli scenari più cupi e pessimistici, spesso puramente distopici.
Accanto ad opere conosciute e idolatrate a ogni latitudine come Blade Runner, Brazil e Arancia Meccanica, ne sono state inserite altre decisamente meno note al grande pubblico che meritano ampiamente di essere riscoperte e apprezzate. The end of august at the Hotel Ozone fa parte di questa categoria e ne è un fulgido esempio. 
Ambientato quindici anni dopo un terribile conflitto termonucleare che ha ridotto il mondo a una vasta e desolata landa desertica, ha per protagoniste un gruppo di giovani donne cresciute allo stato brado, guidate da una più anziana che ancora ricorda com’era la terra prima della catastrofe. Silenziosa, saggia e dolente accompagna le ragazze attraverso terre abbandonate e disabitate in cerca di altri esseri umani, fino ad incontrare un giorno un uomo anziano dai modi gentili e pacifici che le accoglie nel malandato hotel Ozone.

​Un dramma sci-fi post atomico appartenente al filone della Nová Vlna, corrente cinematografica cecoslovacca che trae ispirazione dalla Nouvelle Vague francese, davvero sorprendente e plumbeo. Uscito nel 1967, girato in un magnifico b/n e realizzato con parsimonia di mezzi ma con una messa in scena potente ed efficace e un’ambientazione ricercata e suggestiva. 
Particolarmente ispirata e azzeccata la caratterizzazione della piccola comunità femminile, composta da giovani donne che non hanno più alcun ricordo o parvenza del mondo civilizzato. Sono come bambine: ingenue, curiose, a volte terribilmente crudeli. Sembrano quasi delle amazzoni prive di sentimenti cresciute come creature selvatiche: forti, atletiche, ottime cavallerizze e cacciatrici spietate e letali. Violenti e brutali non riescono a distinguere il bene dal male, a differenza della donna anziana che le guida come meglio può. L’uomo è quasi bandito ed escluso da questo ipotetico e cupo scenario futuro; vi fa capolino solo nella seconda parte del film, tramite la figura bonaria, fragile e umanissima del vecchio che ospita il piccolo gruppo femminile, esponendosi in tutta la sua vulnerabilità alla loro ferocia e durezza.
Nel vederle - poco prima che scorrano i titoli di coda – ripartire per le terre selvagge e deserte in cerca di altri esseri umani, si ha come un brivido al pensiero che possano incontrare uomini altrettanto disumani e crudeli dando il via ad una nuova progenie. Forse l’umanità - o perlomeno questa umanità - merita davvero di estinguersi, come sembra comunicarci la cinepresa del regista ceco Jan Schmidt, che in un contesto così desolato e sconfortante salva soltanto le figure dei due anziani, ottimamente interpretati da Ondrej Jariabek e Beta Ponicanová, gli unici in grado di provare sentimenti autentici e genuini. 
Un’opera ispirata, forte e intensa che testimonia il buono stato di salute del cinema cecoslovacco di quel periodo, dove si stava facendo strada un maestro del calibro di Milos Forman che di lì a breve sarebbe stato acclamato a livello internazionale grazie a titoli come Qualcuno volò sul nido del cuculo, Hair e Amadeus, realizzati negli Stati Uniti. 

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Torino 33

​
Scheda tecnica
​

Titolo originale: Konec srpna v Hotelu Ozon
Anno: 1967
Regia: Jan Schmidt
Sceneggiatura: Pavel Jurácek
Fotografia: Jirí Macák
Musiche: Jan Klusák
Durata: 87’
Attori principali: Jitka Horejsi, Ondrej Jariabek, Beta Ponicanová

0 Comments

TORINO 33 - I racconti dell'orso, di Samuele Sestieri e Olmo Amato

26/11/2015

1 Comment

 
Immagine
Inserito in concorso alla 33esima edizione del Torino Film Festival, I racconti dell’orso è la sorprendente e ispirata opera d’esordio di due giovani registi romani, Samuele Sestieri e Olmo Amato. Un oggetto volante non meglio identificato, specie se raffrontato con buona parte del cinema italiano contemporaneo che difficilmente si permette di osare e di sperimentare; una scheggia impazzita che richiede di essere contemplata e accolta dallo spettatore.
Durante un viaggio in auto una bambina si addormenta e sogna un mondo magico e incontaminato in cui un monaco meccanico dalla voce robotica e aliena rincorre un omino rosso buffo e spaventato. Arrivati sulla cima di una collina i due trovano un orsetto di peluche scucito e malandato che li farà riavvicinare; decideranno entrambi di prendersene cura per provare a rimetterlo in sesto e a ridargli nuova vita.
Incorniciato da paesaggi evocativi, suggestivi, meravigliosi, I racconti dell’orso si presenta come una favola onirica, tenera e poetica. Sostanzialmente privo di dialoghi, necessita di una certa pazienza e un elevato grado d’attenzione da parte del pubblico, purtroppo sempre più abituato a fruire di prodotti dove tali caratteristiche non sono richieste. 
Un piccolo gioiello immerso in scenari ancestrali, quasi fuori dal tempo, girato nel nord Europa, tra Finlandia e Norvegia, e finanziato in larga parte grazie ad una campagna di crowdfunding. Notevoli l’audacia e il coraggio dei due autori esordienti, che dimostrano di possedere, oltre a una certa padronanza del mezzo tecnico, grande personalità e una netta e precisa idea di cinema. Inquadrature ben studiate, un gran lavoro sulla luce e sull’immagine, un interessante utilizzo del sonoro e della musica.
Il film, diviso in sette capitoli, risulta più compatto e fluido nella prima parte, dove facciamo la conoscenza con i due strani e bizzarri protagonisti, interpretati proprio da Samuele Sestieri e Olmo Amato, capaci da subito di suscitare un’immediata simpatia e d’invitare e trascinare il pubblico a recuperare lo sguardo puro e limpido della fanciullezza. La seconda parte forse è un po’ troppo insistita e non si priva di qualche lungaggine che denota in ogni caso un profondo amore da parte dei due registi, autori anche di soggetto, sceneggiatura, fotografia e montaggio, nei confronti della loro creatura filmica. 
In conclusione I racconti dell’orso è un’opera sui generis, insolita e innovativa, da difendere e preservare all’interno del nostro cinema e a cui auguriamo le migliori fortune e una probabile e più che auspicabile visibilità attraverso i festival internazionali, in attesa di una possibile seppur difficoltosa distribuzione nelle nostre sale.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Titolo originale: I racconti dell’orso 
Anno: 2015
Regia: Samuele Sestieri e Olmo Amato
Sceneggiatura: Samuele Sestieri e Olmo Amato
Fotografia: Samuele Sestieri e Olmo Amato
Musiche: Riccardo Magni
Durata: 67’
Attori principali: Samuele Sestieri e Olmo Amato

1 Comment

TORINO 33 - Nasty Baby, di Sebastian Silva

26/11/2015

0 Comments

 
Immagine
Freddy (Sebastián Silva), artista a Brooklyn alle prese con un progetto di videoarte, e il suo compagno Mo stanno cercando disperatamente di diventare genitori e ci provano con l’aiuto di un’amica, Polly (Kristen Wiig), donando alternativamente il proprio seme nel tentativo di far sì che la donna resti incinta. Una situazione che definisce e traccia un’idea allargata e labile di famiglia, dove i confini tra i singoli ruoli si fanno sempre più sfumati e la tensione, complice una situazione non proprio rassicurante e tradizionale, è sempre sul punto di esplodere e di generare attriti e frizioni. 
Nel frattempo un vicino di casa, soprannominato il Vescovo, non si lascia sfuggire un’occasione che sia una per palesare la propria ostilità, con una ferocia e un’irruenza che condurrà la vicenda verso conseguenze a dir poco tragiche, spostando nuovamente gli equilibri e costringendo il triangolo familiare a un ulteriore riassetto. 
Sono queste le premesse da cui muove Nasty Baby, il nuovo film del talentuoso regista cileno Sebastián Silva (qui anche attore), rappresentante di una cinematografia e di un continente in perenne e inarrestabile crescita cinematografica. L’autore di La Nana (Affetti e dispetti), con vitalità coinvolgente, mette in campo un’idea di messa in scena capace di lasciare sinceramente stupefatti per la propria carica propulsiva di sincerità e schiettezza, per l’abilità di parlare attraverso immagini mai chiuse e definite ma sempre in divenire, come se si trattasse di un flusso costante, all’insegna di una circolarità mai geometrica o asfittica. 

Silva è chiaramente un regista eccentrico, nel senso migliore del termine: rifiuta il convenzionale per lavorare sulle sporcature e sulle contraddizioni dei propri personaggi e delle proprie storie con un maggior senso di verosimiglianza e di aderenza psicologica, e le sue immagini, così fluttuanti e prive di punteggiatura, sembrano assecondare in maniera organica tale volontà. Un regista singolare e prezioso in grado di parlare e di dire moltissime cose all’interno di una sola inquadratura, giocando su una scelta di campo o anche solo sull’utilizzo del fuoco dell’immagine: il risultato è una prossimità tattile ed epidermica da parte di chi guarda verso ciò che accade sullo schermo, una vicinanza che non è solo frutto di un naturalismo improvvisato, come si potrebbe pensare, ma di uno stile forte e ricercato, voluto e inseguito, studiato e intelligentemente calibrato. 
Presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel 2015 e al Festival di Berlino, dove si è aggiudicato il Teddy Award come miglior film a tema LGBT, Nasty Baby, passato al TFF 33 nella sezione Festa Mobile, è un dramma familiare che si fonde con un mélo queer in interni, ma l’aspetto più interessante è che entrambi i generi vengono forzati e privati dei loro canoni costitutivi per approdare a qualcosa d’altro, di più autentico e meno schematico: una disamina del disagio affettivo della contemporaneità, articolato all’interno di uno scenario esistenziale e umano nel quale il senso di inadeguatezza di ognuno in rapporto al proprio ruolo non può che essere al grado massimo, viste e considerate le premesse già citate.

Silva però ha il pregio enorme di evitare le scorciatoie, lavorando sullo stupore e sulle sottigliezze, sulla vita di ogni giorno e le sue goffaggini idiosincratiche, senza mai optare per una staticità osservante e giudicante ma scegliendo sempre il dinamismo, l’evoluzione, l’assenza di risposte monolitiche e immutabili a interrogativi che invece sono spesso e volentieri ampli e complessi. 
Senza mai urlare alcuna militanza, ma con una forza sottile e spesso sommessa nell’affrontare gli argomenti che tratta, Nasty Baby, prodotto peraltro dal faro del cinema sudamericano nonché connazionale di Silva Pablo Larrain, è un film che trasforma la famiglia in un’arena allargata, in cui i bollini e le semplificazioni non trovano asilo ma tutto sta al passo con la complessità del mondo di oggi, con le sue esigenze e le sue innegabili, improcrastinabili urgenze. Tra immaturità e isteria, tra ossessione e disincanto, con dosi non indifferenti di nevrosi e un tocco finale di tragedia che può sembrare una svolta narrativa facile e comoda ma in realtà serve soltanto a ricordarci che siamo vivi e reali, assoggettati tutti quanti alle minaccia brutale e inspiegabile dell’intolleranza.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Torino 33


Scheda tecnica

Regia: Sebastián Silva
Interpreti: Sebastián Silva, Tunde Adebimpe, Kristen Wiig, Reg E. Cathey, Mark Margolis
Sceneggiatura: Sebastián Silva
Fotografia: Sergio Armstrong
Musica: Danny Bensi, Saunder Jurriaans
Anno: 2015
Durata: 101’

0 Comments
<<Previous

    TORINO 33

    CATEGORIE
    DELLA SEZIONE

    Tutti
    After Hours
    Ben Wheatley
    Cose Che Verranno
    Coup De Chaud
    Evolution
    God Bless The Child
    Hou Hsiao Hsien
    Hou Hsiao-hsien
    Iona
    I Racconti Dell'orso
    Jean-pierre Darroussin
    Jeremie Renier
    Kate Winslet
    Keeper
    Kristen Wiig
    Love & Peace
    Lucile Hadzihailovic
    Me And Earl And The Dying Girl
    Miguel Gomes
    Nasty Baby
    Ni Le Ciel Ni La Terre
    Olivia Cooke
    Paulina
    Phantom Boy
    Roxane Duran
    Scott Graham
    Sebastian Silva
    Shell
    Sion Sono
    Tag
    Tff 33 Concorso
    Tff 33 Programma
    The Assassin
    The Hallow
    Torino Film Lab

    Feed RSS

Powered by Create your own unique website with customizable templates.