ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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TORINO 31 - The Stone Roses: Made of Stone, di Shane Meadows

30/11/2013

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“I'm standing warm against the cold
Now that the flames have taken hold
At least you left your life in style

And for far as I can see
Ten twisted grills grin back at me
Bad money dies I love the scene

Sometimes I fantasise
When the streets are cold and lonely
And the cars they burn below me
Don't these times fill your eyes

When the streets are cold and lonely
And the cars they burn below me
Are you all alone
Is anybody home?”

(Made of Stone)

Un viaggio a ritroso nel tempo, attraverso il Mito: quello impersonificato da una band, gli Stone Roses, la cui stella brillò poco, ma – come si suol dire – intensamente. Autori di soli due album in studio, più una serie di raccolte, B-sides e varie: The Stone Roses (soprattutto) e Second Coming sono il biglietto di benvenuto e di addio di uno dei gruppi più significativi della scena inglese del periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e quelli Novanta. Dopo il punk, dopo la new wave e prima del ciclone britpop (Oasis, Blur), del quale avrebbero gettato le basi ma che, ironia della sorte, li avrebbe definitivamente messi all’angolo. 
Il regista Shane Meadows parte dal presente, dall’avvio di una nuova serie di concerti a più di venti anni di distanza da quel miracoloso disco di esordio: nel 2011 i quattro musicisti annunciano il loro rientro sul palco, dopo anni di litigi, incomprensioni e progetti solisti. E subito si ritorna indietro nel tempo, nella Manchester dei primi anni Ottanta, quando tutto sembrava sul punto di cambiare, e lo avrebbe fatto davvero: un momento epocale del quale gli Stone Roses furono indiscussi protagonisti, con una serie di singoli pubblicati tra il 1985 e il 1989, anno di uscita del memorabile LP omonimo. Meadows li filma con l’occhio del fan sfegatato, e si vede: nel 2011 sono quattro uomini invecchiati dalla vita e dal successo, ma con ancora la voglia e la grinta che solamente il rock (quello vero) può dare. Ed eccoli quindi affrontare nuovamente le prove per la reunion, dapprima incerti e spaventati, poi sempre più convinti e sicuri delle proprie potenzialità, esattamente come un tempo. Parallelamente al presente, inoltre, il documentario racconta l’importanza storica rappresentata da questi quattro ragazzi impertinenti e presuntuosi, incapaci di esprimersi compiutamente a parole durante le prime interviste, ma in grado di partorire un disco assolutamente perfetto, idolatrato indistintamente da pubblico e critica: un oggetto epocale. 
The Stone Roses: Made of Stone si infiamma poi quando il gruppo annuncia a sorpresa, tramite facebook e twitter, una sorta di concerto-anteprima gratuito, per un numero limitato di persone, in uno dei locali storici della loro città: la voce si diffonde nel giro di pochissime ore, e ben presto l’evento diventa sold out. Meadows filma le reazioni della gente nelle strade, in coda nell’attesa di ottenere l’ambito biglietto, e rende chiarissimo l’obiettivo principale della sua intera operazione: non tanto costruire un’agiografia intorno ai componenti della band, quanto invece sottolineare l’importanza delle loro canzoni nelle vite della gente comune, a dimostrazione dello statuto indiscusso raggiunto dagli Stone Roses nella storia della musica. 
Un documentario generoso e incredibilmente travolgente, quindi, e non solamente il resoconto per immagini delle loro esibizioni dal vivo: per i fan è un regalo lungamente atteso per anni; per tutti gli altri, invece, l’occasione per colmare una lacuna musicale che infonde nuova vita a un gruppo oggi colpevolmente dimenticato. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica

Titolo originale: The Stone Roses: Made of Stone
Anno: 2013
Regia: Shane Meadows
Fotografia: Laurie Rose
Musiche: The Stone Roses
Durata: 97’
Interpreti principali: Shane Meadows, Ian Brown, Gary Mounfield, Alan Wren, John Squire

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TORINO 31 - Sweetwater, di Logan Miller

27/11/2013

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Non è più tempo di eroi. Resta solo la vendetta, atto finale necessario che peraltro mai potrà restituire ciò che è stato tolto. Rimane il desiderio di rivalsa, impetuoso e inarrestabile, che spinge a cercare il colpevole, braccarlo, inseguirlo, fiutarlo, sino a divorarne l'anima impura per gettarlo senza pietà tra le fauci dell'inferno. Mirare, sparare, colpire, ammazzare, per poi gettare le vesti nel fuoco e ballare nudi intorno alle fiamme della purificazione, cercando di dare un senso al presente monco e al futuro che forse bisognerà vivere.
Sweetwater, diretto da Logan Miller, scritto insieme al fratello gemello Noah e presentato fuori concorso al Torino Film Festival, conferma per l'ennesima volta una delle poche leggi intoccabili dell'Arte che più amiamo: il western non morirà mai. Non può morire. La sua essenza totemica e universale ne impedisce l'estinzione. Passano le mode, cambia la fruizione, si evolvono i gusti e i generi, ma il cuore pulsante del vecchio West resiste, inossidabile, perché tra cavalli, polvere e pistole ci sarà sempre una storia da raccontare, nel tempo e fuori dal tempo.
E allora eccoci, stavolta in una piccola città nelle colline del New Mexico, alla fine del diciannovesimo secolo. Lì, tra terra e stivali, coltelli e bordelli, campi da coltivare e ruoli da conservare, c'è un predicatore che da un lato invoca il nome di Dio e dall'altro opera costantemente nell'abominio, copulando regolarmente con le donne assoggettate al suo potere e macchiandosi di tre delitti; c'è uno sceriffo squinternato e impavido che sospetta di lui e porta avanti le sue indagini sino ad accertare l'amara verità; c'è una giovane vedova, moglie di uno dei tre uomini assassinati, che indossa il suo vestito più bello, abbandona le sementi e si tramuta in una spietata killer colorata di viola e mossa da un odio incontrollabile. Uno contro tutti, tutti contro uno; i proiettili volano, il sangue si sparge, la resa dei conti si avvicina e si consuma; nessuno però uscirà realmente vittorioso, perché le cicatrici del dolore talvolta non hanno più speranza di essere rimarginate.
Potente, arguto, spassoso, solidissimo: Sweetwater è cinema che guarda al passato desacralizzando il presente, soffiando nel vento il residuo senso della perduta moralità a (s)vantaggio di un racconto ebbro di malinconia nella sostanza e ricco di ironia nella forma, dove tutti loro malgrado devono subire gli eventi, impossibilitati a nascondersi o fuggire, condannati a nuotare tra le viscere del peccato e dell'oscenità. 
Diretto con mano ferma, rispettoso della tradizione di riferimento e mai autocompiaciuto, l'ottimo lavoro dei Miller (possibili eredi dei Coen? Chissà...) consegna agli annali un capelluto e mai così gigioneggiante Ed Harris, alle prese con un personaggio delirante e irresistibile, capace di dar vita a sequenze memorabili (il pestaggio dello sceriffo abusivo, la rovina del tavolo pregiato) con irrisoria facilità. Accanto a lui la bella e decisa January Jones e un mistico e luciferino Jason Isaacs, convinti e convincenti.
Peraltro, attori a parte, è tutto l'insieme a funzionare: tra inquadrature in controluce volte a creare effetti fotografici d'indubbio fascino e soluzioni scenografiche azzeccatissime (il confronto finale nel recinto delle pecore), ogni dettaglio della messinscena contribuisce infatti a sottolineare la magniloquente scorrevolezza e precisione di un film lineare, certo non originale, ma capace di essere esemplare e perfetto nella sua essenzialità. Un pregio che in pochi si possono permettere.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica

Regia: Logan Miller 
Sceneggiatura: Logan Miller, Noah Miller 
Fotografia: Brad Shield 
Montaggio: Robert Dalva 
Musiche: Martin Davich 
Attori: January Jones, Jason Isaacs, Ed Harris, Eduardo Noriega, Jason Aldean, Stephen Root
Anno: 2013
Durata: 95'

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TORINO 31 - Blutgletscher (The Station), di Marvin Kren

25/11/2013

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I ghiacciai si sciolgono. Troppo in fretta. Il mondo si sfalda senza più controllo. La scienza ha esaurito le sue risorse. I danni compiuti dall'uomo hanno raggiunto dimensioni incalcolabili. La natura inizia a vendicarsi, com'è giusto che sia.
Alcuni studiosi vivono in una stazione meteorologica sperduta tra le Alpi, per condurre ricerche riferite ai recenti cambiamenti climatici. All'improvviso alcuni blocchi di ghiaccio assumono un inquietante colore rossastro. Qualcosa di nuovo, di diverso e orribile, nasce e prende forma. Mutazioni genetiche, incroci impensabili, creature mutanti capaci di evolversi senza alcun limite. È il momento dell'assedio. Ne fanno le spese gli studiosi stessi, e un gruppo che accompagna un ministro in visita. Il biancore del paesaggio scivola nel nero della paura, generando inqualificabili mostruosità che non hanno pazienza né pietà. Non c'è il tempo di porre un rimedio. È troppo tardi, la resa dei conti è finalmente giunta.
L'austriaco Marvin Kren, classe 1980, aveva già destato un certo interesse tra gli appassionati di cinema di genere un paio d'anni fa, con il convincente esordio intitolato Rammbock, un piccolo zombi movie claustrofobico e ricco di idee non disprezzabili. Per il suo secondo lungometraggio il regista cambia totalmente scenario, immergendo i suoi disgraziati protagonisti tra le fauci crudeli di un paesaggio naturale immenso e ingovernabile. Una varazione repentina, sulla carta, ma non così netta nella sostanza: anche nella maestosità di scenografie naturali i cui confini risultano impossibili da raggiungere per l'occhio umano, Kren riesce infatti a creare microcosmi disturbanti, raccogliendo in più occasioni i suoi attori entro limiti angusti (le grotte, il laboratorio), che ben contrastano l'ineffabile spazio circostante. 
Dipanando non senza confusione una sceneggiatura che spesso muta di tono faticando a mantenere le giuste coordinate, l'autore pone comunque in gioco, ancora una volta, soluzioni non banali, insinuando con buona tecnica significazioni narrative di stampo quasi lovecraftiano (l'ibridazione illimitata), per scatenare un orrore dalle fattezze non del tutto definite. Eco-vengeance, beast movie, creature feature: lo si può definire come si vuole, ma Blutgletscher (The Station) è un prodotto valido per la sua capacità di fondere una lunga tradizione di riferimento (da Mimic a The Mist, ma ci sarebbero mille altri titoli inerenti) commutandola con il peso collettivo di una colpa che travalica la dimensione aliena, per farsi universale e concreto discorso avente come punto focale la rovina della civilizzazione. Siamo tutti colpevoli, in fondo; non ci sono eroi, né speranze, né salvacondotti. Lo scatenamento della bestialità immonda è la logica conseguenza di una scriteriata caccia allo sfruttamento, e l'urlo represso della Madre Terra si può infine espandere dalle profondità del creato per annullare ogni possibilità di cura.
Squinternato, traballante, disequilibrato ma anche molto coraggioso, The Station si nutre dei suoi stessi difetti, scivolando in soluzioni davvero troppo azzardate (la “mutazione finale”) ma riuscendo a intrattenere con buone dosi di ironia, vampate splatter di jacksoniana memoria e momenti di sostenuta e dolente malinconia, per ricordarci che al di là delle facili risate il pericolo esiste davvero, lassù sulle montagne e anche quaggiù, tutto intorno a noi.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica

Titolo originale: Blutgletscher
Regia: Marvin Kren
Sceneggiatura: Benjamin Hessler
Fotografia: Moritz Schultheiss
Musiche: Stefan Will, Marco Dreckkötter
Attori: Gerhard Liebmann, Edita Malovcic, Hille Beseler, Peter Knaack, Brigitte Kren
Anno: 2013
Durata: 93'

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TORINO 31 - Il programma ufficiale

6/11/2013

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Sì, adesso lo possiamo dire: il Torino Film Festival conserva la sua identità. A essere sinceri, qualche lieve timore nei mesi scorsi si era palesato, nel momento in cui il neodirettore Paolo Virzì aveva espresso il desiderio di dare vita a un evento più popolare, dando maggiore spazio ai gusti del pubblico. Studiando però il programma completo, ufficializzato dopo la conferenza stampa di presentazione, è facile notare come lo spirito unico e irresistibile del festival torinese, improntato sulla qualità e la sostanza, sia rimasto pressoché inalterato.
Virzì è stato di parola: sono aumentati i titoli ad ampio consumo, così come è cresciuta la presenza del cinema italiano. Ma questo non ha impedito allo staff guidato da Emanuela Martini di costruire un cartellone di alto livello, con numerosissime pellicole d'autore e proposte adatte a ogni tipo di spettatore, in continuità con le edizioni (e le gestioni) precedenti. 185 film, molti dei quali in anteprima mondiale; sezioni confermate e altre rinnovate; un programma leggermente snellito rispetto agli ultimi anni ma sempre densissimo; tanto spazio per la ricerca, la diversità di linguaggi e l'originalità.
Il Concorso Ufficiale prevede 14 pellicole (non più 16), con le quali indagare tra dramma e sorrisi tra le pieghe sociali e culturali della contemporaneità: ben tre i film francesi presenti (tra cui 2 Automnes 3 Hivers di Betbeder), due italiani (La mafia uccide solo d'estate di Pif e Il treno va a Mosca di Ferrone/Manzolini), e rappresentanze sparse dal resto del mondo, con titoli sulla carta intriganti come il venezuelano Pelo Malo (vincitore a San Sebastian), l'americano Blue Ruin e il "pugno nello stomaco" giapponese A Woman and War. 
La sezione Festa Mobile, un pochino meno espansa rispetto al passato, è come sempre un contenitore debordante in cui trova spazio un po' di tutto, con titoli di primissimo piano tra cui non si possono non citare All is Lost di J.C. Chandor, Frances Ha di Noah Baumbach (passato con grande successo a Berlino), Ida di Pawel Pawlikowski (autore qualche anno fa del bellissimo My Summer of Love), Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen (applaudito a Cannes 2013) e il vampirico Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch (imperdibile). Tra loro poi anche Prince Avalanche di David Gordon Green (remake dell'islandese Either Way, vincitore proprio al TFF due anni fa), il francese Suzanne (con Sarah Forestier), e il cupissimo film indiano Ugly.
La sezione Onde non manca di riconfermare la sua essenza rivolta al puro cinema di qualità: a un primo sguardo spiccano l'omaggio alla vitalità del cinema portoghese e all'autore hongkonghese Yu Likwai e il controverso Historia de la Meva Mort di Albert Serra (vincitore quest'estate a Locarno 66). La prima parte della cospicua retrospettiva dedicata alla New Hollywood farà la felicità dei “nostalgici”, con la possibilità di rivedere su grande schermo capolavori come Easy Rider, Five Easy Pieces, The Last Picture Show di Bogdanovich, Boxcar Bertha di Scorsese e Pat Garrett & Billy The Kid di Peckinpah. Le novità invece riguardano le mini-sezioni intitolate “E intanto in Italia”, “Big Bang Tv” (con anteprime di episodi di serie televisive diretti da David Fincher e Jane Campion) ed “EuroPop”, mélange dedicato a titoli che hanno ottenuto grande successo in questi mesi in Europa: tra i titoli presenti appare indispensabile il francese Alceste à Bicyclette, sfida dialettica tra Lambert Wilson e il grandissimo Fabrice Luchini.
Ulteriore nuova sezione, senz'altro la più stimolante, è After Hours, in cui trova spazio il cinema “altro”, in un curioso minestrone di horror, thriller, commedie nere e stranezze assortite da gustare in tarda serata (ma con repliche anche al pomeriggio): tra le pellicole più significative Big Bad Wolves, nuovo lavoro della coppia israeliana Keshales/Papushado (già autori dell'ottimo e sorprendente Kalevet), Blutgletscher di Marvin Kren (regista dell'interessante zombi movie Rammbock), il canadese The Conspiracy (definito un horror “politico e satanista”), il grottesco e autobiografico La danza de la realidad di Jodorowsky, l'ancor più grottesco Wrong Cops di Quentin Dupieux (già passato a Locarno), l'horror a episodi V/H/S 2 (nella speranza che sia meglio del primo, alquanto mediocre) e l'assoluto cult italiano L'etrusco uccide ancora di Armando Crispino.
Tantissimo spazio, come di consueto, sarà dedicato ai documentari, per un vero e proprio festival nel festival. Tra una visione e l'altra, ci sarà infine posto anche per immersioni nella storia del cinema nostrano (8 ½ di Fellini in versione restaurata) e per proiezioni che emozioneranno i cinefili (l'acclamatissimo A Turin Horse di Béla Tarr, preceduto da un doc dedicato allo stesso regista). Il film di chiusura, come già annunciato, sarà Grand Piano, con Elijah Wood.
In conclusione, anche nel 2013 niente tappeti rossi, per fortuna: quelli li lasciamo volentieri ad altri “lidi”. Qualche difetto ancora c'è, soprattutto sul piano della logistica (la nuova ubicazione della Press Room in Piazza Castello e la probabile mancata reintroduzione delle indispensabili navette renderanno ancora più complicati gli spostamenti), ma sul piano strettamente contenutistico i motivi di fascino non mancano affatto, la concorrenza con Roma non spaventa (più), e l'integrità del festival appare conservata; a Torino c'è e ci sarà ancora il cinema, nella sua accezione più completa e solida.
Appuntamento sotto la Mole dal 22 al 30 novembre e in parallelo qui su Orizzonti di Gloria, con le recensioni di alcuni dei film più significativi a cui assisteremo.

Programma completo sul sito ufficiale

Alessio Gradogna


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