ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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HERZOG - Aguirre, furore di Dio

10/7/2013

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“Tutta la Spagna cadrà in mano nostra. Pezzo a pezzo costruiremo la storia come altri costruiscono uno spettacolo. Io, il furore di Dio, mi sposerò con mia figlia e fonderò con lei la dinastia più pura che abbia mai regnato sulla terra. Noi due insieme regneremo su tutto questo continente. Resisteremo. Sono il furore di Dio e Dio è con me.”

Il monologo recitato da Klaus Kinski ci entra nel cuore, ancora una volta, e scava un solco all'interno della nostra anima. Lo guardiamo inebetiti, incapaci di trovare una difesa, un riparo, una consolazione. In quel momento lui è in noi, sopra e dentro e intorno; ci uccide in ogni sillaba, regalandoci nello stesso istante un esempio di cinema puro, superlativo, ineguagliabile.
La sua dichiarazione d'intenti è il simbolo di un'opera d'incredibile forza visiva e concettuale, impossibile da scalfire nonostante l'inesorabile avanzata del tempo. Aguirre era, è ancora e sempre sarà un capolavoro unico, esemplificazione di come il cinema possa talvolta fornire allo spettatore miracoli incredibili, destinati a scavalcare le barriere della Leggenda.
Realizzato da un Werner Herzog non ancora trentenne, con quattro soldi e una troupe di sole otto persone, in mezzo a furiose litigate con il suo violento attore-feticcio, il film, che avrebbe poi ispirato profondamente Coppola per Apocalypse Now, attua una mirabolante immersione nel senso primevo della natura come atto fondante di una civiltà in divenire, ancora imperfetta e incompiuta, pronta a soccombere di fronte alla potenza cristologica del creato. Il suo protagonista è un sognatore senza scrupoli, un dominatore senza umiltà, un distruttore privo di limiti; nella sete di conquista che lo nutre si dipana il filo della follia, l'ebbrezza della scoperta, l'odore dell'Inferno, acre e compiacente come il canto di una Sirena beffarda portavoce di una trappola da cui non è più possibile fuggire.
Una montagna inondata dalla nebbia, una sterminata distesa di uomini che tra mille difficoltà la attraversano, figurine stilizzate nell'immensità dell'Eden. La processione dei conquistadores, in (lento) avanzamento alla ricerca del famigerato Eldorado, è un'agonizzante marcia di conquista, che ben presto muta i suoi contorni per divenire disperata lotta per la sopravvivenza. Lì, mentre i cannoni affogano nel fango, gli schiavi nuotano nel sudore e i soldati cadono come mosche ammazzati da fatica, malattie e frecce avvelenate, si cerca un Dio che ha voltato indietro il proprio sguardo. Ci si autoproclama imperatori di un territorio che non possiede oggettivazioni logistiche e cartografiche, si gioca con i ruoli per assecondare la propria strategia, si nomina un Re burlone che deride se stesso scivolando nelle pieghe del grottesco; poi si va, ancora, navigando sulle correnti agitate, oppure facendosi largo tra le mani unghiute della vegetazione, piangendo per la fatica, nel terrore primordiale di quegli attimi di attonito silenzio in cui il cuore di tenebra si arresta e ognuno sa che può morire da un istante all'altro.
Così si cade, ci si rialza e poi si ricade una volta per sempre, bruciando villaggi e giustiziando i ribelli, leccando il sale dalla polvere, combattendo nemici quasi sempre invisibili, rincorrendo la declamazione dell'utopia. Un marasma furibondo da cui prende le distanze il guerriero Aguirre, totem che mantiene lo sguardo alto, sempre, anche quando l'amata figlia si spegne tra le sue braccia, ritrovandosi infine a comandare un esercito di cadaveri in putrefazione e scimmie irrequiete. Eppure egli non rinuncia a guardare su, lontano, oltre l'orizzonte, ultimo rappresentante di una razza ebete sconfitta dalle nere fauci della sventura.
Aguirre balla sui resti carbonizzati del sogno ridotto in cenere, come a suo modo farà tanti anni dopo il Timothy Treadwell di Grizzly Man; entrambi sono figure indispensabili nello straordinario corpus filmico di Herzog, eroi atipici che abbracciano la morte come parte integrante del sentiero sconnesso nella vita. Il conquistatore ormai liberato da qualsiasi sfumatura di senno canta la sua litania stonata, mentre la macchina da presa, rubata a una scuola di cinema, gli vortica intorno, colta anch'essa dalla febbre del delirio. Noi assistiamo, senza nemmeno respirare, avvolti da una coltre brulicante di fascino, odio, commozione, sorpresa, in un orgasmico e lancinante percorso estatico.
Lui è il furore di Dio, baluardo di una guerra tra uomo e natura destinata a protrarsi oltre i secoli dei secoli; noi siamo invece una parentesi racchiusa nella gloria di quell'eternità appostata sopra le nuvole, dove risiede un Pantheon a cui Aguirre appartiene di diritto. Con lo sguardo fiero e gli occhi lucidi. Oltre i confini e la ragione.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Special Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Aguirre, der Zorn Gottes
Anno: 1972
Durata: 100'
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Thomas Mauch
Musiche: Popol Vuh
Attori: Klaus Kinski, Helena Rojo, Del Negro, Ruy Guerrav, Peter Berling, Cecilia Rivera

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HERZOG - Grizzly Man, il principe degli orsi

8/7/2013

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Grizzly Man, film documentario del 2005 sull’ambientalista americano Timothy Treadwell, può essere considerato tra i lavori più rappresentativi dell’intera poetica di Werner Herzog, nella raffigurazione di una Natura fondamentalmente indifferente e ostile e di un uomo che si trasforma in eroe folle. La pellicola si colloca, cronologicamente, tra Il Diamante Bianco (2004), che narra della rischiosa spedizione in dirigibile nella Guyana dell’ingegnere aereonautico Graham Dorrington, e L’Ignoto Spazio Profondo (2005 ), nel quale un alieno dalle sembianze umane e la sua gente approdano sulla Terra, in fuga dal proprio pianeta morente: un filo rosso palese, sia nella rappresentazione di colui che sfida se stesso e le forze di una Natura possente, sia nell’essere diverso, alieno, “altro”. 
In Grizzly Man, i maggiori tòpoi del cinema del regista tedesco si manifestano in tutta la loro pienezza, rimandando a titoli ormai leggendari come Aguirre Furore di Dio e Fitzcarraldo: Treadwell può essere considerato una sorta di alter ego irrazionale di Herzog, così come lo erano i personaggi interpretati da Kinski; in questo caso la forma documentaristica, e il ruolo del regista in quanto voce narrante, sottolineano le affinità e le differenze tra due uomini dominati dalla stessa forza, ma in modi a volte radicalmente opposti.    
Timothy Treadwell dedicò tredici estati della sua vita agli orsi, nel Parco Nazionale di Katmai, in Alaska. Dal 2000 iniziò a filmare sia se stesso che gli animali attorno a lui; nel footage da lui girato, che dà vita a circa il 70% del film, dichiarava di essere solo, mentre in realtà era spesso accompagnato dalla fidanzata, Amie Huguenard: i due morirono nel 2003, sbranati da un grizzly. L’idea alla base dell’opera non nacque da Herzog bensì da Jewel Palovak, ex compagna di Treadwell e membro del gruppo Grizzly People: il regista accettò sia per l’interesse verso il personaggio che per ragioni economiche, in quanto il lavoro gli offrì l’input per una fruttuosa collaborazione con Discovery Channel. 
La figura di Treadwell, il cui vero nome era Timothy Dexter, nato a New York nel 1957, è al tempo stesso affascinante e controversa: attore mancato, sprofondato nell’abisso di alcool e droghe in seguito a una delusione professionale, trovò “redenzione” nell’amore verso la natura e gli orsi, tanto forte quanto sottilmente morboso. Cambiò il proprio nome di nascita, inventandosi un’identità completamente nuova, dichiandosi orfano e nativo dell’Australia, portando avanti queste bugie anche con le persone a lui più vicine. Divenne celebre grazie alla sua attività di documentarista, creandosi un vero e proprio personaggio: eccentrico, teatrale, talvolta infantile, estremamente emotivo. 
Le mille facce di Timothy Treadwell emergono non solo da ciò che egli stesso girava con la videocamera, ma in egual misura dal contributo concreto di Herzog, ossia le interviste e soprattutto il commento con voce off. Il dialogo tra il cineasta e Jewel, a proposito della registrazione audio dei momenti della morte dell’ambientalista e della sua compagna (la videocamera era accesa ma oscurata dall’otturatore per una dimenticanza), è pregno di umanità e sinceramente straziante: Herzog riesce ad ascoltare, in cuffia, solo l’inizio della traccia; percepiamo chiaramente il suo shock nel sentire la voce della morte nelle urla delle vittime e nei grugniti dell’orso. La frase che egli dice a Jewel Palovak è emblematica e assai forte: “Non ascoltare mai questa registrazione, altrimenti diventerà l’elefante bianco che resterà nella tua stanza per tutta la vita” (il modo di dire indica qualcosa di molto prezioso ma al tempo stesso pesante come un fardello); la partecipazione di Werner è genuina, in quanto riconosce una parte di se stesso nella figura di Treadwell, che definisce Prince Valiant (il protagonista di un fumetto americano legato alla saga di Re Artù), dunque un guerriero nobile e valoroso, anche per le caratteristiche fisiche, come il caschetto di capelli biondi. 
Nel corso del narrato, si assiste a un vero e proprio cambiamento in Timothy, tramite le immagini e le parole del regista che sottolinea la differenza delle loro due visioni: l’uomo inizia una discesa verso la follia, nel suo protezionismo verso gli orsi, nel non vedere il pericolo in loro, umanizzandoli e ripetendo ossessivamente degli “I Love You” così insistiti da sembrare, a primo acchito, fittizi. Diventa dunque difficile comprendere dove finisca il realismo e inizi ad emergere il lato attoriale di Treadwell. Il dubbio viene chiarito dallo stesso Herzog, verso la fine del film: “L’attore aveva preso il sopravvento sul cineasta, ho già visto questa follia prima d’ora sul set. Lui però non sta combattendo contro un regista, bensì contro l’intera civilizzazione, il suo vero nemico”: chiarissimo il riferimento a Kinski, a cui Treadwell può essere avvicinato per molteplici motivi, e ancor più palese il richiamo ad Aguirre, in primis nel finale. 
Entrambe le opere, infatti, si concludono col protagonista ormai folle, Kinski in preda al delirio e circondato dalle scimmie (una delle sequenze più memorabili del cinema Herzoghiano) e Treadwell vittima della paranoia più cieca, in quella che fu la sua ultima ripresa prima di morire; lo vediamo insultare gli addetti del Parco nazionale, coloro con cui aveva collaborato per ben tredici anni, in preda all’ira, alla tristezza e alla sconfitta in una guerra che non poteva vincere, in primo luogo contro se stesso e poi contro la civiltà, della quale sentiva di non fare più parte. È evidente come ormai l’uomo si fosse immedesimato con l’animale, sentendosi egli stesso un grizzly, avvicinandosi a creature pericolose senza il minimo timore, certo del loro affetto e della comprensione del suo amore. Anche in questo le parole di Herzog, sull’inquadratura di un orso, probabilmente lo stesso che ha ucciso l’ambientalista e la sua donna, sono preziosissime: “Non ritengo esista un mondo degli orsi, in questo sguardo vedo solo la totale indifferenza della Natura e un sommario interesse verso il cibo”. 
Per il regista ci si trova di fronte a una Natura fredda, non compassionevole e in parte malvagia; una differenza notevole rispetto all’idealizzazione operata da Treadwell, che tratta gli orsi come bambini diventando egli stesso un infante incosciente. Il Principe Valiant che si schiera in difesa di Madre Natura e dei suoi figli ne esce dunque mortalmente sconfitto, nella sua irrazionale sfida contro il mondo civilizzato; ripensando a un film come Fitzcarraldo, si può constatare che cambia l’oggetto della battaglia ma il desiderio di fondo è il medesimo, ossia prendere il sopravvento sull’ambiente naturale che ci circonda.  
Grizzly Man si conclude con una serie di riflessioni da parte di amici e collaboratori dell’uomo ma, ancora una volta, le parole più significative provengono dall’inglese germanizzato di Werner: “Per Treadwell, tutto questo è stato un viaggio nella natura del suo Io e questo, per me, dà un senso alla sua vita e alla sua morte”; una frase fortissima, che ancor più di tante immagini espone la visione Herzoghiana dell’uomo che affronta la Natura in un faccia a faccia con se stesso. Inutile sottolineare quanto quest’uomo sia anche Herzog, che ha spesso rischiato la vita per girare le proprie opere, al di là di ogni convenzione filmica e talvolta etica.  
Pellicola controversa e incompresa, che ha suscitato numerose polemiche, è l'ennesima gemma di una filmografia che vede nell’eroe folle un protagonista dolente, a volte violento, ma sempre e comunque umano.  

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Speciale Werner Herzog


Scheda tecnica

Titolo originale: Grizzly Man
Anno: 2005
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Peter Zeitlinger
Musiche: Richard Thompson
Durata: 103'
Uscita in Italia: 24 Novembre 2006 
Interpreti principali: Timothy Treadwell, Werner Herzog, Jewel Palovak, Amie Huguenard, Carol Dexter

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