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ROMAN POLANSKI - A Film Memoir

30/10/2013

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Roman Polanski: A Film Memoir è il secondo documentario sul regista in pochi anni (dopo Roman Polanski: Wanted and Desired). Il protagonista vi si racconta con tranquillità, scavando nella sua vita, di fronte ad Andrew Braunsberg (che figura tra i produttori, è stato al suo fianco per alcuni film ed è un amico). Ciò fornisce al tutto una palpabile umanità: Braunsberg qualche volta integra i ricordi dell'altro.
Li vediamo a colloquio in un'abitazione di Gstaad, in Svizzera, paese in cui Polanski si era recato per il festival di Zurigo, nel 2009 e dove stava scontando gli arresti domiciliari. Si comincia parlando di questo inaspettato, secondo arresto della sua vita, per poi trattare a lungo dell'infanzia nella Cracovia nazista, in cui il regime faceva crollare vite e affetti, obbligando a separazioni forzate – per esempio dal padre, che lui vide portar via ma che sopravvisse ai campi di concentramento, al contrario della madre – , oltre che alla vita condivisa con altre famiglie. L'autore cita la costruzione del muro intorno al ghetto come segnale che i nazisti facevano sul serio e rievoca, anche gestualmente, la loro violenza. Molto di questo, chiaramente, è filtrato ne Il pianista. Polanski si commuove un paio di volte ricordando i genitori e in uno di questi momenti il regista del doc Laurent Bouzereau, con uno zoom, incappa in una leggera caduta di stile.
Il primo approccio al cinema avvenne, una volta in salvo da un'altra famiglia, frequentando le sale, con film tedeschi; ed è con i sottotitoli che iniziò a leggere. Polanski racconta il suo dopoguerra, con il percorso dalla radio, a parti in teatro e cinema, ai tentativi di entrare in scuole di recitazione, fino a una “miracolosa” chiamata di Andrzej Wajda (che lo volle nel cast di Generazione). Il primo acclamato lungometraggio da regista, Il coltello nell'acqua, girato dopo una prima bocciatura da parte del Ministero della Cultura polacco, fu male accolto in patria. Dello stesso periodo è l'incontro in Francia con Gerard Brach, col quale scrisse Cul de sac, definito il primo film di cui sia stato realmente orgoglioso: con disappunto, infatti, sentiamo Polanski affermare di amare poco Repulsion, realizzato, un po' per bisogno, per una piccola compagnia di horror e per cui sentì di essersi prostituito.
Il periodo trascorso con Sharon Tate è rievocato come molto felice, prima della tragedia. Dell'attrice conosciuta sul set di Per favore... non mordermi sul collo! vediamo tra l'altro elementi di un home movie e un frammento di intervista, che ci ricordano la sua straordinaria bellezza e vanno a contrapporsi alle immagini di Charles Manson e Susan Atkins sulla via della cella, non pentiti. Giungendo al famigerato caso di stupro di qualche anno dopo, il film passa dettagliatamente alle beghe processuali che seguirono, comprese tra la permanenza in carcere fra pluriomicidi e la “fuga” finale dagli Usa. Conscio del potere dei media, che qui, come dopo l'uccisione della moglie (veniva da Rosemary's Baby: la stampa scandalistica alluse a un collegamento), gli si scagliarono contro, in “esilio” a Parigi Polanski si fece ritrarre in un servizio fotografico che contribuì a fargli risalire la china. L'incontro con Emmanuelle Seigner fu sul set di Pirati e con lei arrivò una lungamente attesa felicità familiare.
Nell'ultima breve parte Braunsberg torna a trovare Polanski, ancora a Gstaad ma ora libero dopo la decisione di non estradarlo negli Usa. Ritornano sul caso di stupro e sulla vittima Samantha Geimer, che dichiarò di non serbare più rancore nei confronti di Polanski e di aver sofferto di più per l'attenzione mediatica intorno a lei, di cui lui si mostra rammaricato. Insieme, i due amici tentano qualche conclusione: Braunsberg gli fa notare come nonostante eventi pesantissimi sia sempre riuscito a tornare “in pista”, l'altro ribatte che c'è sempre stato qualcosa che ha compensato per i fatti negativi e si domanda se sarebbe stata meglio una vita piana.
L'apparato di immagini di supporto è ricco e utilizzato bene: fotografie e fotogrammi di film mostrano Polanski fin da giovanissimo, sempre riconoscibile. I formati video si alternano, con foto a volte mostrate nelle loro giuste proporzioni, a volte ampliate a tutto schermo, con le classiche carrellate su di esse. L'inserimento di scene dai film di Polanski è moderato e nasce da riferimenti diretti (il ritrovamento del barattolo di cetrioli, la vita in comune ne Il pianista) e non (i campi di grano in Tess, la figura umana che giunge da lontano, sulla neve nel cortometraggio Mammals, associata a un ricordo d'infanzia). Lui racconta prima di tutto la sua vita, a cui si è intrecciato il cinema e che quest'ultimo ha a volte riflettuto: non ci si sofferma quindi sulla sua intera filmografia. La morte e la fanciulla è non pervenuto, mentre Polanski cita La nona porta per la lavorazione molto difficile e infine, nuovamente, Il pianista come il film della vita. 
In definitiva, un documentario sicuramente interessante, non solo per cinefili.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Roman Polanski - A Film Memoir
Anno: 2012
Regia: Laurent Bouzereau
Durata: 94'
Fotografia: Pawel Edelman
Musica: Alexandre Desplat
Uscita italiana: 18/5/2012

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ROSEMARY'S BABY - All of Them Witches

26/10/2013

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Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore newyorkese Ira Levin, Rosemary’s Baby è uno dei capolavori orrorifici per eccellenza, definito “uno dei dieci film più spaventosi di tutti i tempi” dall’autorevole settimanale americano Entertainment Weekly. 
L’opera, del 1968, giunge a un anno di distanza da Per favore non mordermi sul collo, eccelsa parodia vampirica firmata dall’autore franco-polacco, e segna il suo ingresso nell’establishment statunitense; la produzione è di William Castle, celeberrimo regista di b-movies, noto per le sue trovate ingegnose. Castle avrebbe voluto dirigere il film, ma venne scartato per la sua fama legata alla serie B; si accontentò di un cameo, comparendo nelle vesti dell’uomo che attende fuori dalla cabina del telefono mentre Rosemary chiama il Dr. Hill.
La pellicola è fedele al romanzo di Levin, poiché Polanski fu scrupolosissimo nella trasposizione, e sono ormai note le vicissitudini di casting legate ai ruoli dei protagonisti: per Rosemary vennero fatti i nomi di Tuesday Weld e Sharon Tate, che si dice appaia, non accreditata, nella scena della festa data da Rosemary per i suoi “amici giovani”, mentre per Guy venne chiamato in prima istanza Robert Redford, legato però a un altro vincolo contrattuale. Le scelte finali si sono rivelate perfette: Mia Farrow dona al personaggio qualità uniche, con il suo aspetto etereo e fragile, e John Cassavetes ne è la controparte ambigua ed egoista.
Guy pensa a se stesso fin dall’inizio: tanto la moglie è amorevole quanto lui è assolutamente concentrato sulla propria carriera; il patto col Diavolo, o meglio, con Roman Castevet (un Sidney Blackmer assolutamente in parte) è conseguenza naturale di un atteggiamento pre-esistente. Proprio in quegli anni, e sia il libro che il film ne sono lo specchio, la Chiesa di Satana fondata da Anton LaVey (che si diceva avesse apportato la sua consulenza, comparendo anche nel ruolo della Bestia, voci che vennero completamente smentite) era popolarissima negli States: si sanciva così la fine dell’era del flower power, del peace and love, in favore di derive oscure e inquietanti che raggiungeranno il loro picco più sanguinoso nel 1969, col massacro di Cielo Drive ad opera della Manson Family, nel quale perse la vita la stessa Sharon Tate, moglie di Polanski e all’ottavo mese di gravidanza. Il satanismo LaVeyano altro non era che un porre l’accento sull’individualismo e sull’ego, sulle conquiste materiali a scapito del resto: in questo Guy rappresenta il satanista perfetto. L’anziano Castevet, figlio dell’occultista Adrian Marcato, anch’egli un tempo dimorante nel medesimo palazzo, l’antico e lugubre Bramford, riconosce subito l’ambizione del giovane attore, offrendogli fama e successo in cambio della moglie, che dovrà prestare il grembo per dare alla luce l’Anticristo.
Il Bramford (nella realtà, il Dakota, nel quale abitò John Lennon e che proprio lì davanti trovò la morte), edificio vecchio così com’è vecchio il Male e come sono anziani coloro che lo abitano, è uno dei protagonisti principali del film: oggetto di sinistre leggende, non una è casa infestata in senso stretto, ma è impregnata dal culto malefico dei suoi inquilini; l’appartamento in cui la giovane coppia si trasferisce è l’oggetto del desiderio di Rosemary, che si trasformerà nella sua rovina.
La donna ha per l’intero film un atteggiamento remissivo ma esercita pieno controllo in due momenti precisi, ossia all’inizio e alla fine: nella decisione di traslocare nel Bramford e nel seguire l’istinto materno verso quel figlio che, nonostante tutto, sente come proprio. Rosemary’s Baby si snoda in modo progressivo, scoprendo le carte una alla volta, anche se fin dai primi momenti l’atmosfera sinistra è tangibile: dal suicidio della giovane ospite dei Castevet fino alle lugubri litanie che Guy e Rosemary sentono attraverso la parete della camera da letto. È proprio attraverso la voce che si preannunciano i due anziani personaggi, ancor prima del loro arrivo in scena: Polanski gioca sul sonoro, presentandoli attraverso i dialoghi che trapelano da mura non così spesse. 
Nel visivo, Roman e Minnie (interpretata da una formidabile Ruth Gordon, che per questo ruolo si portò a casa un Oscar e un Golden Globe come Miglior attrice non protagonista) sono eccentrici ma in apparenza innocui, anche se la signora Castevet appare un po’ troppo curiosa e invasiva. Il regista aveva ben chiaro in mente quale dovesse essere l’aspetto dei componenti della setta e voleva delle vecchie glorie di Hollywood per quei ruoli ma, non conoscendone i nomi, li disegnò: vennero chiamati coloro che erano più simili a quanto reso con carta e matita da Polanski. Tra gli altri, si notano Ralph Bellamy nelle vesti del Dr. Sapirstein e l’attrice comedy Patsy Kelly a interpretare Laura-Louise, membro della setta.
L’effetto-shock, sia nel libro che nel film, è affidato alle apparenze ingannevoli: nessuno sospetterebbe che dietro a dei vecchietti si celi un coven di adoratori di Satana, poiché i media associano questo tipo di culti a gruppi giovanili; in realtà si è assai vicini al vero, perché è proprio nell’elite, nell’alta società composta da persone adulte che spesso si concentrano fenomeni di questo tipo.
Di chi bisogna avere realmente paura, dunque? È uno dei quesiti fondamentali che il film pone allo spettatore, così come mette in primo piano il tema di una maternità violata, ma non per questo meno sentita. Il declino fisico di Rosemary nel corso della gravidanza, il suo apparire sempre più emaciata, non è dovuto soltanto alle strane pozioni dell’anziana vicina e ai bislacchi consigli del medico/stregone, ma è palese metafora del Male che si è insediato dentro di lei. Il “God is Dead” scritto in rosso su sfondo nero, che campeggia sulla copertina del Time nella sala d’aspetto di Sapirstein, torna nelle parole di Roman Castevet nella sequenza finale, in risposta al “Dio Mio!” esclamato da Rosemary :”Dio è Morto”, la sua scomparsa è la fine di un’era e l’inizio di anni assai più oscuri e spaventosi.
Il finale di Rosemary’s Baby è memorabile, così come indelebile è l’espressione dellla Farrow quando guarda nella culla nera: un terrore e un raccapriccio che fanno immaginare il peggio, angosciando e incutendo paura più di qualsiasi volto mostruoso e mostrato. Ancora una volta, il suggerito si dimostra vettore eccellente; sta a chi guarda creare l’orrore nella propria mente. “Cosa avete fatto ai suoi occhi?”: quel che giace nella culla non è umano, ma ciò non impedisce alla donna di sentire dell’amore istintivo, un atavico senso materno. L’abilità di Roman Polanski si ritrova nell’insinuare il dubbio nello spettatore, spingendolo a porsi la domanda se ciò che ha visto sia reale o solo il frutto della paranoia e follia di Rosemary: un quesito che non ha risposta. Con l’incertezza la visione si conclude, sulle note del magnifico (e agghiacciante) main theme composto da Christopher Komeda, la cui nenia è intonata dalla stessa Farrow.
La pellicola è impeccabile sotto ogni punto di vista, tecnicamente rigorosa, con una fotografia, ad opera di William A. Fraker, che si pone come fattore determinante per l’atmosfera del girato, inizialmente radiosa, via via più cupa.
L’anno successivo Polanski verrà colpito dalla tragedia di Cielo Drive; girarono voci a proposito del fatto che fossero stati proprio Rosemary’s Baby e la sua visione del satanismo a provocare le ire di Manson. In realtà i motivi erano ben diversi: la villa era stata precedentemente abitata da un produttore discografico, il quale aveva rifiutato le composizioni del folle musicista; la sua vendetta era una rappresaglia verso i “ricchi e famosi” che l’avevano rigettato.
Due anni dopo il brutale omicidio della moglie, il regista girò la sua celebre trasposizione del Macbeth (1971), che venne vista come naturale conseguenza dello shock subito, a causa di alcune scene particolarmente cruente; è più interessante, forse, notare una continuità tematica, ossia il proseguimento di un discorso sul Male, sul Diavolo che nell’opera shakesperiana assume forme e caratteristiche diverse, pur restando onnipresente.
Rosemary’s Baby è opera fondamentale, elemento-chiave dell’ideale trilogia sugli “orrori da appartamento” composta da Repulsion (1965) e L’inquilino del terzo piano (1976). Un magnifico dramma sulla paura, la paranoia, l’inganno e, inutile a dirsi, sul Male che può mettere radici in ognuno di noi.

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Rosemary’s Baby
Anno: 1968
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Roman Polanski
Fotografia: William A. Fraker
Musiche: Christopher Komeda
Durata: 136’
Uscita in Italia: 24 Dicembre 1968
Interpreti principali: Mia Farrow, John Cassavetes, Ruth Gordon, Sidney Blackmer, Ralph Bellamy

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PER FAVORE, NON MORDERMI SUL COLLO - La danza dei vampiri

19/10/2013

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In una locanda di un piccolo villaggio della Transilvania giunge il professor Abronsius (Jack MacGowran) in compagnia del maldestro assistente Alfred (Roman Polanski). L'esperto luminare, vampirologo di fama, scopre che nei pressi del paese sorge il castello del conte Von Krolock (Ferdy Mayne): certo che il maniero sia abitato da vampiri, vi si introduce di nascosto per approfondire i suoi studi. Lo segue il fido Alfred, intenzionato invece a salvare la giovane Sarah (Sharon Tate), affascinante figlia del locandiere, rapita sotto i suoi occhi proprio da Von Krolock.
Imprigionati dal conte con l'intento di succhiar loro il sangue e di tramutarli in creature immortali, raggiungeranno tuttavia il fine sperato, fuggendo dal castello con la ragazza. La strampalata evasione non sancirà però il successo della missione poiché Sarah, oramai contagiata, non tarderà a vampirizzare l'infatuato Alfred mordendolo sul collo a tradimento, mentre l'ignaro professor Abronsius guida il calesse che li condurrà in paese. “Quella notte, fuggendo dalla Transilvania, il professor Abronsius non si rese conto che stava portando con sé proprio quel male che voleva distruggere. Grazie a lui il male riuscirà così a propagarsi in tutto il mondo” narra la voce fuori campo, strappando il sorriso conclusivo appena prima dei titoli di coda.
Dopo Il coltello nell'acqua, Repulsion e Cul de sac Polanski si concede una tregua realizzando un esilarante tributo alla cinematografia di genere. Per favore, non mordermi sul collo fonde con intelligenza brivido e humour, parodiando scene memorabili della filmografia vampirica e omaggiandone i mostri sacri (Carl Theodor Dreyer, Christopher Lee, Bela Lugosi). Il cineasta confeziona una fiaba gotica, si diverte a mischiare le carte in tavola e gioca con lo spettatore, alternando sequenze non prive di tensione a gustosissimi episodi di una comicità grottesca e demenziale. Il merito è anche della recitazione dello stesso Polanski e di MacGowran, impeccabili nei panni di Alfred e del professor Abronsius, e di una meravigliosa Sharon Tate, all'epoca compagna e successivamente moglie del regista.
La fotografia di Douglas Slocombe, la scenografia di Wilfred Shingleton e le musiche di Krysztof Komeda (che morirà nel 1969, anno in cui perderà la vita pure la Tate) contribuiscono a plasmare alla perfezione il clima a metà strada tra l'horror e il fantastico che caratterizza la pellicola. Non da ultimo, lo spettacolare scenario innevato delle Dolomiti rievoca degnamente le atmosfere magiche e gli elementi paesaggisti tipici di un villaggio “stregato” sperduto tra i monti. Soggetto e sceneggiatura sono scritti a quattro mani da Roman Polanski e Gérard Brach.
Memorabile l'episodio del ballo al castello, durante il quale il professor Abronsius ed Alfred cercano di sfuggire a Von Krolock mescolandosi ai vampiri presenti: unici tra tutti gli ospiti a veder riflessa la propria immagine nello specchio della sala, saranno smascherati. Uno stratagemma solitamente utilizzato per portare allo scoperto i succhiatori di sangue fa sì che due esseri umani si tradiscano: così il tema della diversità viene analizzato sotto un'ottica rovesciata, dato che i mostri, gli anormali, in questo caso sono i mortali.
The Fearless Vampire Killers, or Pardon Me, But Your Teeth Are in My Neck è il titolo con il quale il film uscì nelle sale americane, al posto dell’originale e più cupo Dance of Vampires. Una curiosità: il nome di Polanski non compare tra quello degli attori citati nella locandina.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: The Fearless Vampire Killers, or Pardon Me, But Your Teeth Are in My Neck.
Anno: GB, Usa 1967
Regia: Roman Polanski
Soggetto e sceneggiatura: Gérard Brach, Roman Polanski.
Fotografia: Douglas Slocombe
Scenografia: Wilfred Shingleton
Musiche: Krysztof Komeda
Durata: 107'
Attori principali: Jack MacGowran, Roman Polanski, Sharon Tate, Alfie Bass, Ferdy Mayne, Jessie Robins

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