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D'APRÈS UNE HISTOIRE VRAI (Quello che non so di lei) - Un'anima per due volti

3/3/2018

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​“Non c’è quantità di fuoco o di gelo che possa sfidare ciò che un uomo può accumulare tra i fantasmi del suo cuore.” (Francis Scott Fitzgerald)

Ci sono film che nascono dall'idea di un un'unica persona, responsabile di tutto il processo creativo. Altri invece sono il risultato di una sorta di parto graduale e collettivo, alla fine del quale il risultato sullo schermo assomma sensazioni e personalità di ciascuno dei componenti. È il caso di Quello che non so di lei (D'après une histoire vrai), nuovo film di Roman Polanski, presentato lo scorso anno a Cannes e ora uscito, con molti mesi di ritardo, anche nei cinema italiani. Un lavoro stratificato, la cui base è un romanzo di Delphine de Vigan, consigliato a Polanski dalla compagna e musa Emmanuelle Seigner. Il libro d'origine è approdato nelle sale transitando dalla penna di Olivier Assayas, in veste di sceneggiatore, per essere infine (parzialmente) plasmato dall'occhio registico di Polanski. 

Il risultato, come si diceva, è un oggetto multiforme, nel quale si ritrovano elementi caratterizzanti ciascuno dei passi necessari per generare la trasposizione dalla materia letteraria al film. Multiformi sono anche i significati che fuoriescono dalle profondità emotive di una “storia vera” che tale non è, o forse sì, o forse solo in parte. Dubbi irrisolvibili, incatenati nelle pieghe di un thriller la cui carta da gioco principale è l'ambiguità, tema non a caso tanto caro sia al cinema di Assayas che a quello di Polanski.
D'après une histoire vrai è, sopra a tutto, un doloroso racconto di fantasmi. Fluttuanti, lievi, feroci e misteriosi. I fantasmi di una madre internata e morta suicida la cui tragedia ispira un romanzo best seller. I fantasmi di una pagina bianca che non si riesce più a riempire in alcun modo. I fantasmi di quel “libro della vita” che si ha dentro ma non si è capaci di estrarre. I fantasmi del successo artistico, paradossalmente destinati ad acuire stanchezza, solitudine e senso di mancamento verso se stessi. Infine, i fantasmi del doppio, personificati da una donna che forse esiste o forse no; un'ammiratrice senza scrupoli, una dolce strega dagli occhioni blu che incarna purezza celestiale e crudeltà demoniaca, un alter ego che scava dentro la mente della protagonista sino a divorarne ogni certezza. Una ghost writer (fantasmi, anche qui), sospesa dietro le quinte dell'immaginazione, sopra le nuvole del proprio firmamento, nei meandri di una convulsa ricerca della propria verità. 
Il rapporto tra Delphine, scrittrice in crisi d'identità e Elle (Lei nella versione italiana), sua seguace invadente e irresistibile, si situa su una strada che accosta il duello manipolatorio tra Kristen Stewart e Juliette Binoche in Sils Maria e la folle ossessione di Kathy Bates verso James Caan nel magnifico Misery di Rob Reiner. Qui, però, almeno per ampi tratti, tutto è più sfumato e misurato, tanto che il classico rapporto carnefice-vittima si perde nel fango di una profonda inconoscibilità, impossibile da decifrare, almeno sino all'approdo a una parte finale meno efficace perché troppo esibita. 
​
Durante la visione, in molti momenti, si ha la sensazione di assistere a un film non solo scritto ma anche diretto da Assayas, più che da Polanski. La regia di quest'ultimo pare infatti nascondersi nell'ombra. Eppure, nelle sfumature e nei ritagli dell'immagine, la poetica polanskiana riesce a farsi intravedere, in conturbanti oscurità che regalano sospiri e profumi grazie ai quali la mente per un attimo vaga verso tappe della sua gloriosa carriera, dalla persecuzione autoindotta de L'inquilino del terzo piano alla flagellazione interiore di Repulsion, dalla crudeltà melliflua di Rosemary's Baby al perverso rapporto di dominio e sottomissione in Luna di fiele, fino al rimescolamento di ruoli di Venere in pelliccia. 
Rimane comunque la sensazione che il grande autore ormai ottantaquattrenne abbia in questo caso voluto tenersi in disparte, lasciando il centro della scena a una duplice penna, quella della de Vigan e quella di Assayas. Duplice, appunto; dall'ambiguità al complesso tema del doppio, da una donna a due, da due a una. Un'anima per due volti, quello sofferto di Emmanuelle Seigner e quello seducente di Eva Green, la quale, pur con qualche eccesso, dimostra ancora, dopo l'ottima prova nella serie Penny Dreadful, di saper incarnare con efficacia la dicotomia angelo/diavolo. 
Le due tengono la scena quasi sempre da sole, senza affanni. Si studiano e si ammirano, si cercano e si sfidano. Intorno a loro la messinscena scorre silenziosa e trattenuta, al netto di qualche improvvisa esplosione di violenza (il massacro del frullatore con il mattarello, il gesso in mille pezzi) e di piccoli squarci di ipnotico orrore (l'inquietante rana all'interno di un libro per bambini). La storia, contenitore di altre microstorie, si dipana lungo il confine liminale tra realtà e immaginazione, sino a un epilogo non del tutto soddisfacente perché troppo sfacciato, tanto da ricordare il sopracitato Misery con evidenza eccessivamente marcata. Più interessante è ciò che avviene prima, durante un processo di conoscenza altrui che poi altro non è se non un viaggio verso la (definitiva?) conoscenza di sé. 
Un viaggio periglioso, scomodo, zoppicante e beffardo. Eppure necessario. 

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: D'après une histoire vraie
Anno: 2017
Durata: 110'
Regia: Roman Polanski
Soggetto: dal romanzo di Delphine de Vigan
Sceneggiatura: Olivier Assayas, Roman Polanski
Fotografia: Pawel Edelman
Musiche: Alexandre Desplat
Attori: Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Pérez

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VENERE IN PELLICCIA - Guerra dei sessi

16/11/2013

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L’ultimo film di Roman Polanski è un gioco riflesso. Una giostra smaliziata di proiezioni ingannatrici e mistificanti in cui i protagonisti, Thomas e Vanda, intellettuale frustrato lui e attricetta sboccata lei, si cimentano in un’altra carneficina, un nuovo massacro verbale e fisico a due anni di distanza dal precedente Carnage. Dalle quattro mura domestiche a quelle teatrali, con in più un tetto scoperchiato, strappo nel cielo di carta che rivela la tempesta esterna. Casomai non fosse bastato, a rivelarla, il meraviglioso piano sequenza iniziale, che consente allo spettatore di incunearsi nel setting di questo duello a due voci lasciandosi imprigionare al suo interno, vittima sacrificale egli stesso di una girandola ciarliera e raffinata, coltissima e affastellata di temi e spunti di riflessione. Tagliente come un colpo di frustra. Sadomaso, appunto. Ma più come idea filosofico-psicologica che in qualità di (superata) categoria di perversione erotica.
Venere in pelliccia conferma lo smagliante stato di forma di Roman Polanski, che a ottant’anni suonati ci regala uno dei suoi film più eleganti e complessi a partire da una pièce di David Ives, tratta a sua volta dal celebre testo originale di Leopold von Sacher-Masoch, che il regista di Repulsion ammette però candidamente di non aver letto per intero (solo una manciata di pagine) né tantomeno sopportato, trovandolo noioso e lontano dal suo interesse. Ha preferito ripiegare sulla dinamicità claustrofobica dell’adattamento per il palcoscenico, ben più stimolante per le sue corde di autore avvezzo a riflettere sulle chiusure, le coercizioni, i restringimenti e tutte le componenti ancestrali e paranoiche che vi sono connessi.
Pane per i suoi denti, dunque: a creare la gabbia, o per meglio dire il fitto, opprimente corridoio dal tentacolare senso del tatto in questo caso è proprio il continuo alternarsi tra teatro e vita, tra finzione e realtà. Una polarità che si viene a sovrapporre con quella che s’instaura tra i personaggi, splendidamente rinchiusi in un susseguirsi di diatribe e schermaglie, tra guèpiere e copioni da migliorare, scambi di ruolo e avvinghiamenti al tango macabro di una seduzione che non conosce limiti e barriere.
Venere in pelliccia è un film percorso da una febbre, da una frenesia tangibile ed epiteliale. È il masochismo, anch’esso come concetto generico, a guardarsi allo specchio riconoscendo il proprio volto, con lo sguardo vigile di Polanski che sghignazza sotto i baffi, che monta e rimonta, modella e amplifica, ridicolizza e gigioneggia sornione. In quello che è anche e non secondariamente un atto d’amore campale alla sensualità del corpo della moglie Emmanuelle Seigner, il regista polacco inscena quella che - ebbene sì - potrebbe perfino sembrare una parodia, come egli stesso non ha mancato di evidenziare, capace di tenere testa ai suoi obiettivi mettendosi in dubbio e negando in più momenti la sua effettiva veridicità, in un calembour sulfureo di metateatro che coincide con la magnifica rivalsa conclusiva non diciamo di quale delle due parti. Un finale che in parte scardina e contraddice l’acchittata tenitura del resto del film nel suo barocchismo fuori fuoco e fuori misura, sostanziando tuttavia la portata politica del racconto erotico, tra cactus che diventano simboli fallici e immersioni profonde nei luoghi tematici più celebri del teatro euripideo.
“E l’onnipotente lo colpì, e lo consegnò nelle mani di una donna”. Questa l’epigrafe d’apertura, a suggerire una maledizione di sicuro pregressa, a lasciare pochi dubbi sulla risoluzione. Polanski la fa sua anche per bearsi delle ripetute unghiate inflitte alla figura del regista presunto onnipotente, qui ben lontano dall’essere un padreterno che tutto sa e tutto può, messo alla berlina oltre che sfiduciato, fatto a pezzi in quel suo caschetto così dannatamente vicino al se stesso degli esordi, specie quello de L’inquilino del terzo piano.
Venere in pelliccia, se ci si pensa, ha luogo nello stesso spazio evanescente di quel film, pronto a dissolversi sotto i colpi di un cerebralismo nient’affatto di confezione, che trova nella veste del film-cervello aulico (un’opera che “venderebbe l’anima per un’allitterazione”) la sua più solida e destabilizzata idea di messa in scena, simile a una frizzante sciarada in cui è l’uomo a creare il Frankenstein di una donna ribelle, emancipata, eversiva rispetto a ogni forma di controllo. Che si proceda con la guerra dei sessi, allora. Ad armi pari, ma anche no, com’è giusto che sia.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: La Vénus à la fourrure
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: David Ives e Roman Polanski, tratta dalla pièce Venus in Fur di David Ives
Attori: Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric
Fotografia: Pawel Edelman
Montaggio: Margot Meynier, Hervé de Luze
Musiche: Alexandre Desplat
Anno: 2013
Durata: 96’

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LUNA DI FIELE - Fammi male, Mimì

15/11/2013

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L'amore che muore. Oppure evolve. Diventa altro. Si trasforma in perversione, odio, sfruttamento, ossessione. L'uomo padrone e la donna schiava, o viceversa. Il sesso come strumento di dominio, sottomissione, stravolgimento di ruoli e ambizioni, certezze e tradizioni, immagini e illusioni. L'atto fisico come malattia insopprimibile, dipendenza logorante, erezione permanente. Poi la noia, il fastidio, l'odore del corpo eccitato che svanisce, la voluttà del pensiero e dell'azione che inesorabile si perde tra i sentieri della banalità. 
A combattere la necessità dell'abbandono rimane infine un legame, quasi obbligato, totalitario, coacervo di sensazioni e privazioni, simbolo di eterna dannazione e veicolo capace di guidare sino al limite estremo. E oltre.
​
Nave da crociera in viaggio verso Istanbul. Una coppia dalle buone maniere in crisi d'identità, alla ricerca di nuove emozioni per ritrovare l'attrazione perduta e combattere il piattume del quotidiano. Un'altra coppia, dalle abitudini misteriose e conturbanti. Una lunga storia, disgustosa e meravigliosa, da raccontare, ascoltare, sopportare, per ottenere la soddisfazione di un sogno dagli occhi di ghiaccio. Quattro personaggi, quattro pedine mosse da Roman Polanski in un continuo gioco di smistamenti e incroci, confronti e distanze, annientamento e sorprendenti alchimie. 
​
Come sarà poi anche in Carnage, come già era stato ad esempio in Rosemary's Baby, il maestro polacco costruisce con Luna di Fiele un esemplare atto satirico in cui scartavetrare gli angoli bui dell'anima umana, alla ricerca di quegli anfratti oscuri nel quale pulsa il vero senso della vita e delle azioni che la accompagnano. Gli bastano un luogo in finto movimento, qualche corridoio stretto, un lieve rollio, quattro attori e alcuni salti narrativi tra presente e passato: non c'è bisogno di ulteriori artifici, né di invenzioni strutturali; la regalità del cinema polanskiano, come sempre, viaggia a braccetto con l'essenzialità della forma, trovando un ennesimo e invidiabile punto di rottura.
​
Latte versato e spalmato sul seno; una danza lasciva a piedi nudi tra le candele; frustini e travestimenti; lo strumento del potere carnale a cavalcioni sulla bocca di un amante immobilizzato; una notte di passione lesbica che scivola oltre i muri del voyeurismo. Emmanuelle Seigner irresistibile femme fatale, "tutta la bellezza del mondo racchiusa in un corpo di donna"; Peter Coyote vittima/carnefice dalle mille sfumature; Hugh Grant ingenuo loser scavato da pruriti non più soffocabili; Kristin Scott Thomas oggetto di un'iniziazione tardiva ma non troppo. Tasselli interscambiabili, confusi e infelici, in corsa verso la vita con un'inclinazione verso la morte, nel tegame fumante di una ricetta afrodisiaca i cui risultati non potranno che essere nefasti.
​
Polanski attacca, ironizza, svia le previsioni, facendosi trainare dalle musiche dei Vangelis e dalla fotografia di Tonino Delli Colli. Luna di fiele sconvolge e seduce, ci guida negli umori del sesso per poi lasciarci inebetiti di fronte alla risoluzione degli eventi. Dura oltre due ore, ma non stanca neanche per sbaglio; è come una seduta psicoanalitica, nella quale ritrovare un po' di noi stessi, di quello che siamo o vorremmo essere se solo ne avessimo il coraggio, perché in fondo "in tutti noi c'è una vena di sadismo, e non c'è niente di peggio di sapere che esiste qualcuno disposto a essere totalmente alla tua mercé". 
Così ci ritroviamo ipnotizzati, in viaggio su quella linea 96 diretta a Rue des Lilas e poi storditi dal rumore sordo della graduale follia; ascoltiamo, anche noi, nutrendoci soprattutto del corpo di Mimì/Emmanuele, dipinto da penetrare e scultura da adorare. Dal suo sguardo partono i fili invisibili che muovono i burattini che le stanno intorno, cadaveri in decomposizione pronti a risorgere in preghiera davanti alla Dea vendicatrice.
​ 
Immersi tra le fauci del peccato scandagliamo con Polanski i recessi della vanità umana, glorificando l'acre sapore della rivalsa. Il mondo là fuori non ci interessa più. C'è soltanto una nave, e ci sono una scacchiera di carne, una camera oscura, un involucro di calda pelle da leccare e consumare, un rasoio tagliente, un limite che tale più non è.

​Sono tuo, adesso. Devo essere umiliato, ancora e ancora. Me lo merito. Fammi male, Mimì.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Bitter Moon
Anno: 1992
Durata: 138'
Regia: Roman Polanski
Soggetto: Pascal Bruckner (romanzo)
Sceneggiatura: Roman Polanski, Gérard Brach, John Brownjohn
Fotografia: Tonino Delli Colli
Montaggio: Hervé de Luze
Musiche: Vangelis
Attori: Hugh Grant, Kristin Scott Thomas, Emmanuelle Seigner, Peter Coyote

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LA NONA PORTA - Sottostimata ironia

17/10/2013

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La nona porta arriva dopo un silenzio del suo autore durato ben cinque anni (tanti lo separano dal precedente La morte e la fanciulla), e ad oggi viene ancora considerato come uno dei pochissimi anelli deboli all’interno della filmografia polanskiana. Andando a rispolverare l’antologia critica dell’epoca, infatti, ci si può rendere conto di quanto il film sia stato ignorato (per non dire stroncato) dalla quasi totalità della stampa internazionale, in maniera seconda forse solamente all’altrettanto criticato Pirati del 1986. Ad essere messi sotto accusa furono soprattutto la presunta inconsistenza del film, per molti esageratamente privo di una profondità vera e propria, e un finale sbrigativo e poco convincente. Ma andiamo con ordine.
Polanski parte dal romanzo Il club Dumas scritto da Arturo Perez-Reverte, prosciugandolo di molti passaggi narrativi e semplificandone alcuni aspetti, per raccontare la verifica dell’autenticità delle tre copie esistenti del famigerato tomo “Le nove porte” da parte di Dean Corso, ricercatore di libri rari quasi mai incline al compromesso. Per il regista polacco è l’occasione per ritornare su alcuni territori già battuti in precedenza: se la componente “demoniaca” rimanda ovviamente a Rosemary’s Baby, allo stesso modo la struttura investigativa ricalca quella del celebre Chinatown, trasformando così il film in un affascinante ibrido a metà tra l’horror e il noir senza mai appartenere definitivamente all’uno o all’altro genere.
Quello che da molti è stato frettolosamente dipinto come il semplice divertissement da parte di un regista in vacanza, rivisto oggi a quattordici anni di distanza rimane invece un’opera di grande e indiscutibile fascino. La nona porta è un film che vive entro i confini di un’atmosfera magica e sospesa, nella quale lo spettatore viene rapito nonostante l’assenza di qualsiasi progressione psicologica; un film di puro cinema insomma, fatto di detection e ricerca, in grado di catturare l’attenzione attraverso quei pochi elementi basilari che, nelle mani di Polanski, da soli riescono a imprimersi indelebilmente nella memoria. Per dirla in altri termini: un’indagine che si dipana attraverso pile di libri, omicidi misteriosi, treni di notte, viaggi in una vecchia Europa che non puzza mai di cartolina e, soprattutto, un senso di mistero e impenetrabilità che sembra quasi evaporare dalla pellicola e raggiungerci le narici, senza mai riuscire a comprenderlo fino in fondo.
Perché La nona porta stesso è così: imperscrutabile, inafferrabile, fatto di una materia intangibile che costringe, tutte le volte, a rimanere incollati allo schermo. E poi c’è quel finale, così odiato e incompreso, ma in realtà perfettamente coerente con la poetica del suo autore: regista da sempre votato allo sberleffo e all’assurdo, stavolta Polanski non può fare a meno di concludere questa seriosissima ricerca del demonio e dell’immortalità con una fragorosa presa in giro nei confronti di chi, fino a quel momento, ha preso sul serio quanto mostrato.
Quasi in risposta a tutti coloro che presero alla lettera Rosemary’s Baby (film notoriamente da lui poco amato), l’irriverente folletto polacco rimescola le carte in tavola e ribadisce, una volta per tutte, che del Diavolo e della Santità gli interessa poco o niente. Piuttosto, meglio raggiungere la Conoscenza attraverso l’amore fisico con una bella donna dagli occhi verdi (Emmanuelle Seigner, sua moglie nella realtà, e non è un caso) che con tutti i sotterfugi e le meschinità del sottobosco esoterico. Un divertissement, quindi? Assolutamente. Privo di una profondità vera e propria? Può anche darsi, ma di una leggerezza e di una spensieratezza (filmica) assolutamente ricercata.
Una particolare nota di merito, infine, a due aspetti tecnici che contribuiscono in maniera non indifferente alla riuscita della pellicola: la fotografia di Darius Khonji e, soprattutto, le musiche magnetiche di Wojciech Kilar. Insomma, che non sia il miglior film di Roman Polanski è un dato di fatto, ma è vero anche che questa ricerca spasmodica e oltranzista del capolavoro a tutti i costi rischia sempre più di privare lo spettatore di un puro e genuino divertimento. Diletto mai così raffinato e intelligente come in questo caso.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: The Ninth Gate
Anno: 1999
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Enrique Urbizu, John Browjohn, Roman Polanski
Fotografia: Darius Khonji
Musiche: Wojciech Kilar
Durata: 127’
Attori principali: Johnny Depp, Emmanuelle Seigner, Frank Langella, Lena Olin, James Russo, Jack Taylor

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FRANTIC – Frenesia hitchcockiana

8/10/2013

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Ci sono omaggi e omaggi. Alcuni superficiali e solo epiteliali, altri profondi, più strutturali, perfino memorabili. Frantic confluisce di gran carriera nella seconda categoria, imponendosi nell’immaginario cinematografico come una delle lettere d’amore a sir Alfred Hitchcock più vivide e sentite che siano mai state scritte da un altro regista, specie in epoca tardo-contemporanea (aggettivo comunque da relativizzare, essendo il cinema figlio quasi esclusivo del XX° secolo).
I titoli di testa sballottano immediatamente il film catapultandolo indietro di almeno un cinquantennio, e il resto non è da meno: dissolvenza incrociata e subito l’interno di un’automobile, in cui i personaggi si distinguono nitidamente e lo sfondo appare invece sfocato in profondità. Una notazione fotografica che chi ha letto il meraviglioso dialogo-testamento Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, uno dei volumi cardine di tutta la letteratura cinematografica, non avrà problemi a contestualizzare a dovere, ricordando come lo stesso Hitch abbia chiarito in quell’occasione le ragioni di questa scollatura fotografica tirando in ballo una sostanziale differenza d’approccio visivo tra film inglesi e americani di quel periodo (la distinzione si trova per altro nelle prime pagine del volume). Ecco, anche solo fermandosi ai titoli di testa di Frantic sembra già di stare dentro una riesumazione filologica de L’uomo che sapeva troppo (la seconda versione a colori, naturalmente), condotta entro i parametri intelligenti e illuminati del conoscitore profondo e allo stesso tempo rispettoso, che mira più che altro a interiorizzare l’oggetto del plaisir d’amour e la sua lezione incomparabile piuttosto che entrarvi goffamente in competizione.
Roman Polanski evita la mossa suicida e porta a casa il miglior tributo possibile al geniale maestro inglese, emulandone in maniera certosina – e non riproducendone stancamente - lo spirito, la formalità, perfino certe liturgie collocabili esattamente a metà tra vizio, vezzo e virtù. La sagoma del regista de L’ombra del dubbio non è però ingombrante o ingerente e se ne arriva a stemperare la gravosità con qualche citazione ai limiti del calco: la scena in cui il Richard di Harrison Ford regge per la mano Michelle, che si appresta a precipitare rovinosamente nel vuoto dalla sommità del palazzo, è un palese riferimento alla celebre sequenza di Intrigo Internazionale, il film hitchcockiano al quale Frantic guarda più direttamente negli occhi, in cui Cary Grant salva Eva Marie Saint sul celebre e iconico monte Rushmore. Per non parlare della scena sul tetto consumata tra Marlboro scartabellate e antenne, riproduzione esemplificativa e perfetta della vertigo hitchockiana e del suo valore cinematografico, storico, addirittura umano.
Polanski fa esplodere la partitura legata al maestro del brivido, semmai a qualcuno fosse venuto in mente il rischio di un’ingessatura, rendendola però acida oltre ogni previsione, tra formalità alberghiere che vengono esasperate ben al di là dell’umana sopportazione e una cura maniacale per i dettagli che intende trasmettere un senso di oppressione e di mistero incombente. Ma la detection condotta dal personaggio di Ford, protagonista di una vera e propria odissea frustrante e virata in nero nel tentativo di rintracciare la moglie inspiegabilmente scomparsa, è manco a dirlo solo un pretesto per congelare il film, raffreddandone i toni per farne una sorta di parabola emblematica e universale.
Come sempre Polanski lavora sui fantasmi e sui corridoi deformi della psiche, secondo modalità sia fisiche che metafisiche che hanno ugualmente diritto di cittadinanza nella sua distorta e rovesciata visione della realtà. Frantic, nella fattispecie, somiglia a un imbuto che mira irreversibilmente verso il basso nonostante l’orizzontalità di una messa in scena di grande impatto, applicata a una Parigi che smette la veste da cartolina per lasciarsi imprigionare da nuvole e grigiori. Sembra una Londra corrosa sotterraneamente da una decadenza oscura, ed è un punto a favore non da poco per la riuscita complessiva di un film che fa della capitale transalpina un valore aggiunto e perfino un personaggio a sé. Gli inquilini di questa metropoli insolitamente ammusonita e mai così anti-romantica non potrebbero essere più sprezzanti e ributtanti, insinuando il lecito sospetto che Polanski abbia voluto fornire uno smaliziato ritratto al vetriolo dei francesi e della loro generalizzata riluttanza verso tutto e tutti.
Grande apporto quello di Harrison Ford, mai così fascinoso ed elegante, uomo relativamente comune catapultato in una situazione più grande di lui che lo (s)travolge e ne causa il crollo trasversale delle certezze, fedelmente a un altro meccanismo proprio del magistero hitchcockiano e anch’esso piuttosto collaudato (nel film c’è anche il famoso McGuffin, a dirla tutta...). Incredibile anche il tappeto sonoro, che può beneficiare di un ispirato e contenuto Ennio Morricone alle prese con un accompagnamento musicale sottile e sfumato nei minimi dettagli, davvero adeguato alle atmosfere di crescente paranoia di quello che è in assoluto uno dei più grandi gioielli di morbosità della filmografia polanskiana.
In definitiva Frantic, oltre ad averci messo davanti agli occhi una volta per tutte la bellezza annichilente di Emmanuelle Seigner, ha il merito innegabile di essere una delle regie in assoluto più raffinate e affascinanti di Polanski, un piccolo classico della sua carriera da coccolare gelosamente al pari dei titoli dell'autore polacco che più di altri hanno bucato l’immaginario. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski  


Scheda tecnica

Anno: 1988
Durata: 120’
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Roman Polanski e Gérard Bach
Fotografia: Witold Sobocinski
Montaggio: Sam O’Steen
Musiche: Ennio Morricone e Grace Jones
Scenografia: Pierre Guffroy
Attori: Harrison Ford, Betty Buckley, Emmanuelle Seigner, Yorgo Voyagis

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