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CUL DE SAC - L'oasi dell'assurdo

9/11/2013

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Un gangster ferito e il suo socio giungono in un castello isolato a intervalli regolari dall’alta marea, nel quale vive una giovane coppia lontana dal mondo civilizzato, sospesa in un ambiente simile a un limbo dalle atmosfere schizoidi. Fuori di testa, ma anche fuori da tutto il resto. È il perfetto setting per il cul-de-sac del titolo, espressione francofona divenuta proverbiale in più lingue per indagare un incubo grottesco senza apparente via d’uscita, imprigionato entro i margini paranoici dell’ossessione e della distorsione di ogni buon senso.
Cul de sac, spesso relegato a torto tra i film minori di Roman Polanski quando si tratta invece di una delle sue opere stilisticamente più personali e memorabili, restituisce tale claustrofobia cui è stata troncata ogni ipotizzabile via di fuga, per mezzo di una messa in scena di notevole maestria: i primi piani in contrapposizione ai campi lunghi sono un contrasto fortissimo che risplende di luce propria in tutto il primo Polanski (Il coltello nell’acqua, di fatto, è uno dei più grandi teoremi moderni sulla nascita della tensione in rapporto allo spazio) e che qui trova il suo massimo compimento. Elevando tutto il film a summa geometrica e inarrivabile punta di diamante di tutta la prima parte di carriera del regista polacco.
Difficile immaginare un altro film tanto lucido nella farsa e nella resa dei suoi sottotesti, così spiazzante ed estasiante nella denigrazione a tutto campo, emblema decadente e probabilmente già decaduto dell’eclissi terminale di una borghesia ridotta a fantoccio, a vespaio di nevrosi e aggressioni. Lo spirito anarchico di Cul de sac, visto oggi, somiglia a una voragine di cinismo cupo e distruttivo non scalfito dal tempo. L’ironia vi penetra, certo, ma a dosi minime, dosate col contagocce di un termometro surreale esigente, sorretto dalla necessità di dover reggere sulle proprie spalle la pericolante instabilità di un castello di carte che può oscillare ma non cadere, costretto a rimanere in piedi anche se una dissoluzione definitiva sarebbe forse preferibile. Più sana, più assoluta, più compiuta. L’ambientazione in una struttura d’impronta medievale ingigantisce allora il mistero ma anche le possibili chiavi di lettura, tutte rigorosamente virate verso una visione folle dei rapporti umani e del modo in cui essi si articolano.
La risata libera, il calcio nelle parti basse, la facile crudeltà bambinesca che imbraccia un fucile e con un dito può cambiare il mondo così come l’ha sempre visto e pensato fino a quel momento con i suoi occhi innocenti. Cul de sac potrebbe anche essere abitato da fantasmi ma non se ne accorgerebbe quasi nessuno, perché i personaggi sono congegnati con una tale forza e una profondità tutta concreta che neanche l’astrazione più impensabile potrebbe abiurare lo zolfo in cui appaiono immersi fino al collo.
Il sonoro ancheggiante e perturbante, che sembra quasi una comica della Pantera Rosa riletta in chiave enigmatica (l’andamento felpato è lo stesso), un rapporto schiavo-padrone fecondo e complesso (degno di Vladimiro ed Estragone, nel film più beckettiano di Polanski, il che è tutto dire…) e la pelata iconica di Donald Pleasance contribuiscono alla riuscita di una sensazionale oasi dell’assurdo, manifesto cardine di un cinema che per molti versi devasta le non-convenzioni, le assottiglia e le riformula, svelando il lato più macabro e temibile del non senso.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Cul de sac
Anno: 1966
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Gérard Brach, Roman Polanski
Fotografia: Gilbert Taylor
Musiche: Krzysztof Komeda
Durata: 111'
Attori principali: Donald Pleasence, Françoise Dorléac, Lionel Stander, Jack MacGowran

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