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HEAVEN'S GATE (I CANCELLI DEL CIELO) - L'America di Michael Cimino

26/8/2016

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​"La storia del West in generale è stimolante, rigurgita di avvenimenti, è una continua fonte di fascinazione. L'episodio di questa piccola guerra, quando mi ci sono imbattuto, mi ha affascinato, non so bene perché. Forse perché era soprattutto la morte stabilita formalmente sulle liste, ufficializzata dal governo centrale e da quello federale. Ciò che mi ha sempre interessato è capire come si prendono delle decisioni che porteranno alla morte di persone". (1)

Michael Cimino era americano, e come tale parlava della sua nazione conoscendone le idiosincrasie e amandone il chiaroscuro. Cimino sapeva bene, dunque, quanto quel mito della frontiera avesse plasmato (e plasmasse) il cinema hollywoodiano dagli albori e instancabilmente anche questa New Wave (per una volta, persino newyorkese) che si era permessa, tra il ’67 e l’80, di ribaltare produzione, censura e immaginario e allentarne i lacci emostatici. I cancelli del cielo non può che essere letto in virtù di questo reiterato attaccamento a un ideale che per un popolo si era fatto urgenza, e nel frattempo storia, e per il cinema bibbia su cui rileggere e reinterpretarne i fondali, gli iati, le scalfitture. 
La vicissitudine di un’opera mastodontica che, a riguardarla ora, appare, così ossigenata, piccola e ariosa, incapace di stridere, liberatasi dal paraocchi delle ideologie da cui è nata e da cui, spiacevolmente, fu abbattuta. Ovviamente I cancelli del cielo è un lavoro fermamente schierato, allo stesso modo in cui il Western degli anni ’40 lo era a sfavore degli Indios, similarmente rappresentati su pellicola da messicani o da figuranti con il volto dipinto. Ma, sarcastico l’appunto dell’ubriaco compagno di James Averill (indiscusso protagonista), William C. Irvine, osservando la strage che gli si compiva davanti: “It’s not like the Indians. You can’t kill them all”. È quel melting pot utopico che nel Nuovo Mondo si propone di avviare un’assimilazione totale dei nativi per procedere alla formazione di un carattere nazionale che si generi dal conflitto. 
Ma quello a cui Cimino punta, riesumando una vicenda approssimata dalle bibliografie ufficiali, è il medias res di un’americanizzazione che, a discapito della più vecchia (e pur sempre razzista) fiducia nell’immigrazione come movente per la generazione dell’uomo nuovo, fotografa un’epoca, quella tra il 1890 e il 1900, ove degli europei, generalmente poveri, non s’aveva bisogno: l’Americano esisteva, d’identità fatta e finita. Qualcuno prima di loro era stato sacrificato (e assorbito) per una buona causa. 
L’immigrazione, sotto stretto ordine (ma non vigilanza) dello Stato e dei governatori, fu ostinatamente frenata; accadde altrove, come nell’episodio della Contea di Johnson esemplificato da Cimino, che gli allevatori arrangiassero un esercito privato legittimato in modo da assassinare gli agricoltori europei della contea, già insediatasi ma supposti rei d’aver razziato il loro bestiame. Anche questa (ed è quanto perviene dal film in materia strettamente storica) è una semplificazione. In questo senso, la scelta di inquadrare una strage indiscriminata (ma ordinata in una sorta di lista nera) pose l’opera in una precisa posizione “anti-americana”, sfacciatamente schierata con l’indigente e l’oppresso – non a caso la pellicola venne definita “marxista”e lo stesso autore, spiegando il tema chiave dell’opera, riferì che “quite possibly, what the film is about, as much as anything else, is class. In a lot of ways, I think that class is emerging as a dominant theme in the film”. (2) Aspetto che, si legge, indispettì lo stesso Reagan, dal 1981 nuovamente presidente, questa volta repubblicano. 

1) Cimino su I Cancelli del cielo, “Cahiers du Cinéma”, n. 337, 1982
2) The Buffalo Film Seminars, Conversations about great film with Diane Christian and Bruce Jackson, March, 26, 2013 (XXVI: 10)

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​I cancelli del cielo subì, evidentemente, un’opera di trucido boicottaggio che interessò critici, produttori, dunque politica e, di conseguenza, spettatori; le anteprime vennero cancellate, fu ri-editato, letteralmente sbriciolato dallo stesso Cimino, mortificato ma ostinato a credere in quello che doveva essere il suo primissimo progetto da cineasta, infine ancora ostracizzato dalle sale e destinato ad essere riesumato poco dopo dalla televisione americana nella sua versione integrale e da quella italiana per mano di un altrettanto ostinato Enrico Ghezzi.
​L’impegno della Cineteca di Bologna fu costante: nel 2003, ospitò Cimino in virtù di una retrospettiva omnia delle sue opere, tra cui quella stessa integrale, ancora però distante dal restauro Criterion che nel 2016, finalmente, dopo la presentazione nella sezione Classici al festival di Venezia 2012 e conseguente commercializzazione, vede un’insperata e sfortunatamente postuma, sebbene legata a tempistiche tecnico-distributive, distribuzione nelle sale di quella che non è male definire la versione ufficiale (supervisionata dall’autore) di un’opera malinconica, eppure vaporosa, impalpabile. 
Nella revisione odierna, è d’estremo dovere dichiarare, per la fugacità con la quale si palesa agli occhi, la prassi di vera mutilazione a cui fu sottoposta l’opera da parte dello stesso autore, confuso dalla necessità di giungere a un riassetto breve e funzionale, a discapito di una narrazione che trova efficacemente sollievo nell’ampiezza dei suoi 216 minuti attuali. Di fronte alla lunga sequenza finale dello scontro armato tra americani ed immigrati facilmente si pensa alle cinque ore e 25 minuti della rough cut, consapevoli che quanto ora visionabile è parte d’un intero dal potenziale sepolto e ventre d’un taglio solo ora risanato e che appare, oggi, indegno. 
Con buona pace degli storicismi sollazzati dal suo essere tutt’ora banderuola di fine epoca, quella di una presunta stravagante libertà nel cinema, Michael Cimino si fa qui giustamente sfregio di un perfezionismo cronografico e documentario, facendosi strada con scarti temporali e ignorando volutamente quelli che altrove sarebbero assodati snodi narrativi (3), gentili vuoti di cui non s’avverte la portata, di cui il fruitore avvezzo sa riconoscere l’alterazione e ne intende la probabile secondarietà. Cimino è conscio che il fulcro monumentale del lavoro risiede nella sua ricostruzione scenografica abbagliante, impensabile in CGI (che sia la carneficina, battaglia ventosa e danzante, un campione eccellente), nel volgere compiutamente umano nei confronti dei suoi personaggi, non solo principali, e soprattutto nell’affezione che in essi si respira, nel panismo lievemente abbozzato, nell’introspezione mai didascalica che diventa protagonista in una sceneggiatura sagace, capace d’eludere lo scontato, anche all’interno di una vicenda tragico-sentimentale piuttosto classica. 

3) Già altrove evidenziata, in riferimento alla theatrical version: “a fianco di tali, felici intuizioni manca però il resto: i tagli a piene mani hanno inficiato la scorrevolezza del racconto, che presenta più di un passaggio oscuro, le intenzioni polemiche sono diluite dal prolungato soffermarsi su vicende collaterali, il film insomma manca di un respiro globale, che è invece requisito indispensabile per fare epica”, ('Segnalazioni cinematografiche', vol. 91, 1981)

V’è un eroe, James Averill (Kris Kristofferson), crepuscolare e deluso com’erano i cowboy dei ’50, un amore ostacolato da un futuro di morte (con l’amante francese Ella, Isabelle Huppert), un contendente inafferrabile che lavora per i guerrafondai proprietari terrieri, Nate Champion (Christopher Walken), anch’egli destinato a un finale agghiacciante di perdita; ancor di più, v’è il soffio nostalgico del ricordo nitido e mai spentosi dell’avvocato, allora maresciallo, James, stipato nelle sue reminiscenze d’avorio, impossibilitato a guarire. Un personale fuoco prospettico ne fa narratore onnisciente, silenzioso, laddove il preambolo di gioventù ad Harvard suggella un passato proprio di ideali solo allora praticabili, intaccati. 
Ci sono gli sguardi sulla terra che Cimino coglie a passo fluido, nel perenne tentativo di superare una bidimensionalità che di scremabile ha solo il pittorico, mentre le geometrie e le accuratezze dei quadri si fanno austere ma sempre a sorprendere per elasticità, a giungere mai perentorie, inconsuete per la (simulata) spontaneità con le quali si avvolgono. Il lavoro sulla luce di Vilmos Zsigmond, negli impasti di rumore fotografico e nel chiarore indefesso che lo pervade, meriterebbe esamina altrove, insieme all’intervento di scanning digitale praticato in ottemperanza a una resa il più possibile vicina al colore dei negativi originali. Un animale peculiare e in sé un estratto dimostrativo di quanto il restauro possa realizzare. 
Quanto vi è di attuale in un lavoro che compie trentasei anni, di gestazione e tribolato processo, ma anche di numerosi apprezzamenti a ridosso (specialmente in Europa), è agli occhi di tutti, laddove Cimino, da grande narratore, ha pensato bene di estrarre le vicende umane dai loro attracchi storici, sollevandole da impietosi doveri d’obbedienza; lasciando, cioè, che fosse l’incrocio di pluralità universali, sempre valide, a sospingere una storia decadente che allora apriva veramente un’epoca, gli ’80, altrettanto nostalgici. 
Heaven's Gate svetta ora per la lucidità con la quale può guardare ai moti umani senza voler fungere da monito, o da valvola per scatenare l’iper-violenza; per la sua invidiabile semplicità e fermezza nel dipanare l’idea che “la gente povera non ha nulla da dire in questo paese”, allora come adesso; per il ritmo pacato, costante, pur nei guizzi, che è anzitutto un modello a cui guardare. Il suo essere estremamente, e prima d’ogni cosa, cinematografica, ciò che la rende una visione estatica e imprescindibile. 

Laura Delle Vedove

Sezioni di riferimento: Revival 60/70/80, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Heaven's Gate
Anno: 1980
Durata: 219 min (versione originale), 149 min (versione tagliata), 216 min (director's cut)
Regia: Michael Cimino
Sceneggiatura: Michael Cimino
Fotografia: Vilmos Zsigmond
Musiche: David Mansfield
Attori: Kris Kristofferson, Christopher Walken, John Hurt, Brad Dourif, Isabelle Huppert, Joseph Cotten, Jeff Bridges

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AMADEUS - Mozart e Salieri

3/3/2016

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Quando l’irrazionale squarcia l’esile velo della realtà regolata, che l’intelletto ha concepito per proteggere le fragili fondamenta del proprio equilibrio, sovente scaturisce una reazione di diniego nei confronti dell’irrompere, nelle vicende umane, di una Natura tutt’altro che finalisticamente organizzata. Per recuperare l’equilibrio così compromesso è inevitabile la ricerca di un’altra verità, che, pur senza essere in grado di ripristinare l’ordine originario, sia capace di spiegare razionalmente l’insorgere del caos. 
​
Quando Wolfgang Amadeus Mozart trapassa, il 5 dicembre 1791, all’età di 35 anni, uno sgomento senza nome si impossessa dell’immaginario collettivo dell’epoca, che non tarda a formulare l’ipotesi di una macchinazione, consumatasi ai danni del musicista salisburghese. Piuttosto che accettare l’ennesimo attestato dell’indifferenza della Natura rispetto alle sorti dell’uomo e alle più sfolgoranti manifestazioni del suo genio, è preferibile individuare qualcuno a cui addossare la colpa di un misfatto, che diviene tale solo e soltanto in una visione del cosmo teleologica, strutturata secondo una gerarchia valoriale prettamente antropica ed evidentemente distante dalle imperscrutabili leggi naturali. A volte i grandi se ne vanno presto e inaspettatamente: niente può modificare questo semplice dato. 
In ogni caso, già nei mesi appena successivi alla morte di Mozart, cominciano a circolare inquietanti voci sull’evento: svariati periodici, austriaci e non, ventilano l’ipotesi che il musicista salisburghese sia stato avvelenato; in secondo luogo, la moglie Constanze racconta di come, negli ultimi mesi di vita, il marito l’avesse messa a parte del timore che qualcuno stesse cercando di avvelenarlo; comincia a circolare poi il nome di un Fratello di Loggia di Mozart (1), fra i sospettati, tale Franz Hofdehmel, il quale, il giorno successivo alla morte del compositore, aggredisce e sfregia la propria moglie incinta, allieva di Mozart, e poi si uccide; da (buon) ultimo emerge il nome di Antonio Salieri, Kammerkomponist e Kapellmeister presso la corte asburgica, fin dalla giovane età di 24 anni (quindi dal 1774). 
Nel caso di Salieri, va precisato come sia stato egli stesso, a più riprese, ad autoaccusarsi della morte di Mozart (2) e come in alcuni ambienti altolocati – ad esempio nell’entourage di Beethoven – l’idea che Mozart fosse stato assassinato dal compositore italiano venisse presa in forte considerazione. Una volta precisato che, in ultima istanza, la verità definitiva rimarrà oscura e che, comunque, gli storici di oggi tendono a negare inappellabilmente la possibilità dell’omicidio, vanno rimarcati, in ogni caso, il forte fascino e la grande suggestività letteraria dell’ipotesi criminologica, tanto da aver originato un vero e proprio filone narrativo che arriva fino ai giorni nostri. 

1)  Il fatto che Mozart fosse un massone non è un mistero per nessuno, così come non lo è il fatto che lo fossero svariati illustri personaggi della sua epoca, di vario ceto, fama e peso politico, fra i quali, ad esempio, Haydn.
2)  Va notato come Salieri stesso, in più occasioni e in condizioni di evidente confusione mentale, abbia anche preso le distanze da tali dichiarazioni, proclamandosi totalmente estraneo alla (auto)accusa. 
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Già nel 1830, Puškin dà alle stampe un piccolo dramma teatrale in versi, dal titolo Mozart e Salieri, nel quale la rivalità fra i due musicisti, condita dall’acredine dell’italiano verso l’inarrivabile collega (il primo titolo pensato per il dramma fu Invidia), sfocia nell’omicidio. Nel novembre del 1898, a Mosca, va in scena la prima dell’opera lirica di Rimskij-Korsakov, ispirata al dramma di Puškin e col medesimo titolo di quest’ultimo. Negli anni ’70 del Novecento, il drammaturgo inglese Peter Shaffer scrive Amadeus, un’opera teatrale ispirata al dramma di Puškin, che riscuote grande successo, tanto da incuriosire anche il regista ceco Miloš Forman. Il resto è storia recente, una storia a cui Shaffer contribuisce ulteriormente, adattando per il grande schermo il proprio lavoro teatrale e curandone interamente la sceneggiatura.
Al di là di qualsiasi intento storiografico – per fortuna ben lontano dalle intenzioni sia di Shaffer che di Forman – e trascurando, quindi, le stucchevoli critiche mosse al film da storici e musicologi, l’Amadeus cinematografico si fa carico, innanzitutto, di individuare un personaggio forte, sulle cui spalle caricare il peso della morte di uno dei più grandi talenti musicali espressi dal genere umano: in tal modo l’inafferrabilità del Fato, l’ottusità della Natura e l’insorgere del Caos vengono neutralizzati in un unico gesto. Il grande nemico di Mozart (Tom Hulce), e per ciò stesso dell’intera umanità, ha un nome, un volto, un’identità: è Antonio Salieri (F. Murray Abraham). La partitura di Amadeus si dipana quindi a partire dalla forma classica cinematografica del duale/duello, per poi intessere, però, una trama avvolgente e stratificata, capace di evocare un intero mondo di finzione, che si erge a summa universale, a pantagruelica allegoria della condizione umana.

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Certamente è la disputa fra i due artisti il motore del film, che ruota attorno al vero protagonista, Salieri. Di quest’ultimo è anche il ruolo di narratore (con la multiforme performance del bravissimo Abraham nel “doppio” ruolo di Salieri adulto e anziano), attraverso l’espediente del dialogo/confessione che apre il film con l’ambientazione nel 1823 (32 anni dopo la morte di Mozart), per poi punteggiarne i vari capitoli ambientati nel ‘700, attraverso il continuo rimando al presente diegetico, che innesca la spirale del tempo cronologico, nel quale tutto ciò che lo spettatore vedrà è già compiuto, irreversibilmente. 
In quanto narratore e protagonista, Salieri si colloca immediatamente dalla parte del logos, della parola che avvolge lo spettatore per accompagnarlo, coinvolgerlo, ma anche per spiazzarlo di continuo. Ambigua è infatti la natura di quel logos, in quanto scissa e combattuta è la personalità di chi lo esprime. Salieri non è solo il nemico giurato di Mozart, ma anche il suo più fervido ammiratore ed è proprio tale ammirazione la molla che innesca il conflitto, del quale, si badi, Mozart rimarrà all’oscuro fino alla morte: l’eterno e ingegnoso fanciullo, che (quasi) letteralmente non diventerà mai adulto, non può (ri)conoscere la bassezza e la meschinità del mondo, perché non gli appartengono. 
L’invidia del musicista italiano cova, bruciante, sotto la cenere fredda della deferenza istituzionale, dell’adesione a un ruolo pubblico di prestigio e responsabilità, e soprattutto rimane celata affinché il fuoco dell’odio rimanga latente, dissimulando il perfetto e diabolico disegno della sua mente accecata: commissionare a Mozart una messa da requiem, impadronirsi dell’opera per auto-attribuirsela, eliminare l’avversario e infine dirigere il Requiem, composto da Mozart stesso, al funerale di quest’ultimo, spacciandolo come propria creazione. Il progetto si attuerà solo in parte e mancherà, beffardamente, di compiersi nel suo elemento più rilevante, quello del contrappasso: il Requiem, infatti, rimarrà incompiuto e sfuggirà alle mani di Salieri. 
​
Salieri sembra ragionare come un uomo del suo tempo nel suo giudizio inappellabile sul genio di Salisburgo, ma anche relativamente ai propri meriti artistici. In una visione ottusamente geometrica e meccanica della creazione artistica, egli ritiene che la grazia di Dio debba essere commisurata alla laboriosità e alle virtù individuali e che da un grande sforzo non potrà che nascere una grande opera. 
L’opera per la quale egli si sente votato è la musica, l’espressione più alta tramite la quale l’uomo innalza il suo canto di lode al Creatore. L’incontro con la musica di Mozart – e successivamente col genio di Salisburgo in persona – non innescherà soltanto il suo risentimento personale verso l’inarrivabile avversario, ma finirà anche col far crollare lo stolido insieme di credenze su cui si era basata la sua limitata visione del mondo nonché degli imperscrutabili disegni divini; allora Dio stesso diventerà il primo nemico da umiliare, tramite l’eliminazione della sua “emanazione” incarnata, cioè di Mozart. 
Lo sforzo, il sacrificio e l’abnegazione non designano il genio né sono in grado di esprimerlo, giacché esso erompe spontaneo e inarrestabile, imprevedibile e soprattutto imprendibile. Ecco allora che, non potendo ridire alcunché sulle sublimi creazioni musicali del rivale, Salieri avrà da giudicare malignamente la sua persona, vista la mancante corrispondenza fra la personalità del giovane Mozart e l’idea astratta che di lui si era fatto il Kapellmeister, ascoltandone la musica. In sostanza, Salieri trasferisce proprio in tale idea astratta proiettata su Mozart l’immagine di sé, specchio di una personalità grigia, cupa e martire della propria pochezza: l’artefice di sublimi creazioni, manifestazioni in terra del divino, non potrà che essere un devoto sacerdote dell’arte, vissuta come una preghiera e come una mortificazione del proprio essere, dalle quali dovrà erompere l’assolutezza del dono della composizione. 
A Mozart, al contrario, non serve il sacrificio o la negazione della propria persona perché già è, e sempre è stato e sarà, un sommo spirito musicale, dal quale sgorga la vitale armonia, che non appartiene a Salieri e che quest’ultimo può cogliere con l’orecchio e col cuore, ma che la mente continua a negargli, votandolo alla sconfitta. Del resto all’uomo intelligente, ma non eccellente, non restano che gli alambicchi della ragione per giustificare il proprio scacco.
Se Salieri rappresenta l’acutezza e l’aridità del cogito incarnato nel logos, Mozart ne costituisce l’esatto opposto e, per certi versi, la nemesi. L’apparente dicotomia fra la sua personalità esuberante, infantile, ingenua, a tratti giocosamente coprolalica (3), perennemente votata allo scherzo, all’innocua facezia, e la cristallina profondità delle sue produzioni musicali è tutt’altro che bizzarra, laddove si colga in essa la necessità dell’apertura totale alla vita, affinché ne scaturisca un’apertura altrettanto totale alla creazione. Certo, non basta questo legame fra vita e arte a giustificare l’abbacinante perfezione della produzione musicale del grande salisburghese – il divino dono del genio è indispensabile, ça va sans dire – ma è probabile che essa sarebbe mancata di una parte della propria potenza, in assenza di tale legame. 

3) Su questo aspetto, può essere un utile e divertente riferimento la lettura della corrispondenza del musicista, che spesso appare come uno scanzonato poeta goliardico.

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Il tagliente giudizio di Salieri sull’avversario, definito “creatura sciocca e volgare”, “bambino osceno”, “scimmia ammaestrata”, nasce senz’altro dall’invidia, ma è dettato prevalentemente da una visione punitiva e repressa, quindi aberrante e fuori asse, del processo della creazione artistica. Per Mozart la vita è gioco, la musica è vita, quindi la musica è gioco, un gioco eccelso e serissimo. Dall’apparente semplicità di questo sillogismo, in realtà più complesso di quanto sembri, Forman si trastulla con lo spettatore, collocandolo in una scomoda posizione di contiguità col personaggio di Salieri e con la sua consapevole mediocrità (la celebre medietà/normalità dei personaggi centrali della tragedia – secondo i dettami prescritti da Aristotele – che dovevano assomigliare, come doti e carattere, allo spettatore comune), ma, allo stesso tempo, allontanandolo da esso, una volta che le sue malefiche trame si innescano. 
Intelligenza diabolica e umanissima limitatezza risultano quindi contrapposte al divino spirito ingegnoso e alla fanciullesca vitalità del genio di Salisburgo. Entrambi i personaggi presentano una doppia espressione della propria interiorità, solo che mentre quella del maestro italiano si sviluppa esclusivamente tramite la parola e la gestualità (di qui i grandi meriti dell’interpretazione di Abraham), con cui si rivelano la sensibilità dell’animo nel cogliere la bellezza della musica dell’avversario così come la colossale meschinità nel volerne la rovina, quella di Mozart si manifesta sia nella dimensione del personaggio in scena (la vita), cioè in campo, sia negli esiti del suo spirito superiore, la musica, che abita invece lo spazio sonoro e invisibile del fuoricampo, in una specie di “inquadratura sonora” del personaggio. 
In breve, la scissione di Salieri si ricompone nel ruolo di intelligenza unificatrice, che raccoglie i frammenti sparsi e in conflitto del suo io e, così facendo, riordina anche le tessere del racconto filmico, mentre l’unità di vita e arte in Mozart si sdoppia nell’immanenza della vita e nella trascendenza della musica, una musica che accompagna, sovente dalla dimensione extradiegetica, pressoché l’intero scorrere della narrazione.

​L’abilità di Forman e Shaffer si nutre di queste sottigliezze, creando anche un universo finzionale estremamente vivo, frastagliato e dinamico, nel quale tutti i comprimari, pur trovando l’alimento della loro funzione narrativa nell’interazione con le due figure principali, vivono di una propria autonomia e identità forti e ben delineate, grazie anche al cast indovinato, che può contare sulle ottime performance, fra gli altri, di Elizabeth Berridge (Constanze Weber/Mozart), Roy Dotrice (Leopold Mozart), Jeffrey Jones (l’imperatore Giuseppe II), Roderick Cook (il conte Von Strack) e Nicholas Kepros (l’arcivescovo Colloredo). 
Nel contempo, una scrittura filmica raffinatissima e invisibile tesse i fili del racconto in modo tale da condurre l’occhio dello spettatore a moltiplicare i punti di osservazione, il rapporto coi personaggi e con gli ambienti, mentre l’orecchio segue rapito un tappeto sonoro che costituisce un significativo fil rouge acustico, parallelo a quello narrativo e a tratti in conflitto con esso. Se, solo in apparenza, il racconto filmico si sviluppa come semi-soggettiva di Salieri, quando in realtà i punti di vista presenti nel film sono molteplici e tutt’altro che esclusivamente riconducibili a quello del protagonista/narratore, con un rilancio continuo del ruolo e della collocazione dello spettatore, il tessuto sonoro è un susseguirsi di alcuni brani fra i più noti del vasto repertorio mozartiano (scelti prevalentemente da quello operistico), con qualche accenno a quello rispettabile, corretto e piacevole, ma infinitamente più modesto, di Salieri: in entrambi i casi il duello è moltiplicato e rilanciato, senza soste. 
Nel confronto meramente narrativo, il personaggio che eccelle è senz’altro Salieri (vista anche la genuina inconsapevolezza dell’avversario), esaltato, beffardo e malinconico perdente, mentre in quello musicale la vittoria è tutta di Mozart, le cui armonie portano l’intero film – e con esso personaggi e spettatori – a lasciarsi scivolare addosso tutte le parole, i drammi individuali, le meschinità e le malignità terrene, per toccare una diversa e superiore dimensione dello spirito. Nel finale Salieri assolve, per una volta, tutti i mediocri – quindi, la quasi totalità degli uomini di ogni epoca – mentre la musica di Mozart li continua, ancora, a benedire.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Anno: 1984
Durata: 160’ (versione cinematografica), 180’ (director’s cut)
Regia: Miloš Forman
Soggetto e sceneggiatura: Peter Shaffer
Fotografia: Miroslav Ondříček
Montaggio: Michael Chandler, Nena Danevic, T. M. Christopher (director’s cut)
Scenografia: Patrizia Von Brandenstein
Interpreti principali: F. Murray Abraham, Tom Hulce, Elizabeth Berridge, Roy Dotrice, Jeffrey Jones

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I GUERRIERI DELLA PALUDE SILENZIOSA - War games

27/5/2015

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Non è più la giungla urbana newyorkese de I guerrieri della notte (The Warriors, 1979) a costituire l’orizzonte di questa storia di sangue e di morte, ma gli acquitrini melmosi della Louisiana. Ne I guerrieri della palude silenziosa (Southern Comfort, 1981), sono i baldi ragazzotti della Guardia Nazionale che “giocano a fare la guerra”, ma, anche in questo caso, gli eventi seguono gli imprevedibili profili di un destino incombente, a tratti beffardo e dagli esiti tragici: le paludi in cui si avventurano sono troppo simili al Vietnam perché possa trattarsi di un semplice gioco. Tra l’altro il film, uscito nelle sale il 25 settembre 1981, risulta ambientato nel 1973, anno in cui la disfatta statunitense in Asia si stava definitivamente compiendo.

Nove riservisti della Guardia Nazionale della Louisiana – un numero che piace a Walter Hill, evidentemente, visto che nove sono anche i Guerrieri protagonisti del film di due anni prima – durante un’esercitazione si improvvisano esploratori e militari, con armi-giocattolo caricate a salve, e si inoltrano nella macchia. Ad attenderli troveranno i cajun – i discendenti dei canadesi francofoni originari dell’Acadia, stanziatisi forzosamente in Louisiana a partire dal XVIII secolo, (1) gelosi dei loro spazi e della loro terra – e soprattutto un territorio ostile, sconosciuto e selvaggio, che sembra volerli fagocitare come prede o espellere come elementi estranei, dannosi, pericolosi per l’equilibrio del sistema/ambiente.
Se la struttura del racconto richiama molti dei tòpoi presenti in The Warriors – e in parte anche ne I cavalieri dalle lunghe ombre (The Long Riders, 1980), in quella che si potrebbe delineare come un’ideale “trilogia del viaggio” ispirata all’Anabasi di Senofonte (2) – è anche vero che in Southern Comfort molte sono le discrepanze, le dissonanze e i cambiamenti di segno, tanto da innestare, su un canovaccio consolidato e archetipico, una forma filmica difforme e per molti versi agli antipodi.

1) Dopo il Trattato di Utrecht del 1713, l’Acadia passò sotto il dominio britannico e migliaia di acadiani francofoni furono costretti a emigrare in altre terre, fra cui la Louisiana. In molti casi si trattò di una vera e propria deportazione: una pulizia etnica, che costò la vita a migliaia di persone. 
2) Nel caso di The Long Riders, il richiamo all’Anabasi riguarda solo la parte finale del film, allorché i fuorilegge protagonisti, dopo una rapina compiuta lontano dalla loro abituale area d’azione e finita male, sono costretti a un drammatico ritorno.

Tutti e tre i titoli citati si muovono secondo le coordinate del conflitto tra natura e cultura, fra passato e presente, tra il familiare e il perturbante, che talora sconfina nell’inquietante; in tutti e tre troviamo un gruppo eterogeneo di personaggi costretti a lottare in un ambiente ostile: un persistente assedio in movimento; infine, tutti e tre istituiscono una magistrale riflessione sulla territorialità, sebbene si possa individuare almeno una differenza sostanziale fra TW e TLR, da un lato, e SC, dall’altro. Sia i protagonisti di TW che quelli di TLR sono costretti dalle circostanze a difendere se stessi nonché il proprio territorio dalle minacce esterne, attraverso un perenne movimento di ritorno che, se in TW si concluderà col duello finale tra i due leader rivali Swan e Luther, col trionfo del primo e con la riabilitazione dei Guerrieri – lo scontro finale avverrà proprio nella casa-madre dei Guerrieri, l’area di Coney Island, luogo d’origine che simboleggia anche il riavvicinamento dei protagonisti a un’identità che sembrava compromessa o smarrita – in TLR vivrà il tragico epilogo della fine della banda di Jesse James e della morte di quest’ultimo.
In entrambi questi titoli il motivo scatenante della lotta è esterno alla comunità di cui i protagonisti fanno parte e soprattutto risulta causato da circostanze indipendenti dalla loro volontà. Se in TW è l’assassinio di Cyrus (il capo della gang più potente di New York, i Riffs) da parte di Luther, capo dei Pogues, a innescare e accelerare forsennatamente l’azione, di cui i Warriors diventano, loro malgrado e senza colpa, le vittime designate (ma tutt’altro che rassegnate), in TLR il conflitto fra i fuorilegge e i tutori dell’ordine assume i connotati di un epico scontro, anch’esso inevitabile, fra epoche e mondi assai distanti, sia politicamente sia socialmente. TLR è infatti ambientato all’indomani della conclusione della guerra di secessione, con un paese ancora sostanzialmente diviso (i banditi appartengono culturalmente e geograficamente all’ormai defunta Confederazione e inoltre alcuni di loro hanno prestato servizio negli sconfitti ranghi sudisti durante il conflitto) e prossimo a diventare una Nazione, in cui la Legge e le istituzioni stanno cominciando a emarginare ed eliminare ciò che resta del selvaggio West.
In entrambe le pellicole emerge quindi un conflitto insanabile fra il Vecchio e il Nuovo, che in TW è magnificamente scandito dai rituali ancestrali delle gang cittadine, che incarnano il modo antico di intendere il territorio, la guerra – all’arma bianca, fisica, primordiale – e la lealtà, contrapposti ai poliziotti armati con pistole d’ordinanza, ai cittadini comuni e soprattutto al traditore Luther, colui che innesca la nuova contesa dimenticandosi delle proprie origini e delle regole del proprio ambiente, non a caso usando una pistola; in TLR tale conflitto risulta come naturale processo irreversibile, non solo nel confronto fra vincitori e vinti, ma anche e soprattutto in quello fra tradizione e modernità. Sia in TW sia in TLR, infine, emerge la compenetrazione reciproca fra uomo e territorio, dove l’uno non è niente senza l’altro, dove colui che segue la legge naturale e inevitabile del proprio mondo per proteggerlo, in tal modo proteggerà se stesso.

È proprio da quest’ultimo assunto che risulta possibile prendere le mosse per individuare cosa non torni in SC rispetto ai due titoli che lo precedono. La dissonanza più immediata ed evidente si situa proprio nelle motivazioni che conducono la pattuglia di riservisti a inoltrarsi in un luogo selvaggio e senza via d’uscita. All’inizio non si tratta di una questione di vita o di morte, non vi è alcun segno esteriore di pericolo incombente: il Vietnam è distante migliaia di chilometri, forse non esiste neppure per chi ha la fortuna di non essere al fronte, e l’esercitazione – una simulazione, quindi, un gioco di guerra – si svolge sul suolo “amico” degli Stati Uniti. Pare inevitabile, quindi, che questi dopolavoristi del servizio militare sottovalutino maldestramente l’impresa che, loro malgrado, di lì a poco saranno costretti ad affrontare.
Fin dall’inizio della spedizione emerge, per i protagonisti, un sostanziale rifiuto e un’assoluta incapacità di comprendere il mondo estraneo verso il quale si stanno dirigendo, unitamente all’arrogante atteggiamento di superiorità di chi, provenendo dal consesso civile, si sente investito dell’opinabile superiorità morale del colonizzatore. In realtà, nessuno dei militari tiene conto del fatto che quel territorio non è a loro disposizione né sotto il loro controllo. La natura rigogliosa e indifferente segue il suo ciclo, noncurante delle arroganti pretese di chi proviene dal consesso civile. Solo chi è in grado di adattarsi all’ambiente, obbedendo alle leggi della selezione naturale e della predazione (i cajun), può sopravvivere. È la lotta per la preservazione. Chi gioca a fare la guerra, invece, muore.

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Southern Comfort risulta scandito da due parti tematiche e narrative nettamente distinte. Nella prima si situa l’adunata del battaglione all’alba, la distribuzione delle pattuglie e dei compiti, la presentazione allo spettatore dei nove membri del Bravo Team protagonisti delle vicende narrate e, infine, l’inizio della marcia. Il momento cruciale di passaggio dalla dimensione pacifica a quella conflittuale si ha quando il gruppo si imbatte in un ampio acquitrino non segnalato dalla mappa. Il dilemma: continuare o ripiegare; la scelta: avanzare.
Si noti anche come, a differenza di TW e TLR, in SC non vi sia un effettivo movimento di ritorno, bensì un cieco procedere, che porta, e non può che portare, alla rovina. Un bivacco di cacciatori cajun nei pressi, apparentemente abbandonato e con delle canoe in bella mostra, sembra infatti suggerire l’opzione: i nove si impadroniranno delle imbarcazioni sufficienti a proseguire attraverso la sterminata acqua morta. Il sergente maggiore Poole (Peter Coyote) a capo del plotone è indeciso, ma gli altri membri del gruppo fanno pressione affinché si opti per tale soluzione. Il gioco della guerra può continuare. Qualcuno del gruppo lascerà un biglietto di avvertimento e scuse agli autoctoni: un messaggio scritto in inglese per persone che, orgogliosamente, parlano solo il francese cajun. Nessun effettivo vettore comunicativo, nessuna possibilità di scambio linguistico.
Inizia l’attraversamento della distesa d’acqua, simbolico elemento di passaggio e di mutamento radicale per chi decide di non recedere. Intanto, sulla riva giungono alcuni individui, i proprietari delle imbarcazioni. Sagome indistinte in campo lungo. Il comandante del drappello tenta, da lontano, di far capire loro che non si tratta di un furto né di un sequestro e ingiunge a uno della truppa, che biascica un po’ di francese, di avvertirli. Il militare, per tutta risposta, comincia a insultare i nativi. Un altro prende la mira col fucile mitragliatore ed esplode una inoffensiva, ma rumorosa, raffica a salve nella loro direzione. Un gioco estremamente divertente. Indossano la divisa della Guardia Nazionale degli Stati Uniti, parlano inglese e si sentono i padroni del mondo. Un’altra inquadratura, ravvicinata questa volta, mostra uno dei cacciatori imbracciare un fucile e prendere la mira in direzione dei militari. Ha capito che i colpi da loro esplosi sono innocui. Non stanno facendo sul serio, si stanno solo divertendo, vogliono solo giocare a fare la guerra. Parte un colpo. Uno solo. Parte anche la testa del comandante del plotone in una piccola nuvola rossa. Si muore anche in Louisiana, a casa propria, o in un luogo che, geograficamente, viene considerato tale, pur non essendolo. Game Over.

Da questo punto in poi, il racconto segue le coordinate già tracciate da Hill in TW – morte del capo del gruppo, fuga e dispersione degli otto membri rimasti, lotta continua per affrontare le progressive minacce che l’ambiente presenta sulla via del ritorno – anche se, come detto, il tutto assume un aspetto e un tono totalmente diversi. Non vi è alcun tradimento, in questo caso, né quindi alcun risarcimento morale; non si configura alcun equivoco o falsificazione della realtà, né perciò la necessità di ristabilire la verità. 
Anche la scansione cronometrica del tempo come funzione di un movimento progressivo di avvicinamento alla salvezza risulta totalmente assente: l’azione di TW si svolge nell’arco temporale contratto di una nottata, nella quale l’obiettivo dei Guerrieri di raggiungere Coney Island entro l’alba si configura come un percorso semi-lineare di una distanza da coprire, in fretta; in SC, invece, pur essendovi un’analoga contrazione temporale – due notti, tre albe – il movimento risulta insensato, grottesco, circolare anziché lineare, e la dimensione spazio-temporale assume i connotati dell’allucinazione o dell’incubo; infine, mancano quasi totalmente, ai componenti del Bravo Team, il senso della fratellanza e il cameratismo dei Guerrieri, nonché la loro capacità di decifrare i segni di pericolo delle varie aree in cui sono costretti a muoversi, a nascondersi o a combattere. Tutti questi elementi saranno decisivi nella rovina che investirà la maggior parte dei membri della lost patrol.

Il fatto è che in ogni ambiente estremo (come lo è senza dubbio anche la New York notturna di TW), al di là dei confini del mondo civilizzato, si tratta sempre e solo di vita e di morte, senza mezze misure. Non esiste, e non può esistere, pietà, non c’è spazio, e non può essercene, per la viltà, l’individualismo, la presunzione. I membri del Bravo Team soccomberanno quasi tutti proprio perché divisi al loro interno e incapaci di agire, pensare e combattere come dei veri guerrieri. Non a caso, infatti, le loro morti violente li coglieranno sempre da soli, in quanto separati dal resto del gruppo, vittime di ottuse iniziative individuali e della loro stupidità. Saranno capaci di salvarsi soltanto gli unici due in grado di supportarsi a vicenda e di cooperare effettivamente, il soldato Spencer (Keith Carradine) e il caporale Hardin (Powers Boothe).
Hill orchestra una magistrale partitura di morte e dannazione, nella quale viene atrocemente messa alla berlina la tracotanza americana, che come accennato, all’epoca della realizzazione di SC, aveva appena subito il primo e più pesante scacco della propria storia militare nella giungla vietnamita. Gli Stati Uniti descritti da Hill in SC, nonché in modo analogo anche in TW e TLR, anziché configurarsi come la Grande Nazione Americana, sono una congerie di piccole patrie locali (la gang, la comunità rurale sudista, l’enclave di un popolo autonomo e rigidamente fiero della propria diversità/difformità) tenute insieme, solo in apparenza, da un nome e da una bandiera.
Il finale di SC mostra l’ultima immagine bloccata in uno stop frame che ritrae la fiancata dell’automezzo militare che sta per trarre in salvo i due superstiti ancora in fuga: si vede nitidamente la gloriosa stella dell’esercito degli Stati Uniti, un esercito – e, per esteso, una nazione – che la natura e un’antica stirpe di uomini dimenticati e abbrutiti hanno appena sconfitto.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: Southern Comfort
Anno: 1981
Durata: 102’
Regia: Walter Hill
Soggetto e sceneggiatura: Walter Hill, Michael Kane, David Giler
Fotografia: Andrew Laszlo
Montaggio: Freeman A. Davies
Musiche: Ry Cooder
Interpreti principali: Keith Carradine, Powers Boothe, Peter Coyote, Fred Ward, Brion James

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L'ANNO DEL DRAGONE - Shame of a Nation

23/5/2015

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Il Sogno Americano, anziché incarnarsi in una verità fattuale e storica, che spesso ne ha mostrato i limiti e le deformazioni paradossali, ha trovato una possibilità espressiva pressoché illimitata nei mythoi cinematografici. Come scrive Deleuze: “[…] il cinema americano non ha smesso di girare e rigirare uno stesso film fondamentale, che era Nascita di una nazione-civilizzazione […], il fiorire della nazione americana. Negli americani, la rappresentazione organica non conosce evidentemente sviluppo dialettico, è essa stessa, da sola, la storia intera […]: essere un crogiolo in cui le minoranze si fondono, essere un fermento che forma capi capaci di reagire a tutte le situazioni”(1). Spesso, però, proprio il cinema americano ha messo anche in discussione le radici di tale mito fondativo, dissezionandolo, evidenziandone le contraddizioni insanabili e ribaltandone, sovente, gli esiti.

1) G. Deleuze, Cinema1 - L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, 5^ ed. 2002, pp. 174-175.

Il western classico, cioè il racconto epico, ha narrato, almeno fino agli anni ’50, l’epopea dei pionieri e della conquista del West, l’occupazione/civilizzazione di un territorio aspro e selvaggio ad opera di un popolo nascente, ma già ricco di intraprendenza e volontà, e dei suoi eroi. Già negli anni ’30 e ’40, prima col gangster poi col noir, si è venuto a delineare anche un controcanto tragico al mito della Frontiera, in cui i protagonisti sono degli antieroi: criminali perversi, ambiziosi avventurieri, duri e disincantati detective privati, dark ladies; il tutto sotto il segno ineluttabile del destino funesto e della fatalità. In quest’ultimo caso vi è un preciso elemento morale/moralistico, che riunifica sotto lo stesso orizzonte culturale e teorico queste diverse forme del racconto: l’elemento sanzionatorio. 
Mentre la comunità delineata nel western è la forma originaria di quella attuale (dell’armonico melting pot di culture, razze, religioni diverse, che tuttora costituisce il principio fondativo e portante del sogno americano), capace di esprimere e supportare gli eroi che la difenderanno dalle minacce interne ed esterne, quella delineata nel gangster e nel noir è il microcosmo marcio e malato, che tenta di intaccare l’integrità di tale comunità. Laddove il macrocosmo sano agisce sinergicamente in funzione dei bisogni collettivi, il microcosmo criminale è mosso da pulsioni individuali e private, spesso inconfessabili; di qui i tradimenti, i sotterfugi, gli inganni e l’inevitabile rovina dei suoi protagonisti: la sanzione, appunto. L’evoluzione del racconto filmico americano, la nascita e lo sviluppo di nuove forme narrative porteranno però a un rimescolamento e a una rielaborazione delle categorie espressive, morali e alle convenzioni di genere tradizionali (2), tali da minare alla base le coordinate di senso su cui si fonda l’American Dream. 

2) Si pensi, a tal proposito, solo a titolo d’esempio, ai western più maturi di Ford, alle originalissime declinazioni del genere operate da Anthony Mann, Monte Hellman, Arthur Penn, Sam Peckinpah, al cinema Off Hollywood o alla nascita del New Horror alla fine degli anni ’60 e per tutti i ’70. 

L’anno del dragone si inserisce pienamente in questo solco concettuale e, anziché costituire un mero ritorno in tono minore dell’epica di Michael Cimino – un’epica che, inevitabilmente, si riallaccia alla tradizione del grande racconto della nazione americana – dopo il fallimento commerciale de I cancelli del cielo (1980), ne delinea invece un’avvenuta maturazione ed evoluzione a livello sia tematico che narrativo. 
Il cacciatore (1978) evidenziava una concezione per molti versi ancora classica della società statunitense, in cui le varie comunità particolari – quella russa della cittadina di Clairton in Pennsylvania, nello specifico – potevano, nel contempo, sia mantenere i propri usi, costumi, tradizioni e rituali, sia aderire all’American Way of Life, credere nella bandiera a stelle e strisce e offrire i propri eroi per la guerra (del Vietnam, in questo contesto) contro i nemici esterni. Il tema portante era, in questo caso, l’incommensurabilità fra la dimensione vitale dell’esistenza quotidiana e quella da incubo del conflitto. Era inoltre presente una notevolissima riflessione sul tema dell’istituzionalizzazione della violenza (la caccia al cervo), nonché sulle sue derive e sulle sue implicazioni etiche (i modi dei diversi personaggi di rapportarsi alla preda e all’utilizzo delle armi). I cancelli del cielo esamina invece le origini, tutt’altro che pacifiche e civili, che hanno condotto alla nascita della nazione americana. Il film torna indietro di un secolo circa rispetto a Il cacciatore e racconta il massacro di una comunità di immigrati europei dell’Est nel Wyoming di fine ‘800, ad opera dei grandi latifondisti locali e col beneplacito del governo. Le radici del sogno americano, in questo caso, affogano nel sangue e di qui, probabilmente, nasce il clamoroso flop nelle sale del film stesso (3).

3) Il tracollo commerciale del film portò, come è noto, al fallimento della United Artists e ad un brusco stop della carriera di Cimino.

L’anno del dragone indaga invece le dinamiche che sembrerebbero consentire alla nazione americana di imbrigliare i molti elementi eterogenei e i particolarismi per giungere a incarnare il sogno dell’unità non solo politica, ma anche spirituale del paese, e ne trae la conclusione che alla base di tutto non c’è un sogno, ma un patto. Un patto criminale. A confrontarsi, nel film, sono la grande comunità cinese di Chinatown, a New York, e le istituzioni cittadine. L’impermeabilità e la chiusura di una cultura millenaria e unica come quella cinese a qualsivoglia tentativo di colonizzazione culturale e giuridica conduce a un apparente paradosso: per coesistere in pace, anziché ricorrere alla categoria moraleggiante dell’integrazione – ancor oggi abusata, senza riuscire a intravederne il portato imperialista e colonialista – è necessario mantenere invece le distanze, le differenze, le alterità. 
Il problema vero, però, non riguarda la micro-comunità cinese nel suo rapporto col tessuto cittadino, ma il tacito accordo di non ingerenza reciproca fra le autorità cittadine e quelle cinesi, rappresentate dai vecchi capifamiglia delle triadi, associazioni criminali di antichissima origine. La popolazione di Chinatown non segue il corso della vita e della giustizia statunitensi, ma è costretta (e, per certi versi, propensa) a mantenere il ritmo dei propri cicli temporali ed esistenziali. Questo significa anche, però, sottostare all’autorità dei propri capi e supportare, in molti casi, le loro attività delittuose, che vanno dal gioco d’azzardo al traffico della droga al riciclaggio di denaro, con gli effetti, tutt’altro che collaterali, del sopruso e dell’omicidio.
A rendere ancora più fosco un orizzonte già di suo scevro di polarità positive o possibilità di scelta alternative, provvedono in modo sostanziale i due antagonisti: lo sbirro bianco Stanley White (Mickey Rourke) e il potente boss cinese Joey Tai (John Lone). Entrambi si fanno portatori di istanze di rinnovamento, che, lungi dal condurre all’auspicato, ambizioso e personalissimo nuovo ordine, genereranno caos, violenza, distruzione.
Stanley è un reduce (ancora una volta) dal Vietnam, diventato poliziotto, a cui viene affidata la zona di Chinatown. Il suo compito di tutore dell’ordine costituito si trasforma ben presto in una crociata ottusa e personale contro il nemico “giallo” (cinese o vietnamita, per lui, non fa differenza). Il suo scopo diviene allora quello di rompere il patto perverso fra cinesi e occidentali per imporre la legge dello stato, di cui egli si autoproclama l’unico autentico detentore. Compito lodevole solo in apparenza, visto che, oltretutto, richiama alla mente, neanche tanto alla lontana, i molti tentativi passati e presenti di imposizione della pax americana in ogni angolo del globo. 
Joey è invece un sacerdote e un missionario del crimine, votato unicamente al raggiungimento della sommità della piramide del potere e determinato a eliminare uno ad uno tutti gli anziani capi, che si frappongono fra lui e i suoi scopi. Lo scontro fra i due risulta quindi inevitabile, in un crescendo di violenze e vendette reciproche, in cui gli avversari finiscono col mettere in gioco tutto ciò che hanno, sovrapponendosi specularmente e finendo con l’annullarsi a vicenda. La hýbris che pervade entrambi li condurrà a perdere di vista i loro obiettivi primari, per dedicarsi totalmente all’annullamento dell’avversario, muovendosi fianco a fianco verso la vicendevole distruzione. Un gioco di morte, in cui non potranno esservi vincitori. Joey perderà il proprio potere, la ricchezza e la vita, mentre Stanley perderà la propria personale battaglia con Chinatown e vedrà uccidere, davanti ai propri occhi, anche la moglie Connie (Caroline Kava) e il giovane cadetto infiltrato Herbert Wong (Dennis Dun), mentre l’amante Tracy Tzu (4) (Ariane Koizumi) verrà violentata dagli uomini di Joey. Il duello finale fra i due è una corsa verso l’annientamento reciproco, anche se a morire sarà solo Joey. 

4) Si noti che sia Herbert che Tracy sono, di fatto, degli apolidi, utilizzati da Stanley come leve per sollevare la coltre che ricopre il marciume di Chinatown. Due giovani cinesi che tentano di essere, a pieno titolo, cittadini americani, rimanendo però pur sempre altri, sia agli occhi degli americani bianchi che a quelli dei loro connazionali di Chinatown. 

La sequenza conclusiva, edulcorata dal produttore De Laurentiis, ma tutt’altro che consolatoria, a ben guardare, pur restituendo uno Stanley spossato e ferito, ma vivo, a braccetto con Tracy che lo consola, mentre si svolgono i funerali di Joey a Chinatown, ci riporta, circolarmente, a quella iniziale, dove un altro funerale ritmava ritualmente lo svolgersi calmo della quotidianità nella comunità cinese. Tutto sembra essere tornato al punto di partenza, il nastro pare essere stato riavvolto. Stanley viene esautorato dalla sua carica e tutto ritorna all’origine, ancorché a prezzo di lutti e rovina. Comunque fosse finita, a trionfare non sarebbero state (e, quindi, non saranno) la pace e la giustizia. Questa volta la circolarità della concezione orientale del tempo e della storia ha avuto la meglio sulla concezione lineare ed evolutiva occidentale. Ora tutto può ripresentarsi come è sempre stato e il pactum sceleris può essere rinnovato.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: Year of the Dragon
Anno: 1985
Durata: 129’
Regia: Michael Cimino
Sceneggiatura: Michael Cimino, Oliver Stone
Fotografia: Alex Thomson
Musiche: David Mansfield
Montaggio: Noëlle Boisson, Françoise Bonnot
Interpreti: Mickey Rourke, John Lone, Ariane Koizumi, Caroline Kava, Dennis Dun, Raymond J. Barry

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PREDATOR - Il cacciatore

21/5/2015

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Il secondo lungometraggio di John Mc Tiernan viene realizzato nell’alveo temporale della seconda metà degli ’80, quindi in un periodo di passaggio emblematico, sia dal punto di vista storico, sia da quello cinematografico, almeno per ciò che attiene all’action. La Guerra Fredda sta conoscendo gli ultimi sussulti e nel film si respira, nonostante il grande sfoggio muscolare e bellico, un’aria di smobilitazione, che già prelude, però, come la storia ha insegnato, a nuove e massicce mobilitazioni. Parallelamente, stanno per venire alla ribalta nuove star e nuovi stili, le tematiche cominciano ad aggiornarsi rispetto al nuovo corso storico, e non è un caso che sia proprio Mc Tiernan, nel 1988, un anno dopo l’uscita di Predator, a iniziare la fortunatissima saga di Die Hard, che consacrerà definitivamente nell’olimpo di Hollywood, come nuovo eroe, il John Mc Clane di Bruce Willis.
La struttura stessa della pellicola, divisa in due capitoli nettamente distinti, sembra rimarcare proprio il suo collocarsi come uno dei simbolici spartiacque, sia storici che stilistici e narrativi, fra un prima e un dopo dell’action statunitense. Là dove la prima parte sviluppa un ormai consolidato canovaccio avventuroso – missione rischiosa, gruppo eterogeneo ma cameratesco, dissidio interno, azione, conclusione – la seconda, vero e proprio cuore del racconto, parte radicalmente per la tangente e origina un’inversione dei ruoli, rendendo gli impavidi (e in apparenza invincibili) protagonisti delle prede impotenti e annichilite dalla forza letteralmente sovrumana di un guerriero proveniente da un’altra galassia. (1) 
L’ex maggiore del MACV-SOG (2) Alan “Dutch” Schaefer (Arnold Schwarzenegger), impegnato col suo rescue team in missioni-ombra per conto del governo americano, viene precettato dal suo ex collega, ormai in quota CIA, Dillon (Carl Weathers), per una missione di salvataggio nel bel mezzo della giungla; l’obiettivo dichiarato all’inizio è la liberazione del ministro di una non precisata nazione centroamericana e di un suo portaborse, presi in ostaggio da guerriglieri. 
Lo sfondo storico è ovviamente quello degli anni ’80, con fugaci (ancorché attualissimi, col senno di poi) riferimenti verbali alla Libia e all’Afghanistan (3), nonché, vagamente più sviluppati e inseriti nel corpo dell’azione filmica, alla Guerra Fredda. Il commando scopre infatti che gli uomini fatti prigionieri e poi assassinati sono due agenti CIA e che, fra le decine di cadaveri dei guerriglieri – a seguito del violentissimo scontro a fuoco col gruppo di Dutch, cui si è unito anche Dillon – vi sono anche agenti sovietici. L’operazione assume quindi i contorni di un vero e proprio scontro tattico, il cui scopo è stato, in realtà, quello di impedire un’azione militare antiamericana su vasta scala. A Dutch e ai suoi, miracolosamente incolumi, non rimane che far ritorno alla base. 

1) Nell’incipit del film, si vede una capsula sganciarsi da un’astronave extraterrestre e precipitare verso la terra. È l’unico rimando, nel contesto del racconto filmico, all’arrivo del guerriero alieno sul nostro pianeta.
2) Military Assistance Command, Vietnam – Studies and Observations Group: costituito da forze militari speciali, addestrate per azioni di guerra non convenzionale e top secret. 
3) Il riferimento alla Libia, sottinteso nel film, è al bombardamento punitivo di Tripoli da parte degli americani nel 1986. L'Afghanistan fu invece invaso, a partire dal 1979, dall’Armata Rossa, a cui si contrapponevano i guerriglieri Mujaheddin (da una cui costola sarebbero nati i Talebani), all’epoca addestrati e foraggiati dagli USA.

Mc Tiernan, dopo aver pagato lo scotto ai cliché dell’action movie bellico, peraltro con grande sfoggio di perizia tecnica, inizia, da questo punto del racconto, a sviluppare una trama survival, dove, come accennato, i cacciatori divengono prede, gli invincibili soldati americani si trasformano in carne da macello. Va qui rimarcata la facilità irrisoria con cui lo storico nemico degli USA e i suoi accoliti vengono spazzati senza danni e come, per i protagonisti, si delinei all’orizzonte una nuova e ben più oscura minaccia. 
Paradossalmente, il maggior pericolo per i membri della squadra, almeno fino alla comparsa del guerriero alieno, sembra essere rappresentato da uno scorpione che sta per pungere Dillon – scongiurato dall’intervento di Mac (Bill Duke) – segno che il rischio effettivo non viene, anche simbolicamente, da avversari ormai stremati e prossimi al collasso, come erano i sovietici, ma dalla giungla, che rimanda al Vietnam (con tutte le sue implicazioni) e all’incombente minaccia con cui i nostri dovranno confrontarsi.
Come detto la Guerra Fredda, ancorché presente nell’orizzonte storico dell’epoca, sta imboccando la sua fase terminale e l’immaginario bellico americano sta già, più o meno consapevolmente, cercando nuovi avversari. Ecco allora che il rapace predatore alieno, che si nasconde nel fitto della boscaglia e si pone sulle tracce dei nostri dopo il compimento dell’operazione, può essere intravisto anche come una possibile incarnazione della nuova fase storica che si approssima.
Il capovolgimento del ruolo dei protagonisti, all’interno del racconto, viene a configurarsi come slittamento della loro funzione percettiva nello sviluppo dell’azione, che li fa transitare repentinamente dalla condizione di osservatori a quella di osservati. Dall’onnipotenza sensoriale dei militari americani, che si manifesta, in tutta la sua intensità, nel momento dell’attacco fulmineo all’accampamento – nessuno dei guerriglieri assaliti è in grado di reagire efficacemente, proprio a causa dell’incapacità di avvertire, quindi di capire, la presenza del nemico durante la sua fase di avvicinamento, mentre gli assalitori hanno gioco facile, grazie anche al loro totale controllo visuale dell’avamposto – si passa, infatti, alla loro totale incapacità di inquadrare il nuovo terribile avversario, di dargli una forma, un volto, un’identità, a causa della sua impressionante capacità mimetica.
È l’invisibilità la prima e più efficace arma del predator, dato che pone i suoi antagonisti in una condizione di totale impotenza percettiva, da cui nasce poi l’inefficacia di qualsiasi risposta e, da ultimo, il terrore più antico e originario: quello per l’ignoto. Un contesto di per sé letale come la giungla, dove la vita e la morte, nelle loro forme più estreme, si intrecciano strettamente fino a confondersi, fa da moltiplicatore delle paure più riposte di quegli uomini avvezzi ad adattarsi a qualsiasi situazione o pericolo, mostrandone la vulnerabilità. L’uomo, in quanto tale, è il vero alieno in quell’ambiente, mentre, paradossalmente, il guerriero giunto da un’altra galassia si muove come se fosse totalmente a suo agio. La giungla, dove solo il più forte può sopravvivere, non può che configurarsi come il terreno di caccia favorito per il predatore definitivo.
Si viene a delineare, quindi, un epico scontro fra i guerrieri più forti rimasti sulla faccia del pianeta, quelli americani, e il guerriero (forse) più forte dell’universo: pesantemente armato ed equipaggiato con armi e tecnologie d’avanguardia, vigoroso e agilissimo, ricoperto da una spessa corazza quasi impenetrabile e capace, come detto, di rendersi totalmente invisibile. Non bastasse tale impressionante serie di qualità e accessori bellici, esso è dotato, inoltre, di un curioso sensore termico a infrarossi, per migliorare la propria visione – in un territorio per lui estraneo – rendendola binaria: non sono forme, ciò che egli è in grado di distinguere, ma masse cromatiche, che virano al blu, per quanto riguarda l’ambiente circostante, e al rosso, per quanto concerne le sue prede potenziali, umane o animali. Un tipo di percezione inquietantemente predisposta alla caccia. 
Alla mostruosa creatura, comunque, non interessano delle prede qualsiasi, ma l’uomo nella sua espressione più pericolosa. I componenti del team di Dutch vengono eliminati uno a uno, nonostante l’addestramento, l’armamento portentoso e la capacità di combattimento: il nemico è troppo forte, spietato e soprattutto imprendibile. A nulla valgono le intuizioni e l’istinto di Billy (Sonny Landham), di origine pellerossa, la forza e il coraggio di Blain (Jesse Ventura), l’esperienza di Dutch, Dillon e degli altri. (4) Il predator li massacra coi suoi razzi per poi impadronirsi dei cadaveri come trofei di caccia, senza che nessuno del gruppo sia in grado di impedirlo. 

4) Due curiosità: il gruppo è – secondo la tradizione del racconto epico americano – eterogeneo, sia come caratteri, sia soprattutto come etnie presenti; vi si possono infatti annoverare tre bianchi, Dutch, Blain e Hawkins (Shane Black), due neri, Mac e Dillon, il pellerossa Billy e l’ispanico “Poncho” Ramirez (Richard Chaves), oltre alla guerrigliera prigioniera Anna (Elpidia Carrillo), anch’essa ispanica. Tre dei sette attori che compongono il gruppo di protagonisti maschili del film entreranno nell’olimpo della politica americana: Schwarzy come governatore della California, Jesse Ventura (ex wrestler ed ex membro dei Navy SEALs), come governatore del Minnesota e, infine, Sonny Landham come candidato (poi ritiratosi dalla competizione elettorale) alla carica di governatore del Kentucky. 

Nonostante i suoi poteri sovrumani, la creatura manifesta, però, via via che lo scontro volge al termine, alcuni segnali di debolezza, che la porteranno a soccombere. Innanzitutto si tratta di un cacciatore, sia pure anomalo, quindi in apparenza ispirato, pur nella sua estrema ferocia, da un barlume di “etica” o, meglio, di sportività nel combattimento: uccide i nemici solo quando sono armati e solo uno alla volta. In realtà, per il mostro vale una sola regola, la regola del gioco, dato che, vista la sua schiacciante superiorità, esso comunque ha tutto l’agio di attendere gli avversari, di spiarne le mosse, di udire le loro voci (e di riprodurne la tonalità e le parole, attraverso alcuni misteriosi dispositivi di duplicazione vocale di cui è dotato), forse anche di sentire la loro paura e, infine, di massacrarli senza alcuna fatica. A più riprese, infatti, il predator non approfitta di alcune situazioni favorevoli, soltanto perché gli rovinerebbero il piacere del gioco: il gioco del gatto col topo. Una supponenza che gli farà perdere buona parte del vantaggio iniziale e che gli risulterà fatale. 
Inoltre, una volta rimasti a fronteggiarsi Dutch e la creatura, accade un fatto inaspettato che rimette in partita il militare: Dutch scopre infatti che il proprio corpo, se coperto di fango, non risulta distinguibile per l’alieno e inoltre che quest’ultimo, dal canto suo, non è totalmente invisibile. (5) Ancora una volta, quindi, i ruoli si capovolgono a partire da un vantaggio percettivo, dalla capacità di vedere il rivale senza essere visti. 
Dutch, ormai sprovvisto delle sue armi da fuoco, improvvisa una trappola rudimentale e poi sfida l’avversario: la preda tenta di riappropriarsi del ruolo di cacciatore. Il mostro, dopo aver vanamente sparato nella boscaglia, a casaccio, per rispondere alle provocazioni di Dutch, accetta la sfida, si spoglia delle proprie armi – fra cui i propri sensori a infrarossi, scelta questa che gli determina una sostanziale cecità – e mostra il proprio raccapricciante aspetto. Dopo un corpo a corpo che vede, comunque, il monumentale Dutch/Schwarzenegger sbatacchiato come un fuscello e irriso dal gigantesco nemico, (6) quest’ultimo, pur fiutando l’inganno, cade nel tranello di Dutch, rimanendo schiacciato dal tronco che fungeva da contrappeso per la trappola. 

5) L’alieno, inseguendo Dutch in acqua, subisce un corto circuito al suo sistema di mimetizzazione e diviene visibile.
6) Il corpo del predator, nelle sequenze in cui è visibile, è quello, enorme, dell’attore Kevin Peter Hall: 220 cm che sovrastano i pur rispettabili 188 cm di Schwarzenegger.

Non è ancora finita. Il mostro, ormai moribondo, innesca un congegno di autodistruzione e prorompe in una fragorosa risata – sintomo di una natura capace unicamente di devastazione e annichilimento – mentre Dutch, basito e sgomento, si dà precipitosamente alla fuga per evitare l’esplosione. Dutch, comunque, come da tradizione consolidata, riesce a sopravvivere senza grossi danni e, in tal modo, l’invitto guerriero americano può autoincoronarsi come il più forte della galassia, nonché – meno onorevolmente anche se forse più veridicamente – come il più pericoloso.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Anno: 1987
Durata: 107’
Regia: John Mc Tiernan
Soggetto e sceneggiatura: Jim Thomas, John Thomas
Fotografia: Donald M. Mc Alpine
Montaggio: Mark Helfrich, John F. Link
Musiche: Alan Silvestri
Interpreti principali: Arnold Schwarzenegger, Carl Weathers, Jesse Ventura, Bill Duke, Sonny Landham, Elpidia Carrillo.

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