ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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LA CUGINA DEL PRETE - I sogni hard di Wes Craven

29/5/2017

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​Lo spettatore meno avvezzo a certe dinamiche potrebbe chiedersi per quale motivo molti registi di culto abbiano, nel corso della loro carriera, toccato i lidi del porno, talvolta in via occasionale ma in certi casi anche con una vera e propria filmografia parallela, ricoperta dagli umori dell'hard. In quest'ultimo senso, come esempi immediati, si può pensare a Jess Franco e Joe D'Amato, che tra un vampiresco e un cannibalico, un softcore e uno splatter/gore, hanno diretto ampie quantità di produzioni pornografiche.
Le spiegazioni di tale fenomeno non sono in realtà così complesse. Per certi aspetti, l'horror e il cinema a luci rosse condividono una primordiale natura underground, oscena, clandestina e vietata, nonché alcune prerogative tematiche (l'intoccabile connubio Amor e Morte) che li rendono generi molto più affini di quanto in prima istanza si potrebbe credere. In fondo, ogni orgasmo non è un magnifico e temporaneo trapasso, a cui segue sempre una rinascita? 
Inoltre, soprattutto nei primi anni '70, in America e non solo, l'industria a luci rosse risultava assai florida e garantiva numerose possibilità occupazionali, con guadagni limitati ma sicuri, con cui potersi poi finanziare progetti più interessanti e personali. Infine, l'hard di quel periodo era libero e fantasioso, molto meno asettico rispetto all'attuale, e lasciava grandi margini di manovra con cui sperimentare, azzardare, aggirare i limiti, mettere in campo peculiarità e fissazioni personali.

La premessa rende forse molto meno sorprendente il fatto che anche un autore come Wes Craven, futuro creatore di pellicole di enorme successo come Nightmare e Scream, ma pure di notevolissime opere talvolta sottostimate come Il serpente e l'arcobaleno e The People Under The Stairs (La casa nera), abbia agli albori della carriera affondato le mani nell'hard più esplicito. Nel 1975, dopo il folgorante esordio avvenuto con il malsano L'ultima casa a sinistra, Craven ha infatti diretto La cugina del prete (in originale The Fireworks Woman), titolo che sino a oggi era reperibile in video in Italia soltanto in una orribile versione alternativa, rieditata e totalmente stravolta rispetto all'originale, intitolata Ti voglio nuda e bagnata, in cui erano state inserite scene scippate da altri porno dell'epoca e un subplot inventato per l'occasione.
Ancora una volta grande merito dunque alla Opium Visions, collana che ormai ben conosciamo, per la brillante scelta di riportare sul mercato La cugina del prete, con la condivisibile decisione di proporre il film direttamente nella versione italiana, circolata nei cinema nel 1980 e molto più completa di quella americana, vittima di consistenti tagli. 

Il lavoro di Wes Craven (che si firma con il biblico pseudonimo di Abe Snake) racconta la storia di Angela, innamorata sin dalla tenera età del cugino Peter (nella versione originale i due erano fratello e sorella, giusto per confermare come ai tempi ci si potesse perfino spingere verso i lidi dell'incesto). La ragazza cresce con l'adorato parente, in una stretta vicinanza che diviene sempre più morbosa, sino a deflagrare in un rapporto sessuale completo tra i due. Quando lui, poco dopo, indossa l'abito sacerdotale, la lontananza da Peter diviene per Angela un ostacolo greve, insostenibile, che la spinge a cercare avventure sessuali di ogni tipo, con cui provare a colmare almeno in parte l'assenza del caro congiunto. Intanto, da par suo, Peter si dibatte tra la vocazione spirituale, gli obblighi della vita clericale e il tentativo di allontanare il desiderio mai sopito per Angela. 
La trama del film, a conti fatti, è poco più che un pretesto, a partire dal quale Craven, scomparso purtroppo due anni fa, accatasta una lunga serie di sequenze hard, durante le quali c'è spazio per un'ampia gamma di attività: rapporti a tre, penetrazioni con strumenti di dominazione, urofilia, masturbazioni, cumshot sul volto, anal, perfino una scena di fisting e uno stupro. Il regista riesce comunque a rendere piuttosto eccitanti i vari momenti di sesso, grazie a una direzione tutt'altro che piatta, in grado di trovare soluzioni estrose e originali, dove in qualche caso si nota un lirico romanticismo, mentre in altri passaggi trionfa l'abiezione e prevale l'aspetto più animalesco (ad esempio la minzione nel bosco a cui Angela è costretta da una viziosa signora borghese e dal suo perverso amico).
​
Deus ex machina dell'intera vicenda è lo stesso Craven, che appare anche in veste attoriale nel ruolo dell'uomo con la tuba, misteriosa e inquietante presenza transitante lungo tutto il film con significazioni indefinite (“Io sono colui che accende i fuochi d'artificio dell'amore; io sono il Destino, ma qualcuno mi chiama anche Diavolo”). È lui ad apparire nella prima immagine, in un costume da scheletro, mentre si allontana mano nella mano con una bambina nuda (scena tagliata in America ma stranamente non in Italia); è lui a guidare il delirante baccanale orgiastico del prologo; è lui ad accompagnare Angela nei suoi turbamenti, sino a guidarla verso il prevedibile epilogo. Una scelta curiosa, quella di ritagliarsi un ruolo così sinistro e sfaccettato, atta a definire i contorni di una pellicola che pur inserendosi nel filone dell'hard vuole assumere un'identità forte, in cui mostrare frammenti dell'ideologia che guiderà poi tutto il suo cinema.
Non è dunque un caso se la tematica precipua del film sia, a conti fatti, l'elemento del sogno, fulcro narrativo che l'autore svilupperà compiutamente una decina d'anni dopo con la mitica figura di Freddy Krueger. Le avventure erotiche della protagonista, interpretata da Jennifer Jordan, pornostar di successo in quel decennio, nel corso della storia deviano progressivamente dalla realtà, scivolando in un percorso visionario durante il quale immagina reiterati amplessi con Peter e con altri soggetti, incontri sovente esistenti solo nella sua mente. 
Così, in questa fusione sempre più inscindibile tra sogno e realtà, si dipana l'ossessione sentimentale e carnale di Angela e la parallela ossessione di Craven per l'elemento onirico; un'ulteriore dimostrazione di come, in quegli anni, il porno potesse essere una fonte di guadagno ma anche un valido campo di allenamento, ovvero una base da cui esprimere e sviluppare i capisaldi della propria poetica.

Alessio Gradogna


Sezione di riferimento: Revival 60/70/80

Articoli correlati recensioni Opium Visions: Maliziosamente (L'étreinte) - Donald Neilson - Heartbreak Motel - A bruciapelo (The Sadist) - Death House


Scheda tecnica

Titolo originale: The Fireworks Woman
Anno: 1975
Durata: 78' (nella versione italiana presentata dalla Opium)
Regia: Wes Craven (Abe Snake)
Sceneggiatura: Wes Craven, Hørst Badörties
Fotografia: Hørst Badörties
Montaggio: Wes Craven
Attori: Jennifer Jordan, Helen Madigan, Erica Eaton, Eric Edwards, Wes Craven

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DEATH HOUSE – La casa del dolore

5/4/2017

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​Quinta uscita per la Opium Visions, collana diventata ormai una garanzia, per la capacità di riesumare dall'oblio titoli sempre originali e interessanti e regalare loro nuova e forte dignità. Dopo L'étreinte (Maliziosamente), Donald Neilson, Heartbreak Motel e The Sadist (A bruciapelo), la creatura home video ottimamente gestita da Matteo Biacca e Simone Starace ci riporta stavolta al 1972, anno di uscita di un horror americano in grado di proporre tematiche e idee stilistiche che hanno saputo influenzare nel corso del tempo figli e figliastri dello slasher, inesauribile sottogenere tanto caro agli appassionati.
​
Death House (conosciuto anche come Silent Night, Bloody Night, da non confondere con il quasi omonimo Silent Night, Deadly Night, capostipite di una saga in cui mise le mani per un paio di episodi anche Brian Yuzna), realizzato nel 1970 ma uscito nelle sale soltanto due anni dopo, instilla intuizioni di notevole fattura, codificando parzialmente un linguaggio filmico che troverà poi ampio compimento in titoli come Black Christmas, Venerdì 13 e l'indimenticabile Halloween di John Carpenter. 
Una spettrale magione in cui si compie un efferato e irrisolto omicidio. Un pericoloso killer che vent'anni dopo, nelle ore immediatamente precedenti il Natale, evade dal manicomio criminale. Il tentativo di vendere una casa teatro di eventi mai chiariti. Il ritorno di un passato intriso di sangue che scivola nel presente per glorificare la sua macabra rivincita. Una trappola incubale in cui precipitano il nipote del vecchio proprietario, lo sceriffo, la centralinista, il sindaco del luogo e la figlia di quest'ultimo.
Questi, a grandi linee, gli ingredienti di Death House, prodotto da Lloyd Kaufman (il cofondatore della Troma), diretto da Theodore Gershuny e interpretato dalla consorte Mary Woronov, ex attrice warholiana recentemente tornata in auge grazie alla partecipazione nello strepitoso The Devil's Rejects di Rob Zombie. Una trama in realtà meno semplice di quanto potrebbe sembrare, colpevole in qualche momento di arricciarsi su se stessa e risultare poco credibile, ma non priva di buone atmosfere lisergiche e improvvise dosi di violenza.
Oltre alla primitiva forza espressiva del soggetto fondante la narrazione (la casa, teatro di orrori non più rimarginabili e totem da preservare per mostrare al mondo la sua “inumanità”), il film funziona soprattutto grazie alla fotografia stordente di Adam Giffard e alla regia di Gershuny, bravo ad alternare sinuosi movimenti di macchina, accelerazioni repentine e tagli inusuali, aiutandosi con l'ampio uso di grandangoli e con la reiterazione di quello strumento per sua stessa natura disturbante, la soggettiva, che qualche anno dopo sarà portato all'assoluto trionfo da Carpenter nel suo capolavoro. 
Tra sguardi distorti, mannaie gocciolanti, argentiani guanti neri, inquietanti conversazioni telefoniche e scene immerse nella quasi totale oscurità, l'opera di Gershuny, cullandosi sulle note della dolce, malinconica e celeberrima Silent Night, si lascia apprezzare senza sforzo, trovando il suo apice in una lunga e magnifica sequenza in flashback, virata su tonalità color seppia, durante la quale si compie una dolorosa storia di abusi e vendetta. Minuti intentissimi, in cui si evidenzia lo spirito underground del film (per la presenza di alcuni attori provenienti dalla factory di Andy Warhol, voluti dalla stessa Woronov in quanto suoi amici ed ex colleghi) e si dispiega il significato ultimo di un racconto che accoglie su di sé traumi infantili, scomparse ingannevoli e misteri troppo a lungo rimasti a sedimentare sottoterra. 
L'edizione Dvd della Opium, coadiuvata da un gradevole artwork realizzato dalla disegnatrice Fabiana Trerè, ci presenta la pellicola con una traccia in lingua originale sottotitolata (non è mai esistito alcun doppiaggio italiano) e in qualità audio/video più che buona. A ciò si aggiunge un piccolo ma gustoso extra, tratto dal documentario Cult Queen Mary Woronov from Warhol to Corman, attualmente in post-produzione, in cui la protagonista di Death House, tra un drink e l'altro, ricorda alcuni aneddoti relativi alla lavorazione, senza timore di ammettere alcune abitudini non proprio edificanti che ne hanno caratterizzato la giovinezza.
​Una ciliegina in più, con cui completare il quadro di un'uscita di tutto rispetto, dedicata a un film fino a oggi quasi abbandonato nella polvere, ma in realtà capace di conquistare un posto nient'affatto trascurabile nella lunga ed epica storia del cinema horror.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Revival 60/70/80, Into the Pit

Link correlati Opium Visions:   Maliziosamente     Donald Neilson     Heartbreak Motel     A bruciapelo


Scheda tecnica

Titolo originale: Silent Night, Bloody Night (conosciuto anche come Night of the Dark Full Moon)
Regia: Theodore Gershuny
Sceneggiatura: Theodore Gershuny, Jeffrey Konvitz, Ira Teller
Attori: Patrick O'Neal, James Patterson, Mary Woronov, John Carradine
Musiche: Gershon Kingsley
Fotografia: Adam Giffard
Montaggio: Tom Kennedy
Anno: 1972
Durata: 85'

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HEARTBREAK MOTEL - Incubo Americano

7/10/2016

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​Terza uscita per la Opium Visions, collana home video che prosegue lungo il suo cammino nel lodevolissimo intento di riportare alla luce film maltrattati, censurati e/o dispersi nell'oblio. Dopo i turbamenti erotici di Maliziosamente (L'étreinte) e la follia omicida di Donald Neilson – La iena di Londra, la Opium ci conduce questa volta nell'America rurale del 1975, teatro di squallore e ottusità, con Heartbreak Motel, film diretto da Richard Robinson, oggetto di numerose manipolazioni nel corso degli anni e ora riproposto nella versione integrale.

Liz Wheterly, cantante di successo, decide di prendersi qualche giorno di vacanza prima del suo prossimo concerto. Si mette in viaggio da sola, ma a causa di un guasto all'automobile è costretta a chiedere soccorso in un piccolo motel situato in mezzo al nulla. Ad accoglierla trova la signora Bertha, ex stellina del burlesque ora perennemente persa tra i fumi dell'alcool, e il giovane Eddie, aspirante cantante country dalla tanta ambizione ma dal poco talento (e amante di Bertha). Appare evidente sin da subito come nella fatiscente struttura si respiri un clima malsano e pericoloso. La netta sensazione troverà pieno compimento: Liz dovrà subire gli assalti sessuali di Eddie e al contempo dovrà avere a che fare con gli altri rozzi membri della comunità locale, quasi tutti desiderosi di abusare di lei. 

Heartbreak Motel, conosciuto anche con numerosi altri titoli (tra i quali Poor Pretty Eddie) è un lavoro visionario e crudele, catalogabile al filone del rape & revenge pur con connotazioni narrative parzialmente differenti. Siamo nei territori malati di quell'America anni Settanta tanto ben dipinta in quel tempo nelle seminali opere dei vari Hooper, Craven e Zarchi, una nazione nella quale, soprattutto negli anfratti più nascosti, covavano orrori raccapriccianti e ingiustizie insopportabili causate dall'ignoranza latente e da una demenza collettiva incontrollabile. Il luogo in cui si consuma la vicenda messa in scena da Robinson, in fondo, non è per caratteristiche ambientali così lontano dal classico “motel vicino alla palude” di hooperiana memoria o da altri contenitori incubali d'epoca che tanto hanno influenzato tutto il cinema di genere degli ultimi decenni. Certo, qui non ci sono coccodrilli e nemmeno uomini con una maschera di pelle umana o mostri affamati in attesa tra le ombre, ma l'insalubre clima generale in cui si attua la storia non può che riportarci là, a quell'età d'oro dell'horror e affini che ancora oggi ricordiamo con forza. 
Da parte sua Robinson cerca di donare al film una certa originalità, sottolineando gli aspetti legati al razzismo (Liz è una donna di colore, cosa che provoca continue battute di rara stupidità), insistendo su una regia fantasiosa fatta di ralenti, dissolvenze incrociate, fermo immagine, inquadrature dal basso e zoom improvvisi, e dando corpo a personaggi infami e deprimenti: Eddie, “honkytonk man” che sfoga sulla malcapitata protagonista la propria incapacità artistica; Bertha (una magnifica Shelley Winters), che esordisce nel film guardandosi allo specchio e dicendo a se stessa “You're an ugly bitch”, per poi trascinarsi lungo la vicenda con addosso vestiti improbabili, perennemente ubriaca e terrorizzata all'idea di perdere l'unico uomo con cui può combattere la totale solitudine che la attanaglia; Keno (interpretato da Ted Cassidy, il Lurch della Famiglia Addams!), operaio tuttofare dall'aspetto inquietante ma unica figura a possedere ancora un minimo fondo di umanità. Intorno a loro gli altri membri della comunità, sceriffi, giudici e avventori del motel, tutti accomunati dal completo sudiciume, dentro e fuori, disgustanti individui pronti a fingere di aiutare Liz per poi invece saltarle addosso, al fine di soddisfare istinti di pura bestialità.
L'autore conduce così la sua attraente protagonista negli inferi della sopraffazione, iniziando con una prima parte di crescente ansia che va a esplodere in una delirante scena di stupro, realizzata in montaggio alternato con un accoppiamento canino (scelta di pessimo gusto), per poi far salire la tensione sino a un epilogo (tutto al ralenti) anticipato da macabri contrasti musicali (la marcia nuziale) ed espressivi (il viso catatonico di Liz), in cui il sangue deve inevitabilmente scorrere. 
Nonostante qualche azzardo discutibile e alcuni passaggi a dir poco confusi, il lavoro di Robinson riesce a essere disturbante ed efficace, lasciando in eredità un vago senso di repulsione e desolazione. Più che apprezzabile il lavoro compiuto da Matteo Biacca e Simone Starace, i curatori della Opium, che partendo da una vecchia copia del film lo sono riusciti a ricomporre nella sua versione completa e corretta, rendendogli finalmente giustizia.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80

Link correlati: Opium Visions 1: Maliziosamente (L'étreinte)
                              Opium Visions 2: Donald Neilson – La iena di Londra


Scheda tecnica

Titolo originale: Poor Pretty Eddie
Regia: Richard Robinson
Sceneggiatura: B.W. Sandefur
Fotografia: David Worth
Montaggio: Frank Mazzola
Anno: 1975
Durata: 82'
Attori: Leslie Uggams, Shelley Winters, Michael Christian, Slim Pickens, Dub Taylor, Ted Cassidy

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DONALD NEILSON - La iena di Londra

20/6/2016

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​Seconda uscita per la Opium Visions, collana della Penny Video arrivata sul mercato con il lodevolissimo proposito di regalare nuova vita a film invisibili, dimenticati, maltrattati dalla distribuzione o rimasti troppo a lungo nell'oblio. Dopo averci fatto (ri)scoprire l'interessante L'entreinte (Maliziosamente), erotico francese tratto dal romanzo Histoire d'O, la Opium ci porta questa volta in Inghilterra, per assistere alle malsane gesta di Donald Neilson, efferato pluriomicida inseguito a lungo dalla polizia britannica e arrestato nel 1975.

La storia di Neilson “merita” di essere raccontata, seppur per sommi capi. Donald Nappey (questo il suo vero nome) nacque nel 1936. La sua infanzia e la sua adolescenza non furono propriamente felici: la madre morì per un cancro quando lui aveva dieci anni, e in età scolastica il ragazzo fu perennemente oggetto di derisione da parte dei coetanei, sia per la bassa statura sia per il suo cognome (Nappey, quasi identico a Nappy, pannolino). Per trovare una via di fuga alla fosca realtà che lo opprimeva Donald entrò nell'esercito, per poi diventare tecnico nazionale di fanteria leggera dello Yorkshire; lasciò però le armi per sposare la giovane Irene Tate, da cui ebbe una figlia, Kathryn. 
Allo scopo di evitare alla primogenita gli stessi scherni da lui subiti, Nappey cambiò il proprio cognome in Neilson. L'uomo rilevò un'impresa di costruzioni, investimento che si rivelò fallimentare; successivamente lavorò come tassista, ma impossibilitato a trovare una stabilità economica, iniziò a dedicarsi ai furti. Per lungo tempo Neilson rubò in case e ville, senza mai essere catturato. Non soddisfatto dell'ammontare dei guadagni, decise di assaltare gli uffici postali; fu proprio in queste occasioni che si rese responsabile di tre omicidi nel 1974.
​La polizia lo soprannominò The Black Panther, per la destrezza delle sue “imprese” e per la divisa completamente nera che indossava in quelle occasioni. Nel 1975 Neilson rapì Lesley Whittle, giovane ereditiera di 17 anni. La imprigionò in un pozzo di drenaggio, chiese un lauto riscatto alla famiglia, ma per una serie di imprevisti la consegna dei soldi non andò a buon fine. La ragazza venne ritrovata senza vita, strangolata da un filo legato al collo. Qualche mese dopo finalmente la polizia riuscì ad arrestare Neilson. Non si è mai saputo con certezza se Lesley sia stata uccisa da Neilson o sia morta accidentalmente; in ogni caso il tribunale lo condannò a cinque ergastoli. Il killer trascorse tutto il resto della sua vita in carcere, dove morì nel 2011.

La riproduzione, piuttosto fedele, della carriera criminale della Pantera Nera, è affidata al film diretto da Ian Merrick, realizzato nel 1977, osteggiato e bloccato dalla censura subito dopo la sua uscita (in quanto violento e scioccante, nonché palesemente accusatorio riguardo all'incapacità e alla corruzione della polizia), riesumato e restaurato dalla British Film Commission nel 2012 e ora disponibile anche in Italia grazie alla Penny Video.
Il lavoro di Merrick cerca di non allontanarsi troppo dai fatti, concentrandosi su alcuni aspetti caratterizzanti il modus operandi di Neilson: la sua ossessione per l'addestramento militare, il culto per le armi, la meticolosa preparazione effettuata prima di ogni colpo, il vezzo di collezionare ritagli di giornale con la descrizione delle sue malefatte. Il ritratto che ne esce è quello di un uomo che usa il crimine non tanto per motivi economici (comunque presenti), quanto piuttosto come strumento di affermazione di sé, come rivincita nei confronti delle umiliazioni subite nel tempo, nonché come personale glorificazione autoindotta; si veda, in tal senso, la scena in cui, dopo aver incollato sul quaderno l'ennesimo trafiletto dedicato a un suo furto, Neilson si guarda allo specchio e si lascia scappare un sorriso compiaciuto. 
Merrick e il suo sceneggiatore Michael Armstrong tratteggiano il criminale come un uomo che ha fallito quasi sempre e in tutto; uno dei tanti individui allo sbaraglio in un periodo in cui la società inglese viveva una forte depressione interna, sottolineata anche da brevi ma significativi inserti diegetici, ad esempio i pestaggi in strada tra ragazzi. Neilson, interpretato da un disturbante Donald Sumpter (negli ultimi tempi visto in Eastern Promises di Cronenberg e nelle prime stagioni di Game of Thrones), è uno spirito osteggiato dalle contraddizioni: si commuove davanti a uno sceneggiato alla Tv e allo stesso tempo si lascia andare ad atteggiamenti a dir poco dispotici nei riguardi della moglie e della figlia; non usa violenze gratuite nell'atto del rapimento ma spara a bruciapelo su uomini che cercano di ostacolare le sue rapine. In lui, in fondo, lottano più anime, anche se poi a prevalere è senza dubbio la parte assassina. 
Il film si concentra soprattutto sulle rapine agli uffici postali e, ancor di più, sui vari tentativi falliti di consegnare i soldi del riscatto di Leslie. La messinscena si lascia apprezzare per la schiettezza che la domina; si tratta infatti di un'opera glaciale, ruvida, in cui alcune indovinate scelte di regia e la quasi totale assenza di dialoghi trascinano lo spettatore in un vortice grigio e opprimente, dal sapore amaro. Una realtà priva di sole e speranza, in cui si consuma un cupo e sanguinario viaggio che non potrà mai ottenere alcuna redenzione.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: The Black Panther
Regia: Ian Merrick
Sceneggiatura: Michael Armstrong
Musiche: Richard Arnell    
Fotografia: Joseph Mangine
Anno: 1977
Durata: 102'
Attori: Donald Sumpter, Debbie Farrington, Marjorie Yates, Sylvia O'Donnell, Andrew Burt

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SLEUTH (GLI INSOSPETTABILI) - La regola del gioco

17/12/2015

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​L’arte della retorica consiste nell’abilità di un oratore di convincere uno o più ascoltatori della bontà delle proprie argomentazioni, a prescindere dal valore di verità che esse assumono nel loro contenuto e nel loro disporsi all’interno del discorso. L’arte della dialettica consiste invece nella ricerca della verità attraverso un confronto anche apertamente conflittuale, nel quale, però, la capacità di convincimento dell’interlocutore/avversario è sottomessa al rigore del ragionamento, alla forza delle premesse, al rispetto di alcuni principi logici inderogabili. 
Se nel primo caso si rinviene il sofista, colui che non necessariamente è più sapiente degli altri uomini, ma possiede il dono insinuante della capacità oratoria, nel secondo si rinviene invece il filosofo, cioè colui che, attraverso il dia-logos, ricerca incessantemente la verità delle cose, insieme al suo uditorio. Il sofista è perennemente su un palco, un teatrante, un illusionista – secondo la definizione platonica – che crea mondi fittizi in sostituzione di quello reale, i quali, grazie al potere affabulatorio della parola, assumono i contorni di una realtà più vera del vero, mondi opachi nei quali è facile (e talvolta piacevole) smarrirsi; il filosofo, dal canto suo, tende a determinare una problematica corrispondenza fra i propri logoi e le cose, avendo come obiettivo supremo il rinvenimento di quell’unità di senso capace di porsi come sintesi ultima ed esaustiva del reale. 
Sia nel caso del sofista sia in quello del filosofo, l’obiettivo ultimo è dominare la realtà tramite i propri discorsi e, in senso esteso, le proprie rappresentazioni. Da un certo punto di vista è possibile individuare, però, nel sofista/teatrante il vero poeta dell’essere, prestigiatore smaliziato ed eterno fanciullo che gioca senza tregua con le asperità del reale, con le sue inesplicabili contraddizioni e con l’impossibilità per l’uomo di abbracciarne definitivamente l’orizzonte: tanto vale baloccarcisi, col reale, vellicarne le giunture malferme, prendersi gioco delle sue molte variabili, a patto di non illudersi, in tal modo, di averne esorcizzato l’influsso, di aver conquistato la statura e il potere di un dio, perché la rovina è sempre a un passo e prima o poi esigerà il suo tributo.

Il cinema di Joseph Mankiewicz fonda, fin dagli esordi con Il castello di Dragonwyck (1946), il proprio equilibrio sugli invisibili fili della menzogna – o, meglio, di un racconto della realtà che risulta tanto più convincente e verosimile quanto più è ben congegnato e lontano da essa – tessuti dai molti personaggi doppi e ambigui che lo costellano, dopo che quello esile della verità è stato facilmente spezzato o, più di frequente, reso aggrovigliato e indiscernibile, con il sovrapporsi ad esso di molteplici fibre, che appartengono ad altre ed estranee matasse. Un cinema venato da una forte impronta teatrale (e non potrebbe essere diversamente, visto il grande amore del regista per il teatro elisabettiano e per Shakespeare in particolare) nello spirito, ma anche da un’impeccabile costruzione filmica, tanto semplice nei suoi esiti visibili quanto articolata nella sua elaborazione narrativa, nella scrittura, grazie all’essenzialità e all’efficacia del linguaggio specificamente cinematografico utilizzato, classico e modernissimo a un tempo. Una costruzione in cui l’elemento differenziale è costituito dalla parola, vero e proprio motore della progressione del racconto e del delinearsi dei personaggi principali. 
Se, come dice Deleuze, il cinema narrativo americano risulta fondato sull’immagine-azione e si esprime come duale/duello fra personaggi contrapposti, in alcuni casi, specie nella sophisticated comedy o nella screwball comedy, esso trova il proprio perno nella parola-azione, vale a dire in una costruzione non più basata sul meccanismo azione/reazione, bensì su quello parola-azione/parola-reazione. Gli eventi si innescano non più a partire da un’azione scatenante, che modifica il contesto in cui si muovono i personaggi, bensì da un discorso, che, più che trasformare tale contesto, ne crea ex nihilo uno del tutto nuovo, nel quale le coordinate di senso dell’inizio mutano fino a risultare irriconoscibili. 
Mankiewicz è il maestro incontrastato di tale processo, più di Lubitsch, Wilder, Hawks o Preston Sturges, in quanto, nella sua opera, ogni elemento significante è legato alla parola e alla sua inafferrabilità. Signori della retorica, intelligenze malefiche e sublimi, votate alla sopraffazione e alla prevaricazione, i personaggi di Mankiewicz si sfidano senza tregua attraverso l’inganno, il raggiro, la doppiezza, il sottile soffio della perfidia, il sempiterno ricorso alla falsificazione, alla dissimulazione. Il suo cinema non è altro che una continua e raffinatissima auto-rappresentazione che ciascuno dei personaggi principali fa di se stesso, il cui scopo è l’annichilimento dell’avversario in funzione della più allettante delle poste: l’affermazione incontrastata del proprio ego smisurato. Tutti gli altri obiettivi sono solo transitori, dei mezzi per raggiungere questa (im)mortale e bruciante sensazione di potere. 

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Gli insospettabili, ovvero l’ultima grandiosa rappresentazione del maestro americano (1) prima del dorato e ininterrotto (fino alla sua morte, nel ‘93) esilio a Willow Pond, a un centinaio di chilometri da New York, può essere considerato una summa del suo cinema e delle sue tematiche predilette, una sorta di trattato definitivo sulla sua concezione della natura umana, del cinema, del teatro e dei meccanismi della finzione.
In questo sublime Kammerspiel non ci sarà bisogno di molteplici figure, come nei film precedenti, per accrescere le ambiguità e i punti di osservazione o per intensificare l’instabilità del reale, ma basteranno due soli personaggi, capaci di sdoppiarsi, mimetizzarsi, camuffarsi per far proliferare gli snodi, i cul-de-sac, le false piste del racconto e per far esplodere un duello (reale e finzionale) di impareggiabile maestria recitativa fra il grande “vecchio” Laurence Olivier (Wyke) e il giovane rampante Michael Caine (Tindell).
​Ecco allora che l’anziano aristocratico Andrew Wyke e il giovane parvenu Milo Tindle – un tempo Tindolini – non sono semplicemente due (2) personaggi, ma un’intera compagnia di teatranti, che dà vita a una matrioska inestricabile di trame e sotto-trame, con continui scambi di posto e di ruolo, repentini mutamenti di identità o atteggiamento, momentanei e sempre parziali successi sull’avversario.
Il terzo vero personaggio aggiunto è l’abitazione di Wyke, funzionale sia all’unità di matrice classica del racconto (3) sia soprattutto al dispiegarsi di quest’ultimo. Esternamente protetta da un labirinto, senz’altro metaforico e simbolico, ma anche e soprattutto fattuale, essa all’interno si rivela almeno altrettanto enigmatica: ampia, arredata in modo ipertrofico – almeno nell’ala della casa che funge da oscuro e augusto regno di Wyke, mentre l’area dedicata alla moglie Marguerite (il personaggio sempre fuoricampo, che risulta il motivo apparente della contesa fra Wyke e Tindell) (4) si rivela luminosa ed elegantemente asettica, come se nessuno ci vivesse – e abbellita da una serie pressoché infinita di astrusi rompicapo esotici e di splendidi automi meccanici, vero pubblico “in scena” delle vicende narrate.

1) Senza dimenticare l’apporto in sede di sceneggiatura del grande Anthony Shaffer.
2) Nel cast figurano altri quattro nomi, fittizi, di attori/personaggi inesistenti (fra cui è da notarsi una “Eve Channing”, rimando neanche tanto velato e scherzosamente “doppio” al film di maggior successo del repertorio di Mankiewicz, cioè Eva contro Eva, del 1950); un modo ulteriore di mischiare le carte e prendersi gioco, con eleganza, dello spettatore.
3) Gli insospettabili rispetta l’unità di luogo aristotelica e, sostanzialmente, anche quella di tempo, visto che la narrazione abbraccia l’arco di un fine settimana.
4) Tindell, agiato e apprezzato parrucchiere per signora, è l’amante di Marguerite, moglie di Wyke. Quest’ultimo invita Tindell nella propria dimora in campagna con un pretesto per umiliarlo – in modo letteralmente mortale, facendogli credere di volerlo uccidere – non solo come avversario di circostanza, ma soprattutto in quanto nuovo ricco di origine oltretutto straniera e in quanto giovane “stalloncino”, capace di privarlo di uno dei suoi possessi, nel caso, la moglie. Tindell soccomberà, inizialmente, ma poi riuscirà a prendersi la propria rivincita e i ruoli continueranno a capovolgersi, fino al finale inevitabilmente tragico. 

Il gioco, nei suoi aspetti più inventivi e legati alla creatività dell’intelligenza, è l’unico autentico passatempo delle “menti nobili”, come pensa Wyke e, tutt’altro che in subordine, anche Mankiewicz. Ecco, il fulcro di tutta la vicenda è proprio il gioco, il conflitto, scandito da regole diverse rispetto alla vita reale e capace di deviarne il flusso, fra avversari per i quali, alla lunga, le varie e pretestuose motivazioni che li hanno portati a confrontarsi cadono, per lasciare spazio esclusivo all’interminabile partita che li vede protagonisti. Solo che non si tratta di prevalente amore per il gioco in quanto tale, bensì della possibilità che esso offre di sopraffare l’avversario, dopo averlo dapprima deriso, annichilito, annullato, e di quello di ascoltarsi parlare, in una realizzazione del sé che transita sempre attraverso la magia del suono delle proprie parole e la potenza creatrice (di mondi e significati) che esse sprigionano: Dico/loquor ergo sum.
Ecco quindi l’unica vera regola del gioco: l’aspetto ludico dà piacere solo in caso di vittoria, solo quando l’opponente viene sorpreso dalla tattica messa in atto dal master of puppets (ce n’è quasi sempre uno in scena, o presente in qualche modo, nel cinema di Mankiewicz), solo quando l’invenzione dell’ingegno, sempre supportata dalla parola, quindi dalla recitazione/rappresentazione di sé, ha il potere di aprire le maglie del contendente, per riuscire meglio ad impadronirsi della sua persona e della sua anima, per farlo diventare un pubblico rapito dalle proprie istrioniche capacità recitative, un burattino docile nelle proprie mani.
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In un continuo slittamento delle leggi del gioco di ruolo, ne Gli insospettabili i ruoli-funzione dei personaggi si scambiano di continuo, vedendo nella parte di master of puppets dapprima Wyke, poi Doppler/Tindell, poi solo Tindell e, infine, nuovamente Wyke, anche se l’ultima parola Mankiewicz la conserva per sé, costruendo il finale come ultimo sberleffo per i suoi personaggi e per lo spettatore. Dopo aver ribaltato i piani del confronto, conducendo Tindell a rivelarsi inaspettatamente come un giocatore di talento e inventiva pari almeno a quella del “maestro” Wyke, Mankiewicz costringe i suoi personaggi alla rovinosa fine che è inscritta nel loro fato, con la conclusione anche dei loro ingegnosi trabocchetti, dei loro sottili marchingegni, attraverso l’introduzione di un tocco di realtà nel loro castello di finzioni: Wyke sparerà per davvero a Tindell, uccidendolo e chiudendo così il cerchio del gioco da lui stesso iniziato, così come la polizia giungerà sul serio a indagare su Wyke (anche se non entrerà effettivamente in scena, venendo evocata dalla sineddoche/metonimia del lampeggiante dell’auto, inquadrato brevemente prima del frenetico finale), dopo la splendida finzione “poliziesca” messa in atto da Tindell, vestito dei panni del solido ispettore Doppler, campagnolo tutto sostanza e buon senso, che indaga sulla scomparsa di… se stesso.
Tutti i temi cari a Mankiewicz trovano spazio nel gioco al massacro de Gli insospettabili: dal conflitto di classe a quello fra sessi (quest’ultimo solo evocato, vista l’assenza di personaggi femminili in scena), dalla rappresentazione di sé, come estrema espressione della perfida intelligenza umana, al suo utilizzo in funzione della prevaricazione sull’avversario di turno, dal teatro, come luogo privilegiato di tale rappresentazione e di tale conflitto, al cinema come spazio super-umano, in grado di svelare non solo il proscenio bensì anche il dietro le quinte delle miserie e delle grandezze umane.
Il tutto viene reso attraverso una messa in scena impeccabile, capace, almeno alla prima visione, di sorprendere sempre anche lo spettatore più attento e di dislocarlo senza interruzioni in una posizione scivolosa, sia nei rapporti coi personaggi sia nei confronti dello sviluppo del racconto. Lo spettatore diviene allora un vero e proprio pubblico assente, costretto ad applaudire fuoricampo e silenziosamente l’ultima grandiosa prova del maestro americano, mentre, in scena, gli automi impazziti si fanno beffe fragorosamente e senza più alcuna remora dei due giocatori sconfitti, giacché la situazione è tragica, ma non seria. Del resto, si è trattato di un gioco.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Tirolo originale: Sleuth
Anno: 1972
Durata: 138’
Regia: Joseph L. Mankiewicz
Soggetto e sceneggiatura: Anthony Shaffer
Fotografia: Oswald Morris
Montaggio: Richard Marden
Musica: John Addison
Scenografia: Ken Adam, Peter Lamont, John Jarvis
Cast: Laurence Olivier, Michael Caine

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DON GIOVANNI - Il vecchio e il nuovo

26/6/2015

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Molti sono i motivi che possono aver condotto Joseph Losey ad azzardare un’operazione tanto rischiosa quanto affascinante come quella della riproposizione cinematografica della vicenda del “dissoluto punito”, (1) così come innumerevoli sono gli spunti, i temi, le aperture di significato e anche i piaceri che essa elargisce.
Innanzitutto, perché utilizzare proprio il Don Giovanni mozartiano per elaborare quelli che, come si vedrà fra breve, risultano essere alcuni fra i temi prediletti del regista statunitense? La risposta può essere trovata nelle parole di Søren Kierkegaard, che non solo ha molto amato l’opera di Mozart, ma le ha addirittura dedicato un intero saggio (Don Giovanni – La musica di Mozart e l’eros), oltre a costruire attorno alla figura del licenzioso nobile uno degli archetipi di riferimento del proprio sistema filosofico: “[…] il Don Giovanni, dato il carattere astratto dell’idea, vivrà eterno in tutti i tempi, e voler comporre un Don Giovanni dopo Mozart sarà sempre come un’Iliade post Homerum, e in senso assai più profondo che per Omero.” 
Losey sembra riconoscere la saggezza delle parole di Kierkegaard e, di conseguenza, il rischio e l’inanità di una rivisitazione capace di prescindere dal modello mozartiano, quindi propone un lavoro estremamente fedele al testo musicale e letterario di Mozart e Da Ponte. In questa “fedeltà” è possibile, paradossalmente, riscontrare uno dei motivi che rendono il progetto attuato da Losey un’opera di cinema a pieno titolo, anziché un semplice e decorativo esperimento di teatro filmato.

1) Come recita la locandina della prima rappresentazione del Don Giovanni a Praga, il 29 ottobre del 1787: Don Giovanni ossia il Dissoluto punito.

Losey mantiene quindi intatta l’essenza e la lettera del capolavoro mozartiano – la musica e la musicalità, la poeticità geniale e intrigante del testo di Da Ponte, la caratterizzazione e il ruolo dei personaggi – rielaborando la struttura scenica (per gli esterni vengono scelte due note isole veneziane, Murano e Torcello, la campagna veneta e alcuni importanti edifici palladiani, come la “Rotonda” o la Basilica Palladiana, mentre per gli interni vengono esaltate le straordinarie possibilità offerte dai medesimi edifici, fra cui risalta in tutta la sua magnificenza il Teatro Olimpico di Vicenza) e riuscendo a creare una tensione incessante sia nei rapporti fra i personaggi, sia fra i personaggi stessi e l’ambiente circostante, tale da far emergere pienamente il suo stile registico, nonché le tematiche che connotano la sua poetica e la sua visione del mondo.
Le immagini risultano tutt’altro che pacificate o meramente funzionali allo sviluppo narrativo, ma delineano con costante intensità un conflitto persistente e mai del tutto risolto, che coinvolge non soltanto i personaggi, ma anche la forma stessa del visivo. È l’immagine dialettica a regnare, frutto non solo dell’originalità dello stile di Losey, ma anche dei contatti che il regista statunitense intrattenne con Ejzenštejn nella metà degli anni ‘30. Tale immagine cattura l’immanente conflitto del mondo, un conflitto originario e preesistente a ogni forma di vita individuale e associata. Essa esprime la forza trainante interna della realtà e della storia, che talora muove e fa evolvere le cose o, non di rado, risultando inappropriata per generare un salto qualitativo in grado di spazzare definitivamente l’obsolescenza del vecchio, innesca cortocircuiti incapaci di produrre il nuovo. Di qui la frase di Gramsci in calce nei titoli di testa del film: “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere: e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.” L’immagine dialettica percorre e agita il film dal principio alla fine, in molti modi e sotto svariate forme, per poi giungere alla conclusione che, a conti fatti, la dipartita di Don Giovanni non costituisce l’avvento di una nuova era, ma semplicemente la restaurazione dell’ordine originario.

Innumerevoli sono le opposizioni che pervadono il film, conferendogli ritmo e dinamismo, in un movimento che, lungi dall’essere lineare, si caratterizza invece per la propria spiccata circolarità: un’iterazione continua di segni, situazioni e ritorni, che mai sembra trovare un effettivo superamento, salvo forse nell’arrembante (pre)finale.
Innanzitutto va notato come, a livello meta-testuale, si situino almeno due coppie di duali. La prima concerne il confronto fra le convenzioni cinematografiche e quelle teatrali. La fedeltà al testo e alle convenzioni del teatro lirico (i pensieri dei personaggi che divengono elocuzione cantata, i recitativi, l’ovvia assenza di dialoghi parlati e così via) unitamente al linguaggio tipicamente cinematografico (il montaggio, i movimenti di macchina, gli esterni “reali”) creano un senso di estraniamento nello spettatore, che si ritrova catapultato al confine fra regimi indiscutibilmente distanti della rappresentazione. La seconda coppia riguarda invece l’epoca di realizzazione dell’opera e la sua ambientazione. L’opera di Mozart viene concepita verso la fine del ‘700 ed è collocata temporalmente nella prima metà del ‘600; il film di Losey cala invece l’ambientazione nel tardo ‘700.

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Losey decide quindi di focalizzare la propria attenzione non sul contesto di finzione, bensì su quello reale che ha generato l’opera di Mozart, quello cioè in cui matura la Rivoluzione francese, con tutte le conseguenze storiche e politiche – e con tutte le pur caute analogie con l’emblematica vicenda del “Dissoluto punito” – che se ne possono trarre: la fine momentanea della monarchia, l’avvento della figura-chiave di Napoleone, Waterloo, la Restaurazione; il conflitto fra il Vecchio e il Nuovo non vede scaturire una nuova era, bensì vede il ritorno allo status quo. Nello scarto fra la contestualizzazione storica voluta da Mozart/Da Ponte per la loro opera e quella decisa da Losey per il proprio film è possibile cogliere l’elemento forse sostanziale della lettura politica individuata e sviluppata dal regista americano; senza proclami, futili riletture, eccentriche sperimentazioni e rielaborazioni.
Il fuoco (la fucina dei maestri vetrai, che funge da sfondo a svariate sequenze cruciali) e l’acqua (i canali che conducono le imbarcazioni dei personaggi da un luogo all’altro, in una specie di labirinto topografico voluto dal regista, che evita qualsiasi tipo di corrispondenza fra luoghi reali e luoghi diegetici) aprono invece le danze dell’opera, istituendo il primo confronto di duali relativi all’ambito testuale vero e proprio. La fiamma della passione sensuale, ma anche dello straripante desiderio di rivalsa femminile nei confronti del libertino, si trasformerà, nel finale, nel bruciore cupo e sordo della dannazione infernale. L’acqua, superficie illusoriamente uniforme, ma ingannevole e torbida – come le oscure pulsioni che animano, in un modo o nell’altro, tutti i personaggi – o scrosciante pioggia, potrà essere veicolo di morte (la sequenza dell’uccisione del Commendatore) o di vendetta (le tre Maschere, cioè Don Ottavio, Donna Anna e Donna Elvira, che arrivano alla festa di Don Giovanni in barca, o Don Giovanni stesso, che di notte, dopo lo scambio di abiti e di identità col servo Leporello, giunge anch’egli in barca al cimitero dove riposa il Commendatore, la cui voce acusmatica è presagio della prossima fine del protagonista).
L’architettura palladiana (edifici e giardini ordinati, lineari, perfettamente prospettici e geometrici, un’architettura indifferente, che, proprio a causa di tale indifferenza, crea tensione nel conflitto con la potenza degli istinti), si contrappone invece al disordine del desiderio – erotico o di vendetta – e soprattutto alla tipologia di pulsione che Losey ha sovente cercato di evocare nei suoi film: la pulsione di servilità. (2) 

2) Per approfondire il tema della “pulsione di servilità” nel cinema di Losey si veda il capitolo 8 di Cinema 1 – L’immagine-movimento di Gilles Deleuze.  

È il regista stesso a tracciare le coordinate di questa particolarissima forma di impulso, in un’intervista relativa a uno dei suoi capolavori, Il Servo (1963): “Per me il film è solo un film sulla servilità, servilità della nostra società, servilità del padrone, servilità del servo e servilità nell’atteggiamento di ogni specie di persona che rappresenta classi e situazioni diverse […]. È una società della paura, e nella maggior parte dei casi la reazione davanti alla paura non è la resistenza o la lotta, ma la servilità, e la servilità è uno stato dello spirito.” Questo impulso percorre tutto il film in ogni senso e direzione, pervadendo personaggi e classi sociali. Servile è naturalmente l’atteggiamento di Leporello nei confronti del padrone, ma servili sono altresì le figure femminili nei confronti del superuomo Don Giovanni, così come quest’ultimo lo è nei loro, e tutto perché ciascuno dei personaggi teme di perdere o di non ottenere ciò che desidera. In tal modo ciò che nasce come un atteggiamento indotto dalle circostanze diviene un habitus, una seconda natura.
Analogo discorso può essere condotto a proposito delle classi sociali, di cui i singoli personaggi sono rappresentazione. La servilità dei domestici è ovvia e fuori discussione; lo è invece un po’ meno quella del padrone “liberale” Don Giovanni nei confronti di Leporello, che, quando fa mostra di volersene andare definitivamente viene circuito con mille moine (e qualche moneta) dal suo signore, il quale, non appena ottiene ciò che vuole, riprende però a trattarlo come uno zerbino. Servili sono anche i contadini, irretiti dalla munificenza populista del nobiluomo che elargisce loro “cioccolata, caffè, vini, prosciutti” e un po’ di svago, così come lo è, almeno inizialmente, anche Masetto (“chino il capo e me ne vo”), che lascia andare via, solo con qualche timido accenno di protesta, la sua promessa sposa con Don Giovanni. Servile è altresì la nobiltà, nei confronti dell’ordine che essa stessa ha creato: regole, precetti e costumi che il letteralmente “scostumato” Don Giovanni continua a infrangere. Servile è anche, in ultima istanza, l’atteggiamento di un’intera epoca e di un’intera società, che fondamentalmente hanno paura di se stesse, risultando perciò incapaci di redimersi e rinnovarsi.
L’unico rapporto che, pur contemplando la vendetta (e senza alcun accenno di servilità), ne trascende l’aspetto meramente pulsionale è quello fra il Commendatore e Don Giovanni. Esso può essere interpretato sia psicanaliticamente, come contrapposizione fra Legge e Desiderio, fra Super-Io ed Es, fra padre e figlio (si tenga presente, a tal proposito, il problematico rapporto fra Mozart e la figura dell’autoritario genitore), ma anche e forse soprattutto come conflitto fra Vecchio e Nuovo, come già si accennava. Infatti, pur essendo Don Giovanni un nobile dispotico e demagogo, quindi tutt’altro che un simbolo di effettiva novità e trasformazione, l’unico che ne avrà ragione sarà un membro della vecchia nobiltà e del vecchio potere. Una volta sconfitto l’eversore, l’ordine preesistente potrà finalmente essere ristabilito.

Don Giovanni è, in ultima analisi, una figura di confine, a suo modo un rivoluzionario, un inattuale, prigioniero della libertà di esercitare impunemente e smodatamente i propri desideri, torbidi e sensuali a un tempo, un illuminista e un romantico, un folle, un anarchico ribelle, un egocentrico ed edonista ebbro di vita e di morte, non poi così distante da un illustre e sinistro “fratello di sangue”: Donatien-Alphonse-François De Sade. Le parole che quest’ultimo scrisse dal carcere alla moglie nel novembre del 1783 possono servire da epitaffio per entrambi: “Prepotente, collerico, violento, eccessivo in tutto, di una sregolatezza senza eguali nell’immaginazione erotica, ateo sino al fanatismo: eccomi in due parole; e ancora una cosa, ammazzatemi o prendetemi come sono, perché io non cambierò.”

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80



Scheda tecnica

Regia: Joseph Losey
Anno: 1979
Durata: 176’
Soggetto e sceneggiatura: Joseph Losey, Rolf Liebermann, Patricia Losey, Frantz Salieri (dal libretto di Lorenzo Da Ponte)
Fotografia: Angelo Filippini, Gerry Fisher
Montaggio: Reginald Beck, Emma Menenti
Musiche: Wolfgang Amadeus Mozart
Interpreti: Ruggero Raimondi, John Macurdy, Edda Moser, Kiri Te Kanawa, José Van Dam, Teresa Berganza, Malcolm King, Kenneth Riegel, Eric Adjani

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PAURA DELLA PAURA - Distruzione di un'identità

21/5/2015

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Paura della paura rappresenta una delle tappe più interessanti per ciò che concerne il percorso filmico del regista tedesco Rainer Werner Fassbinder in relazione al mezzo televisivo. Il regista bavarese, infatti, nell’arco della sua breve ma intensissima carriera – che può contare addirittura trenta lungometraggi in soli tredici anni – è stato l’autore che più di tutti ha saputo sfruttare questo medium senza subirlo, comprendendone le possibilità e peculiarità. Proprio a causa di questa forte frequentazione possiamo individuare un Fassbinder cinematografico e uno televisivo.
«Dal punto di vista estetico, la […] coscienza non cambia, ma è differente il punto di partenza, la ragione per fare l’uno o l’altro», e questa ragione si incarna nel tipo di rapporto e nel tipo di reazione che il regista tedesco intende suscitare nel pubblico. Se sul versante prettamente cinematografico è possibile riscontrare un pessimismo marcato – poiché, a parere dell’autore, la “rivoluzione” (intesa come presa di coscienza in favore di un cambiamento) non avviene sullo schermo bensì nella vita reale –, sul versante televisivo abbiamo la mancanza di un finale tragico in favore di un’apertura ottimistica, ma non priva di un sottotesto ironico. E Paura della paura rappresenta con limpidezza questa seconda tendenza.
Trasmesso per la prima volta nel 1975 dal canale WDR, il film di Fassbinder mostra con perizia critica e stilistica uno squarcio di vita piccolo borghese in cui Margot Staudte, casalinga, moglie e madre, è preda di angosce e paure incomprensibili. Non vi è una storia che possa giustificare le intenzioni registiche, o una trama che faccia da linea guida al corpus filmico; ciò che si denota è lo sguardo della macchina da presa che indugia sulla figura femminile di Margot, aspettando che qualcosa si evolva. L’alienazione di questa donna – che “significa” in quanto donna, ed è per questo che il film riscosse molto successo proprio tra il pubblico femminile – accade tra la monotonia delle mura domestiche e tra le fitte maglie dei rapporti parentali: un marito, la suocera e i cognati. Sembra che niente possa condurre Margot a temere per sé e per i propri familiari, eppure la paura la porterà fino a credere di essere pazza, alla psicologa e alle medicine; ma perché, parafrasando un noto titolo fassbinderiano, la signora Staudte è colta da follia improvvisa? Il regista bavarese non dà risposta.
Fassbinder, infatti, rivolge tutti i suoi sforzi autoriali nei confronti di uno stile ricco e fecondo ai fini di una lettura critica. Fatto di dissolvenze e assolvenze, girato nel tipico salotto “bene”, ricco di immagini riflesse e inquadrature dentro le inquadrature, Paura della paura mette in scena un riuscito intreccio di sguardi che pone Margot al centro di una gabbia perimetrata dalle mura domestiche, in cui è vittima in quanto individuo femminile nelle forme sociali entro le quali è cresciuta. L’apparato cinematografico, in questo frangente, non fa altro che riflettere queste preesistenti forme. Ella “significa” in quanto opposta al genere maschile e può esistere solo in base a questa opposizione (o castrazione come la critica femminista le definirebbe), senza possibilità di emancipazione. Da qui ne consegue che tutto ciò che fa è esclusivamente funzionale alla conservazione dell’ordine patriarcale, mettendo al mondo una progenie che, pur mantenendo una parte del proprio patrimonio genetico, assumerà il cognome del padre.
Margot suggerisce alla sua spettatrice le propria presa di coscienza, e relativa frustrazione, riguardo la situazione “fallocentrica” piccolo borghese. Situazione peggiorata dalle insistenze della suocera e della cognata che insistono sul fatto che lei debba saper cucinare bene ed essere una brava donna di casa, opprimendo del tutto ogni desiderio di fuggire se stessa. Fassbinder colloca all’interno del contesto familiare una miriade di specchi con la funzione di moltiplicare i fuochi, ma anche di frammentare lo sguardo; davanti ad essi, Margot, persa la propria identità, colloquia con la sua immagine riflessa cercando di ritrovare se stessa, ma questo raddoppiamento non fa che aumentare vertiginosamente un certo disorientamento psicologico.
Fassbinder chiude il suo Paura della paura con un finale intelligente e ricco di riflessioni: Margot sta battendo a macchina nella solitudine del suo salotto e apprende dal cognato del suicidio del vicino di casa; dice di sentirsi bene e continua a fissare con insistenza il carro funebre. Che Margot abbia compreso che la paura è comune a tutti, indifferentemente dal sesso e dal ruolo? Forse la perseguiterà per il resto della propria vita? O più banalmente, lei ha paura della morte?

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: Angst vor der Angst
Anno: 1975
Regia: Rainer Werner Fassbinder
Sceneggiatura: Asta Scheib
Fotografia: Jürgen Jürges
Musiche: Peer Raben
Durata: 88’
Attori principali: Margit Carstensen, Ulrich Faulhaber, Brigitte Mira

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