ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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OSCAR INSANGUINATO - Glory to the Pri(n)ce

8/9/2014

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In uno degli scambi di battute più memorabili de La tomba di Ligeia (Roger Corman, 1964), quando Lady Rowena (Elizabeth Shepherd) chiede allo scostante Verden Fell (un sornione e ombroso Vincent Price), da poco (e per poco) vedovo di Lady Ligeia, “Ridete mai, signor Fell?”, si sente rispondere da Fell/Price: “Solo di me stesso”.
Il saper ridere di se stesso, l’esser serio senza prendersi sul serio, la puntuta ironia capace sovente di trasformarsi in autoironia, costituiscono uno dei tratti salienti della personalità di attore di Vincent Price: un’icona dell’horror a cui il genere ha portato grande fortuna, fama e delle notevolissime interpretazioni, ma che lo ha non di rado costretto sia a sentirsi limitato nelle possibilità di scelta a livello artistico, sia a vedersi mancare il pieno sostegno di una critica troppo spesso legata a categorie di giudizio ottusamente miopi rispetto al genere.
Oscar insanguinato – debitore, ma solo a livello di struttura narrativa, de L’abominevole dottor Phibes di Robert Fuest (1971), di poco antecedente e sempre con Price mattatore – del britannico Douglas Hickox, concede a Price una totale e appagante libertà interpretativa, gli consente di misurarsi, finalmente e da assoluto protagonista, con Shakespeare e, soprattutto, gli dà la possibilità di svillaneggiare e letteralmente massacrare, sia pure con grande classe e affilata ironia, proprio la categoria dei critici, che risulterà bersaglio dei raffinati omicidi del suo personaggio, il folle e geniale ex (assai poco propenso a esserlo) attore di teatro Edward Lionheart. Non va dimenticato, peraltro, come il film di Hickox sia in grado anche di proporsi come una sottile, e mai meramente accademica, incursione negli impervi territori del meta-teatro e del meta-cinema, sia pure in forma di sfrenato gioco al massacro, ancorché temperato dal ghignante nume del black humour incarnato da Price.
Già nei titoli di testa è possibile intravedere la sagacia di Hickox, che inframmezza i canonici credits introduttivi con gustosi filmati d’epoca, che ripercorrono alcune delle più celebri tragedie del Bardo: film(ati) muti, in b/n e probabilmente girati sul palcoscenico nei primi anni del secolo scorso, tanto da renderli degli esempi proprio di quel teatro filmato tanto vituperato dai critici cinematografici moderni e, al contrario, molto amato agli esordi del cinema, quando la concezione manichea dei primi esegeti dell’immagine in movimento riguardava i contenuti, (1) mentre il concetto di “specifico filmico” era ancora di là da venire. Subito dopo si entra nel presente diegetico, che, nel caso di Oscar insanguinato, coincide col presente delle riprese: la mdp inquadra un furgone che reca la scritta: “Shakespeare’s/of Fulham SW6/Removers”. Poi l’inquadratura si restringe fino a diventare il dettaglio della prima pagina del Financial Times (con la data 15 marzo 1972), il cui lettore, il critico teatrale George Maxwell (Michael Hordern), sarà anche la prima vittima di Lionheart. 

1) In questo metro di giudizio è possibile però, paradossalmente, notare anche un’anticipazione dell’uggiosa solerzia di quegli esteti del cinema alto che inizieranno a bandire Price dal loro orizzonte, una volta che questi sembrerà aver intrapreso la via che allontana dalla (loro) buona considerazione, cioè la via dei generi. In realtà, la controversia sui contenuti non è mai venuta meno e non risulta assente nemmeno oggi. 
 
Torniamo per un attimo alla scritta sul furgone e ai filmati iniziali. Tutto il film è percorso da una serie di rompicapi, di richiami più o meno espliciti, e sempre di impronta ludica, alle opere di Shakespeare, nonché di giochi di parole, apprezzabili solo nella versione in lingua originale. La scritta sul furgone indica che, nella zona di Fulham, il cui postal code è appunto SW6, (2) agiscono i “removers” di Shakespeare, cioè Lionheart e i suoi bizzarri accoliti, ma anche, a livello metafilmico, Hickox e la sua troupe, il cui scopo è quello di rimuovere, ricollocare Shakespeare, sia in ambientazioni aliene alla sacralità dei teatri londinesi canonici, sia come rivisitazione delle sue opere in una chiave interpretativa decisamente e beffardamente inedita. 

2) La sigla indica, nello specifico, l’area South/West di Londra, distretto n° 6, anche se una parte dell’azione si svolge nel distretto contiguo SW15, in cui ha sede il teatro abbandonato (in realtà, si tratta del vecchio e dismesso ippodromo di Putney, demolito nel 1975) dove ha il suo covo Lionheart.
 
Seguendo lo stesso ordine di ragionamento, è possibile scorgere, nei filmati introduttivi, una serie di arguti slittamenti di segno e di senso, che possono rimandare alla dicotomia fra la comicità involontaria delle immagini (cariche di tempo e lontane dalla sensibilità dello spettatore moderno) e la tragicità degli argomenti trattati, oppure al contrasto fra l’opera del Bardo – in cui predomina la parola – e le immagini, che, non essendo sonorizzate, non possono che affidare la loro espressività a gesti necessariamente enfatici ed esageratamente teatrali; infine si può individuare, nel passaggio dai filmati in b/n alla prima sequenza diegetica ambientata nel presente e a colori, uno scarto fra il vecchio e il nuovo, cioè una metafora del conflitto che caratterizza la lotta impari fra l’anziano e nostalgico ex attore di teatro e un mondo nel quale per lui non c’è più posto.
È lo spirito indomabile del protagonista e la sua acre collera verso i critici suoi detrattori che fanno da motore per lo svilupparsi di un canovaccio narrativo tanto prevedibile nella struttura, quanto imprevedibile, sottilmente malinconico, palesemente sarcastico e furiosamente sanguigno nella messa in scena, così come nella recitazione, mentre un labirintico gioco di rimandi e allusioni, o di implicazioni fra teatro e cinema, verità e finzione, recitazione e immedesimazione, arte e critica (con velleità letterarie) sostanzia l’opera con una stratigrafia di significati non sempre di immediata identificazione.
La trama è presto detta: Lionheart – attore scespiriano di vecchia scuola, gigione, enfatico, magniloquente e ampolloso secondo i suoi detrattori, divino, sublime, geniale secondo il suo parere e quello della leale figlia Edwina (Diana Rigg) – dato per morto dopo essersi buttato nel Tamigi, in seguito alla delusione per la mancata premiazione come Attore dell’Anno (3), è invece più vivo che mai, dopo essere stato tratto in salvo da una comunità di barboni che occupa un fatiscente teatro in disuso, ed è pronto a vendicarsi dei nove critici che hanno composto la giuria per l’assegnazione del premio e che, nel corso degli anni, non hanno fatto altro che umiliarlo con le loro perfide recensioni. Ciò che conta, naturalmente, è il come della vendetta, che prende le forme di una macabra e geniale rivisitazione di alcune fra le scene più cruente del repertorio di Lionheart. A farne le spese saranno otto dei nove, che, secondo la legge del contrappasso, moriranno come figure scespiriane.

3) Il premio teatrale, per insondabili motivi, si trasforma in “Oscar” nel titolo dell’edizione italiana.

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In ognuno degli omicidi si assiste a svariate applicazioni di tale legge, sia a livello diegetico che, talora, extradiegetico, con alcuni gustosi rebus legati ai nomi dei personaggi o ai loro vizi e debolezze, giacché tutti i gli avversari di Lionheart, pur essendo inflessibili nei loro giudizi estetici, sono assai più indulgenti verso le proprie turpitudini e volgari bassezze. Maxwell è ambizioso sia come critico, sia come notabile cittadino e, come tutti gli ambiziosi, è vanesio; sono proprio l’ambizione e la vanità a farlo finire pugnalato come Cesare. Hector Snipe (Dennis Price) porta lo stesso nome proprio del personaggio che Lionheart lo costringe a interpretare prima di ucciderlo – l’Ettore del Troilo e Cressida – e, peraltro, il suo cognome indica sia lo “sparare da un nascondiglio”, sia il “criticare da una posizione di sicurezza”: qui il bersaglio è nitido. 
Trevor Dickman (Harry Andrews), il cui cognome dice molto circa la sua vivacità sessuale, finirà in trappola – novello Antonio in una riedizione alquanto più sanguinosa, rispetto alla lettera del testo scespiriano, de Il mercante di Venezia – irretito proprio dalle grazie della figlia di Lionheart, complice del padre. Solomon Psaltery (Jack Hawkins) sarà vittima della propria gelosia – finendo con l’uccidere l’amata moglie, proprio come Otello, istigato da Lionheart/Iago – in un curioso gioco, ancora una volta legato al cognome, che rinvia al “salterio”, un antico strumento a corda, che basta pizzicare, affinché adempia al proprio compito. Col ghiottone Meredith Merridew (Robert Morley) – costretto a divorare i suoi adorati barboncini, in una macabra e spassosa riedizione del “fiero pasto” della regina Tamora nel Tito Andronico – forse, il gioco è diverso e un po’ più complicato, in quanto il cognome del personaggio corrisponde a quello del detective letterario creato (e molto amato) dal personaggio di Lord Andrew Wyke, interpretato da Laurence Olivier nell’ultimo film di Mankiewicz, Gli insospettabili (1972). Forse, quindi, uno sberleffo a un’icona assai diversa da Price, cioè il simbolo del grande teatro inglese e, non di rado, del cinema di serie A. (4)

4) Non si dimentichi, a tal proposito, come Price, invece, fosse stato il protagonista di uno dei primi film di Mankiewicz, Il castello di Dragonwick (1946), prima di passare il guado e approdare, di lì a qualche anno, sulla sponda dei B Movies, senza più riuscire, di fatto, a toccare nuovamente la sponda opposta. 

In realtà, tutto il film è un gigantesco campo da gioco dove l’estro del regista, quello degli ideatori del soggetto e della sceneggiatura e soprattutto quello di Price hanno libero sfogo di flirtare con Shakespeare, nonché di eludere, così come di moltiplicare indefinitamente i mutevoli riflessi della mise en abîme fra teatro e cinema, fra finzione e realtà, fra recitazione e immedesimazione dell’attore protagonista, grazie alle sembianze, continuamente identiche e cangianti, del viso e del corpo di Price, mai così a suo agio nel cambiare pelle e abito, nell’uscire e rientrare nei panni di personaggi tragici letteralmente sdrammatizzati grazie al suo acume recitativo, pur mantenendo tutto il peso del loro destino fatale.
L’attore americano si dimostra a proprio agio, peraltro, anche nei panni più prosaici, ma altrettanto riusciti, di un bobby, di un parrucchiere gay, di uno chef francese, interpretazioni queste, così come quelle più consone all’antico repertorio del suo personaggio, che hanno il pregio di ingannare sempre la polizia, nonché i suoi detrattori, moltiplicandone, di volta in volta, la sospensione d’incredulità.
Peraltro, alla riuscita dell’insieme contribuiscono in modo cospicuo anche due gruppi diversi di personaggi, oltre alla splendida presenza di Diana Rigg: i critici, da un lato, e gli homeless, presso cui il protagonista ha trovato rifugio, dall’altro. Per i primi andranno fatte alcune ulteriori precisazioni, per cui se ne riparlerà fra breve, mentre i secondi, oltre ad averlo salvato dalle acque del Tamigi, lo hanno poi accolto nella propria sgangherata comunità. Sotto l’effetto degli intrugli alcolici più repellenti e improbabili, si ergono a poco consapevoli complici dei suoi delitti e costituiscono il suo colorato pubblico, animando il suo personalissimo teatro delle ombre, simulacri di uomini che non sono più tali, così come egli non è più un attore anche se fa di tutto per sentirsi ancora sulla scena, ancora vivo uccidendo. Ma è tutta un’illusione, che oltretutto si riverbera e moltiplica, proteiforme gioco di specchi, grazie al conflitto fra attore e personaggio, nonché poi fra personaggio e figure da lui interpretate.
Là dove nasce l’illusione, cioè nell’interpretazione di Price, è anche là dove essa si esaurirà definitivamente, giacché così come Lionheart gioca a fare l’attore pur non essendolo più, Price gioca a fare l’attore scespiriano pur non essendolo (quasi) mai stato, anche se, forse, la verità più grande e malinconica emerge proprio da questa inestricabile serie di finzioni.
Nel finale, oltre che all’ultimo commiato di Lionheart dalle scene e dalla vita, non a caso interpretando Re Lear assieme alla figlia morente, (5) si assiste anche all’estremo saluto di Price a un mondo, quello della rappresentazione alta, del teatro (così come del cinema) considerato di livello, che non gli appartiene, che lo respinge come un estraneo. Dopo il magnifico e prolungato duello fra l’attore americano e i comprimari, tutti rigorosamente britannici (e tutti estremamente in parte nel lasciare spazio all’estro di Price), che interpretano i critici, duello che fino a quel momento aveva visto Price trionfare, giunge il momento della fine dell’illusione e dell’imporsi dell’infelice verità.
Lionheart ha preso prigioniero il rappresentante più illustre della giuria che gli rifiutò il premio, Peregrine Devlin (Ian Hendry), e lo minaccia di accecarlo (6) se non cambierà il suo responso nei propri confronti. L'uomo, però, ostinatamente rifiuta, intanto che sta per giungere la polizia, che porrà fine alla vicenda (salvando anche Devlin stesso), mentre Lionheart si getterà fra le fiamme del suo vecchio e ultimo teatro.

5) Nell’epilogo, quando Lionheart decide di uscire di scena incendiando il “suo” teatro, i suoi unici compagni di sventura, gli homeless, percepiscono istintivamente che la conclusione è vicina e si ribellano al loro “maestro”, colpendo a morte la figlia Edwina: chi gli ha restituito la vita, ora, simbolicamente, gliela toglie. 
6) Come accade al conte di Gloucester nel Re Lear, appunto.

Ecco, il rifiuto persistente di Devlin di ammettere le qualità di Lionheart costituisce la sanzione, anche simbolica, dell’impossibilità, per Price, sia di essere ritenuto meritevole di riconoscimento da parte di un critico snob, sia di poter essere considerato degno, in quanto americano, di recitare Shakespeare da parte di un inglese. L’unica qualità che Devlin/Hendry riconosce a Lionheart/Price è quella di saper “uscire di scena”, vale a dire di togliersi di mezzo; un malinconico epitaffio che decreta l’inafferrabilità di un mondo del quale sicuramente Price avrebbe meritato almeno un frammento.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into The Pit


Scheda tecnica

Titolo originale: Theatre of Blood
Anno: 1973
Durata: 104’
Regia: Douglas Hickox
Sceneggiatura: Anthony Greville-Bell
Fotografia: Wolfgang Suschitzky
Musiche: Michael J. Lewis
Montaggio: Malcolm Cooke
Interpreti principali: Vincent Price, Diana Rigg, Ian Hendry, Harry Andrews, Coral Browne, Robert Morley 

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RADIAZIONI BX: DISTRUZIONE UOMO - L’infinitamente piccolo 

14/7/2014

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“Se non accettano adesso le nostre condizioni, si possono aspettare una pioggia di distruzione dall’alto, come mai si è visto su questa terra.” Harry Truman, 33° presidente degli Stati Uniti, saluta così, il 6 agosto del 1945, l’annientamento nucleare della città nipponica di Hiroshima. Centinaia di migliaia di morti, per la maggior parte civili, sia durante l’esplosione, sia in seguito, a causa dell’esposizione alle radiazioni. Il 9 agosto, stessa sorte per Nagasaki.
Nel 1955, Dick Powell gira un film in costume sulla vita e le imprese di Gengis Khan: Il conquistatore. Protagonista è John Wayne. Parte della pellicola viene realizzata nel Nevada, ai confini col deserto dello Utah, zona di esperimenti atomici. Molti degli attori – fra cui anche Wayne –, degli operatori nonché il regista, nell’arco di una trentina d’anni, si ammaleranno e moriranno di cancro.
Niente sarà più lo stesso dopo l’avvento della minaccia nucleare, sotto la quale si tesseranno anche alcuni degli esili fili su cui si reggerà l’equilibrio mondiale all’epoca della Guerra Fredda. Tutto sta ineluttabilmente cambiando e anche l’uomo si percepisce come sempre più periferico, massificato, rimpicciolito.
Vi è una sorta di preveggenza e lungimiranza, in molto cinema e letteratura di genere, nell’horror e nella fantascienza in particolare, in grado di chiarire e amplificare, di cogliere e interpretare i segni del presente e di proiettarli nel futuro. Radiazioni BX (tratto dal romanzo The Incredibile Shrinking Man di Richard Matheson, che si occupa anche della sceneggiatura) riveste, in tal senso, un ruolo particolarmente rilevante, in quanto, pur prendendo le mosse da tale temperie e pur evidenziandone alcuni tratti pertinenti, riesce soprattutto a rielaborarne le coordinate, conducendo lo spettatore in un viaggio senza ritorno ai confini estremi delle proprie paure e angosce.
Scott Carey (Grant Williams) è un uomo davvero fortunato. È benestante, ha una bella moglie, una bella casa, abiti cuciti su misura con sopra ricamate le proprie iniziali, e può permettersi di scorrazzare per l’oceano, nel tempo libero, con il cabinato che il fratello di quando in quando gli presta. Tutto sembra procedere a meraviglia sino al giorno in cui, proprio durante una gita in barca, Scott incontra l’imponderabile: prendendo il sole, rimane esposto a una innaturale e densa foschia – in realtà una nube radioattiva – che gli lascia sul corpo una strana patina fluorescente.
Inizialmente, solo un po’ di stupore. Basta un asciugamano per rimuoverla. Nessun altro effetto visibile o riconoscibile. Dopo qualche tempo, però, comincia ad affacciarsi in lui un terrore sempre più insinuante e concreto. Le radiazioni a cui il suo fisico è stato sottoposto hanno iniziato ad agire segretamente, invisibilmente su di esso, conducendolo a ridursi in modo impercettibile, ma progressivo e irreversibile. La paranoia della Guerra Fredda, il terrore del cittadino americano di subire una sorte analoga – in una sorta di legge del contrappasso – degli abitanti di Hiroshima e Nagasaki, è sintetizzabile proprio a partire da questo ineguale e mostruoso rapporto fra macroscopico e microscopico. Quando Scott inizia a essere consapevole della mutazione che sta invadendo il proprio organismo, egli diviene una tragica sineddoche, ma anche un simbolo dello scarto che allontana inarrestabilmente l’essere umano dal mondo che egli sta costruendo (beninteso, producendo macerie).
L’energia atomica può generare effetti devastanti, inconcepibili e per molti versi incomprensibili per la mente umana, nella sua manifestazione macroscopica. L’esplosione di un ordigno nucleare è, probabilmente, uno degli spettacoli più agghiaccianti e annichilenti a cui un essere vivente può assistere. Ancor più inquietante risulta però l’effetto microscopico che essa induce. Il mondo organico non è in grado di fronteggiare le aberrazioni che la radioattività produce, e gli esiti che ne derivano non possono che condurre alla degenerazione dei singoli organismi e dell’ecosistema che li ospita. L’alterazione cellulare – causa dell’insorgere del mostruoso, del deforme e dell’informe – atterrisce e sgomenta forse ancor più che non la distruzione immediata e repentina. È su quest’ultimo aspetto che pone l’accento Radiazioni BX, originando un crescendo di angoscianti presagi, mano a mano che il protagonista decresce.

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Da un altro punto di vista, contiguo a quello appena esaminato, la pellicola di Jack Arnold istituisce una magistrale riflessione sociologica e antropologica, attraverso l’allegoria filmica. Il ventesimo secolo e l’alba del ventunesimo sono segnati da un’evoluzione tecnologica e scientifica senza precedenti. I macchinari, gli apparati e i dispositivi, che l’uomo costruisce per migliorare e in definitiva per estendere ciò che Heidegger definiva “il dominio tecnico sulla Terra” (1), piuttosto che accrescere la sua presa sulle cose, la rendono vieppiù malferma e incerta. L’universo tecnologico, anziché abbreviare la distanza fra uomo ed ente, la aumenta, creando di fatto un’ulteriore dimensione organizzata e strutturata, le cui leggi sono perversamente aliene rispetto a quelle che governano le naturali propensioni, le azioni, le mozioni e i bisogni antropici. 
Come sostiene saggiamente Mario Pezzella: “La vita organica sembra divenuta inferiore e meno perfetta di quella inorganica. L’uomo ha la percezione di non essere all’altezza dei propri stessi prodotti”. (2) Le prestazioni delle apparecchiature tecniche, non importa se militari o civili, implicano un’attenuazione dell’umano, che comporta una fondamentale e inevitabile disumanizzazione.

1) Martin Heidegger: Sentieri interrotti, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1968, rist. in “Paperbacks Classici”, p. 97.
2) Mario Pezzella, Il volto di Marylin. L’esperienza del mito nella modernità. Ed. manifestolibri, Roma 1999, p. 11.

Non si fermano qui, comunque, le suggestioni evocate da Radiazioni BX, giacché vengono anche intelligentemente sondati alcuni decisivi meccanismi nei rapporti esistenziali di Scott con i propri simili e col proprio ambiente domestico. Una volta che egli inizia a rendersi conto del rimpicciolimento progressivo del proprio organismo, la sua identità psicofisica inizia, ovviamente, a vacillare. Una delle prime reazioni che ha è guardarsi allo specchio. I suoi tratti somatici, però, non cambiano. Semplicemente, il suo corpo inizia a restringersi. Quando le sue dimensioni cominciano visibilmente a mutare, si modificano tragicamente anche le sue relazioni sociali e umane. Egli diviene lo zimbello di giornalisti a caccia di scoop, di vicini di casa curiosi nei confronti del novello freak, di emittenti televisive alla ricerca di un nuovo spettacolo, della moglie (anche se la cosa non viene esplicitamente dichiarata, soprattutto nelle ovvie implicazioni sessuali), che è costretta ad accudirlo come un fragile animale domestico. 
Infine è la casa, dapprima luogo di rifugio dalle disturbanti attenzioni del mondo esterno, a rappresentare per lui un ambiente sempre più vasto e inospitale. Nella fase centrale del film, è possibile osservarlo alle prese con un ambiente domestico sempre più fuori equilibrio, fuori asse. Un luogo costruito e concepito su misura si manifesta come sempre più smisurato. Ciò nonostante, l’abitazione rappresenta l’ultimo rifugio per il novello freak, in un mondo in cui chi non rientra nei canoni acquisiti di “normalità” costituisce un pietoso caso clinico, un fenomeno da baraccone o, peggio ancora, da rotocalco televisivo. Anch’essa, però, diviene via via sempre più estranea. Scott appare come un uomo-giocattolo in un edificio per giganti. Ogni singolo oggetto appare fuori scala rispetto a lui, anche se è proprio il protagonista a essere, appunto, fuori scala. (3) 

3) Per rendere credibile la trasformazione di Scott, il set viene allestito in modo tale da far apparire il protagonista Grant Williams sempre più piccolo, ponendogli accanto degli oggetti, dei mobili, delle suppellettili costruiti appositamente in una scala abnorme rispetto a quella normale e gradualmente sempre più giganteschi rispetto alle dimensioni dell’attore. Grant Williams diviene, in questo caso, l’unico vero “effetto speciale” sul set.

Quando Scott, alto pochi centimetri, alla fine del film, sta per avviarsi verso il proprio giardino, per lui una giungla impenetrabile, anche il percorso dell’uomo contemporaneo, simbolicamente, sta per compiersi: “Cos’ero? Ancora un essere umano? Oppure ero l’uomo del futuro?” si chiede Scott. Ecco, forse l’uomo del futuro – che però parla al passato, in voce over – altro non è che un estenuato sguardo su un infinito più facile da raggiungersi scomparendo.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into The Pit


Scheda tecnica

Titolo originale: The Incredibile Shrinking Man
Anno: 1957
Regia: Jack Arnold
Soggetto: Richard Matheson (romanzo)
Sceneggiatura: Richard Matheson, Richard A. Simmons 
Fotografia: Ellis W. Carter
Montaggio: Albrecht Joseph
Musiche: Foster Carling, Earl E. Lawrence
Durata: 78’
Interpreti principali: Grant Williams, Randy Stuart, April Kent, Paul Langton, William Schallert, Billy Curtis

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L’ULTIMO UOMO DELLA TERRA - La zona morta

30/4/2014

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Roma, quartiere dell’EUR, estate 1961: l’occhio di una mdp girovaga senza meta nei luoghi dove un uomo e una donna si sono dati appuntamento. Nessuno dei due vi si recherà. La mdp è libera, così, dall’incombenza di centrare il proprio sguardo sui due personaggi e sulla loro storia e si sofferma, semplicemente, a osservare: una donna con una carrozzina, edifici completati o in costruzione, tratti di vie deserte; poi un cavallo condotto da un fantino, un raro passante, delle inquadrature ravvicinate o dei campi lunghi dall’alto in cui regnano il vuoto, il silenzio o tutt’al più i rumori del vento o dell’acqua di un rigagnolo; un autobus deposita i propri passeggeri che si disperdono. Poi, come se i radi passanti fossero stati risucchiati da una forza invisibile, rimangono solo i luoghi, le strade deserte, un mondo senza più traccia dell’umano.
Antonioni chiude L’eclisse (1962) non solo escludendo dal finale i due protagonisti, ma addirittura eliminando ogni traccia di un’umanità sempre più tenue e alla deriva, creando un (non) luogo oltre i confini della realtà, un angosciante paesaggio liminare in cui i segni della civiltà sembrano vestigia di epoche remote.
Due anni dopo, esattamente negli stessi luoghi deprivati di ogni impronta antropica, lì dove il film di Antonioni si concludeva, inizia L’ultimo uomo della terra. Non sembrano trascorsi due anni, ma appena un giorno. Il sole sorge sul quartiere di una città fantasma (1), la mdp ritrova le stesse strade spopolate, gli edifici in costruzione, i palazzi ormeggiati in fila e poi, finalmente, gli esseri umani, o quel che ne resta. Alcuni corpi stesi sull’asfalto punteggiano le vie deserte. Un carrello laterale percorre una di queste vie fino ad arrestarsi di fronte a un’abitazione sulla cui porta si notano un crocefisso, uno specchio e una corona d’aglio. Stacco. L’occhio meccanico si avvicina al davanzale di una finestra oltre la quale, su un letto, è disteso un uomo addormentato.

1) Il quartiere dell’EUR, con le sue forme architettoniche ai confini con l’astrazione, ha titillato spesso la fantasia di svariati registi prevalentemente italiani. Alcuni esempi: dall’episodio felliniano di Boccaccio ’70 (1962) a Il boom di De Sica e I mostri di Risi (episodio I due orfanelli), entrambi del 1963, passando anche per il curioso La decima vittima di Petri (1965). Nel 1982, con Tenebre, anche Argento ne rimane affascinato. Nel 1999, Julie Taymor vi ambienta il suo Titus. Negli ultimi tempi troviamo invece, dal 2005 al 2010, Veronesi, Brizzi e Muccino far tappa nel quartiere romano... Tanto per fare un confronto con il nostro glorioso passato. 

Là dove il finale della pellicola di Antonioni caricava sullo spettatore tutto il fardello di uno sguardo sospeso in una vera e propria Zona – uno spazio svuotato di ogni significato topografico, in cui emergeva in primo piano il Tempo puro, privo quindi di ogni coordinata cronologica – il film di Salkow/Ragona (2) utilizza il tramite di un personaggio carismatico, Robert Morgan (interpretato, non a caso, dal sublime Vincent Price), sulle cui spalle grava tutto il peso di uno spazio sconfinato, che coincide con la totalità del pianeta: la terra intera è una Zona, una Zona morta. Non importa, quindi, neppure sapere dove la vicenda sia ambientata (3), dato che Morgan è l’ultimo individuo della propria specie e l’umanità è estinta. Forse. 

2) Caso felicissimo di opera di genere – ispirata comunque da un capolavoro della letteratura sci-fi come Io sono leggenda del (mai bastevolmente) compianto Richard Matheson – che viaggia contiguamente, come accennato, ai percorsi dell’autorialità più esposta e apprezzata, L’ultimo uomo della terra si guadagna, fin dall’inizio della realizzazione, la fama di oggetto misterioso e, nel tempo, di vero e proprio feticcio per cultori. Già è sufficiente l’incerta paternità della regia, assegnata, a seconda dell’edizione italiana o americana, a Ragona o a Salkow, a conferire, anche solo alla lavorazione di questo film, un’aura di unicità e mistero. Un altro aspetto enigmatico è costituito dai credits dell’edizione americana che attribuiscono a Matheson stesso (con lo pseudonimo di Logan Swanson) un contributo nella stesura della sceneggiatura. 
3) Il romanzo di Matheson è ambientato in una cittadina americana, mentre nel film le coordinate geografiche si perdono, dato che si notano elementi scritturali o segnaletici, inseriti nella diegesi, indifferentemente vergati in inglese o in italiano, oppure ascrivibili alternativamente all’una o all’altra cultura. Di certo l’ambientazione romana, sia pure in una zona moderna e a tratti avveniristica, lontana quindi dalle vestigia ataviche della civiltà latina, ha poco o nulla della provincia americana. 

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Fin dalla sua comparsa Morgan è l’unico fulcro della narrazione. In poche, intensissime inquadrature, lo spettatore viene messo al corrente di tutto ciò che c’è da sapere di essenziale su di lui. Dapprima il suono di una sveglia lo desta (segno di abitudine reiterata), poi lo si nota alzarsi ed entrare in una specie di soggiorno dove campeggiano vari calendari che vanno dal 1965 (dove è evidenziato il giorno 22 dicembre) al 1968 e sui quali i giorni trascorsi sono stati ossessivamente cancellati dal personaggio tramite una croce. Attraverso la voce over del protagonista stesso si apprende ciò che ne marca l’esistenza: “Dicembre 1965, da questo giorno ho ereditato il mondo. Sono solo tre anni e mi sembra più di un secolo”.
Il contrasto fra le azioni che Morgan compie e ciò che la sua voce evoca, cioè fra il suo vivere insensatamente giorno dopo giorno, contando, e l’infinità del tempo che lo aspetta, delineano i tratti fondamentali del protagonista. Egli è un ergastolano planetario e la prigione è costituita, appunto, dal mondo intero. A nulla valgono i suoi tentativi di mettersi in contatto, tramite una ricetrasmittente, con eventuali altri sopravvissuti. Le onde della ricezione conducono solo suoni gracchianti: nessuna risposta. Fuori dalle mura del suo rifugio lo attende ciò che resta dell’umanità, dopo una terribile epidemia che ne ha decimato i componenti, lasciando i superstiti quali stolidi umanoidi privati della scintilla dell’intelligenza, cioè di fatto dei predatori, le cui abitudini e pulsioni richiamano quelle del vampiro.
Un lungo flashback rievoca le tappe che hanno condotto l’umanità a essere sterminata da un aberrante morbo. Le autorità sanitarie mondiali sono in allarme per il diffondersi di una patologia, portata da un batterio sconosciuto, che non lascia scampo. Vanamente gli scienziati ricercano una cura. Morgan, che fa parte di un team di microbiologi, tenta anch’egli di arginare l’epidemia, ma senza successo. Si ammalano anche sua moglie e sua figlia. Là dove la scienza risulta impotente, inizia a farsi spazio la superstizione, il mito. Le autorità proibiscono alle famiglie di seppellire i propri cari, imponendo loro di consegnarli ai militari, affinché i cadaveri siano bruciati. Il mondo sembra fare un salto indietro di parecchi secoli, per tornare ai tempi della peste e dei monatti. Inizia a circolare la voce – anche fra coloro che hanno eletto la razionalità a unica guida, come Sam Cortman, collega di Morgan e suo amico – che i morti ritornino in vita sotto forma di vampiri. Morgan capirà solo quando sua moglie, dopo essere stata da lui seppellita, tornerà a fargli visita pallida, esangue e alla ricerca della vitale emoglobina. L’homo sapiens scompare e la terra viene così colonizzata da una nuova e al contempo originaria razza di predatori, che non esitano a nutrirsi dei loro simili, in una lotta selettiva dove solo i più forti sopravviveranno.
Morgan resiste come unico superstite della sua specie, senza contrarre il morbo, perché il suo sangue è miracolosamente immune e questo lo rende forte, sano e spaventosamente solo. La voce over continua del personaggio, in forma di flusso di coscienza, rimarca, a un tempo, la centralità del suo punto di vista nel racconto filmico e il fluire del suo pensiero senza possibilità di dialogo, dato che egli non ha interlocutori. I vampiri che vengono tutte le notti a perseguitarlo, fra cui si annida anche Sam Cortman, il suo amico di un tempo, non sono altro che bestie feroci con sembianze umane, che biascicano il suo nome come un mantra per cercare di ipnotizzarlo. Solo il loro involucro corporeo richiama alla mente la matrice della loro origine ormai dispersa come sabbia nel vento.
Perciò Morgan risulta anche l’ultimo depositario della memoria collettiva della specie umana, una memoria che è diventata individuale e che scomparirà per sempre se altri non saranno pronti a raccoglierla e a custodirla. Chiuso nel suo rifugio di notte, protetto dai simboli apotropaici di antiche, arcane superstizioni, come la croce, l’aglio, gli specchi (4), di giorno Morgan uccide. La gran parte del suo tempo diurno è dedicata a scovare i revenant nei loro rifugi e impalarli, per poi arderli nella grande cava fumante dove, tre anni prima, i cadaveri dei primi contagiati avevano iniziato a essere gettati per tentare di arginare l’infezione.

4) Contrariamente alla più diffusa vulgata del vampiro, la cui immagine non può essere riflessa da alcuna superficie, nel film di Salkow/Ragona i non-morti vedono la propria immagine sugli specchi e non riescono a sopportarla, ne hanno orrore, forse perché vi scorgono i lineamenti di una specie vivente a cui non sentono più di appartenere.

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Uccidere vampiri metodicamente rende il protagonista però anche un grottesco e tragico genocida, un duplicato abnorme del bacillo che aveva sterminato l’umanità, dato che egli, in piena coscienza oltretutto, agisce con l’unico scopo di sterminare la nuova specie padrona del pianeta. Il nuovo flagello si chiama Robert Morgan. Per il protagonista si tratta però anche e soprattutto di sopravvivenza, non solo fisica, ma anche psicologica. In un mondo regredito allo stadio primordiale dell’homo homini lupus (anche se, paradossalmente, l’ultimo e unico uomo autentico rimasto è proprio Morgan), l’unica speranza per chi resta è uccidere i propri nemici e difendere il proprio territorio nonché la propria identità, anche perché a Morgan non rimane nemmeno l’estrema possibilità di diventare uno di loro, visto che è immune al contagio: egli, oltre a non volere, non può diventare parte della nuova collettività che assomiglia sinistramente a un branco.
La missione che egli ha deciso di svolgere ha però anche un significato intensamente psicologico per il protagonista, giacché, nell’attesa di un evento risolutore, egli tiene impegnate le proprie giornate attraverso uno scopo. L’organizzazione del proprio tempo risulta fondamentale per l’uomo civilizzato, ecco perché Morgan concepisce la propria attività di sterminatore di vampiri come un lavoro. Nel suo laboratorio fabbrica i paletti per impalare i non-morti, e sulla piantina della città organizza la caccia, quartiere per quartiere, mentre il resto del tempo lo trascorre nel suo rifugio ad aspettare che un nuovo giorno cominci: l’arte di sopravvivere.
L’incontro, dapprima con un cane (che però Morgan è costretto a sopprimere, dato che l’animale è affetto dal male), poi con una donna (Franca Bettoja) sembrano risvegliare il desiderio del protagonista di vivere autenticamente, di prendersi cura finalmente di qualcuno al di fuori di sé. La speranza sembra tenuta desta anche dal fatto che l’incontro con la giovane avviene di giorno, nel periodo cioè in cui i vampiri, indeboliti, riposano. Morgan è costretto però a ricredersi, quando, dopo aver esaminato il sangue di lei, riscontra tracce del bacillo. Scoperta doppiamente terrificante, giacché le speranze del nostro di essersi imbattuto in un altro essere umano sembrano naufragare, insieme all’inviolabilità della propria dimora.
La donna si schermisce, spiegandogli la sua provenienza da una comunità di sopravvissuti, che, anche se contagiati, hanno scoperto un antidoto per bloccare, sia pure senza debellare, la malattia. Il suo scopo è quello di prendere contatto con Morgan e di svelare se egli abbia rinvenuto un vaccino più efficace del loro. Morgan ha allora l’illuminazione folgorante che aspettava da tempo: inietterà il proprio sangue immunizzato nelle vene della donna per vederne la reazione.
L’esperimento funziona, la donna guarisce; Morgan non solo ha trovato, ma è diventato il nuovo vaccino. È però troppo tardi, perché i compagni di lei si avvicinano alla dimora di Morgan a notte inoltrata e, dopo aver sterminato i vampiri che l’assediano, iniziano a dargli la caccia. L’emersione di questa seconda comunità di ibridi che non sono né del tutto umani né del tutto vampiri rimescola le carte, gettando una luce ancora più fosca su un orizzonte già estremamente sinistro. La nuova razza (che aspira a essere) padrona ha deciso di riscrivere da zero la storia dell’umanità distrutta e, come ogni racconto originario, sarà una storia scritta con il sangue, anche quello sano, ma vecchio, di Morgan.
Lo sterminio dei vampiri, davanti all’abitazione del protagonista, ha il sapore di una spedizione punitiva da regime totalitario. L’uccisione del protagonista sull’altare della chiesa in cui si è rifugiato è un vero e proprio rito sacrificale. Scompare l’ultimo uomo della terra e con lui, forse, la possibilità per chi rimane di ritrovare la propria umanità. In ogni senso.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into the Pit


Scheda tecnica

Anno: 1964
Durata: 85’
Regia: Ubaldo Ragona, Sidney Salkow (ed. USA)
Soggetto: tratto dal racconto I Am Legend (1954) di R. Matheson
Sceneggiatura: Furio M. Monetti, Ubaldo Ragona, Logan Swanson (alias R. Matheson, ed. USA)
Fotografia: Franco Delli Colli
Musiche: Paul Sawtell, Bert Shefter
Montaggio: Franca Silvi, Gene Ruggiero (ed. USA)
Interpreti principali: Vincent Price, Giacomo Rossi-Stuart, Franca Bettoja, Emma Danieli

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CARNIVAL OF SOULS - L'incubo invisibile

8/4/2013

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Realizzato nel 1962 e diretto da Herk Harvey, Carnival of Souls uscì con una destinazione ben definita: il circuito dei drive-in, in cui erano proiettati B-Movies a basso costo, spesso con un double bill nel corso della stessa serata. Il lavoro di Harvey, per le caratteristiche che tra poco andremo a spiegare, non ottenne però un gran successo: sparì quasi subito dalla programmazione, e venne dimenticato a lungo, prima di essere recuperato, restaurato e redistribuito in sala nel 1989. Un oblio eccessivo, che non rende merito a un film interessante, inquietante, capace di anticipare soluzioni narrative che sarebbero poi state riprese in abbondanza da molte pellicole uscite nei lustri a venire.
La trama ruota intorno alla figura di Mary, organista che un giorno subisce un brutto incidente d'auto, precipitando nel lago insieme alle amiche. I soccorritori la credono morta, ma quasi per miracolo Mary riemerge dalle acque, sana e salva. Poco dopo la ragazza si dirige verso una piccola cittadina dello Utah, dove è stata assunta per suonare l'organo nella Chiesa locale; giunta sul posto, inizia però a essere preda di angoscianti visioni e inspiegabili allucinazioni che la inducono progressivamente a perdere contatto con la realtà.
Attraverso scelte stilistiche coraggiose e non proprio adatte al pubblico di massa, Harvey opta per una messinscena lenta, ipnotica, melliflua, costruita allo scopo di immergere con gradualità lo spettatore nei sentieri incubali di cui è vittima la sua protagonista. 
Figura di donna misteriosa e seducente, Mary naviga su territori assai lontani rispetto a molte eroine dell'horror: anziché cercare il contatto umano quale primaria fonte di salvezza, la ragazza compie un percorso opposto, rifiutando ogni aiuto, in una disperata dimostrazione di forza ed emancipazione: sdegnata dall'amore fisico e spirituale abbraccia la sua solitudine, scivolando passo dopo passo nelle spire del terrore in una malcelata e sorprendente misandria (ovvero l'avversione istintuale verso il genere maschile). 
Eppure, poco alla volta, l'indipendenza di un'anima alla continua ricerca dell'affermazione di sé non può che crollare di fronte all'incedere traumatico degli eventi: Mary è preda di deliri sempre più frequenti, vede ombrose figure di uomini in stato cadaverico, crede di essere inseguita e perseguitata, e giunge fino al punto di "smaterializzare" il proprio corpo, entrando in una dimensione parallela in cui, oltre a smarrire l'udito, risulta lei stessa invisibile al resto dell'umanità. Soltanto a quel punto si decide a cercare conforto presso il vicino di stanza che le fa la corte; ma forse sarà troppo tardi.Per rispetto nei confronti di chi non avesse visto il film, evitiamo di svelare la risoluzione dell'enigma; anticipiamo solo, come già accennato, che l'idea principale sarà poi ripresa nel cinema contemporaneo da pellicole famosissime (e talvolta assai sopravvalutate). Un pregio notevole per Carnival of Souls, e non il solo: pur con qualche lentezza eccessiva, infatti, il lavoro di Harvey si avvale di soluzioni visive strepitose (l'uscita iniziale di Mary dall'acqua con i piedi immersi nel fango, le improvvise apparizioni dei suoi inconcepibili persecutori, la totentanz a velocità accelerata nel luna park abbandonato), e si dota di una protagonista, Candance Hillgoss, azzeccata e funzionale nella sua interpretazione oscillante tra risolutezza, ingenuità, candore e spasmi di terrore. Notevole, inoltre, l'utilizzo del sonoro, grazie al quale si crea una mescolanza di musiche diegetiche ed extradiegetiche: una sinfonia complessa e stordente, che accompagna le sinestesie dominanti nella seconda parte dell'opera.
Ubriacante, tagliente, beffardo, polanskiano ante-litteram, Carnival of Souls costituisce un bell'esempio di horror low budget, in cui nascondere le eventuali pecche strutturali attraverso le idee e la fantasia. 
Nel 1992 è uscito un insulso e inutile remake, prodotto da un Wes Craven che già allora stava imboccando la strada del successivo stordimento senile. L'originale in bianco e nero è invece da non perdere.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Into the Pit


Scheda tecnica

Titolo originale: Carnival of Souls
Anno: 1962
Regia: Herk Harvey
Sceneggiatura: John Clifford, Herk Harvey
Fotografia: Maurice Prather
Musiche: Gene Moore
Durata: 84'
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Candace Hilligoss, Sidney Berger, Frances Feist, Art Ellison

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