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TURNER - Un "fiammeggiante firmamento"

27/1/2015

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Joseph Mallord William Turner (1775-1851) è certamente uno dei pittori più cinematografici di tutta la storia dell’arte, e i suoi lavori ci appaiono oggi assolutamente moderni, ben più vicini alla nostra sensibilità che a quella dei contemporanei di Turner stesso. 
La sua arte è cinematografica proprio perché, attraverso i moti saettanti di una pittura più viscerale che in passato, riesce a segnare il passaggio dal cosiddetto setting - il paesaggio che al cinema (e in pittura) serve come semplice riempitivo o fondale per l’azione principale - al landscape, una veduta che è invece psicologizzata e connotata in modo netto, che agisce sull’immagine come un personaggio aggiunto, maggiormente costruito e pensato, nonché come uno spazio storico e narrativo che stritola l’uomo e la sua piccolezza. Riportandolo, tra le altre cose, alla condizione di subalternità rispetto alla natura che egli merita e che più gli si confà. 
Lo si nota in molti dipinti di Turner in cui l’uomo è sempre sopraffatto e marginalizzato, e in particolare in Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi, un quadro cui nel film è dedicata una gustosissima sequenza: una scena che dà anche tanto da pensare sulle prerogative della profondità di campo al cinema, ovvero sulle sue potenzialità decisive per stabilire le relazioni tra le cose e le gerarchie di senso tra i singoli componenti di un fotogramma. 

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Turner anticipa l’impressionismo proprio perché associa la pittura a un colpo di coda dell’animo, a uno slancio istantaneo che può tradursi anche in un approccio fisico estremo, come uno sputo sulla tela o un gesto energico e ferino del pennello. Elementi pittoreschi, certo, ma inevitabilmente rivelatori di una personalità, di un modo non solo di vedere ma anche di agire. 
Non è un caso dunque che Mike Leigh, nel suo biopic su uno dei protagonisti più iconici dell’arte britannica, si soffermi proprio sull’uomo, con tutto il suo corredo di misantropie, mugugni, bestialità e insensibilità diffusa. Non certo per voyeurismo, né tantomeno per morbosità. Ma perché il regista inglese, da fine scrutatore dell’essere umano qual è sempre stato, sa che non c’è niente di meglio della parabola personale per raggiungere uno spessore che parta dal particolare per approdare all’universale, arrivando ad abbracciare le implicazioni storiche, antropologiche e sociali che i veri geni sanno imprimere sul corso dei segmenti di Storia che attraversano in prima persona. 
Turner, nella fattispecie, fu cantore dello spazio e del sentimento, dell’innegabile aleatorietà della percezione umana di fronte allo spettacolo temibile della natura. La sua pittura traghetta il mondo dall’illuminismo, con le sue incrollabili convinzioni, a un più smosso e interrogativo romanticismo, che come tale si attacca al rimosso e all’inconscio, al non detto e al non spiegato. È l’uomo prima dell’artista, insomma, a reclamare un fisiologico bisogno d’oscurità, di ripiegamento su se stesso, di solitudine creativa in cui la luce è sempre esterna e altro da sé. Studiarla e accarezzarla perdendosi nelle pieghe fotoniche del creato e delle sue meraviglie, come fece Turner, non può allora non costringere, per contrasto, a guardare i propri fantasmi interiori e le proprie zone d’ombra. Un’idea che quest’immagine del film ci restituisce appieno, in modo incredibilmente plastico. 
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Il film di Leigh è un’opera densa e originale che si concede i suoi ritmi e un’andatura particolare, anche per quel che riguarda il ritmo del montaggio, piuttosto insolito nella sua ostentata tendenza al claudicante, al frammentario, allo scorcio. La splendida fotografia di Dick Pope gioca sul terreno dell’emulazione, è vero, ma anche l’andamento del film riflette una spiccata vocazione immaginifica. 
Vedendo Turner si ha infatti la sensazione di essere in presenza di un film dallo spirito antico, ricercato e calibrato al millimetro, come se qualcuno nell’atto di realizzarlo avesse esitato davanti a una tela bianca prima di scegliere che colori adoperare e che tasti toccare (si spiega in questo modo una mezz’ora iniziale che è meno incisiva e più circostanziale, come un dipinto in fase preparatoria, ancora rozzo e abbozzato). Non stupisce che a fare tutto ciò sia stato un regista come Mike Leigh, autore da sempre sensibile e attento, un acuto narratore dell’inadeguatezza che non può calzare benissimo a una figura fragile, goffa e disadattata quale fu quella di Turner: il risultato è un ritratto in cui l’emotività si congiunge a certe derive sgraziate e animalesche, tessendo un arazzo pieno di contraddizioni. E, in quanto tale, profondamente interessante, perché non teme il solipsismo, non arretra dinanzi alle tonalità più colorite e infuocate come a quelle più fosche e cupe. 
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Perché Turner, così come l’arte di Turner stesso, con un’identificazione su un doppio livello che rende il film di Leigh un capolavoro preziosissimo, parla proprio di questo: di contraddizioni come principio fondante di un mondo che perde la purezza originaria e accoglie dentro di sé i contrasti della modernità, della velocità ad ogni costo, dei rapporti problematici tra le persone, di una maniera meno rasserenata di vivere la collettività con i doveri sociali che essa comporta. 
Il Turner di Timothy Spall, caricaturale ma eccezionale, quando parla del colore, lo descrive come qualcosa di “sublime e contradditorio, eppure armonioso”, riconducendo gli opposti alla necessità di un equilibrio che consenta tuttavia di guardare oltre, di più e meglio (dando forma all’informe proprio per mezzo del colore, altro che “prendere congedo dalla forma”, come una detrattrice di Turner riferisce nel film). Uno sguardo auspicabilmente migliore e più sottile che anche le opere dell’artista invitano a far proprio, focalizzandosi su dettagli all’apparenza marginali ma in realtà portatori di un senso sia concettuale che emozionale, come se, passando alla fotografia, fossimo dentro alla concezione barthesiana del punctum teorizzata ne La camera chiara. 
Un’arte nuovissima, la fotografia, che, come il film documenta a chiare lettere, in una scena ironica ma di grande impatto storico, suscitò in Turner un misto di scetticismo e fascinazione. Probabilmente perché il pittore intuì le possibilità del dagherrotipo, corrispondenti alla forza dirompente con cui il mondo stava cambiando per non essere più lo stesso (Turner fu testimone della rivoluzione industriale e appassionato osservatore-riproduttore di treni e di battelli). E i cambiamenti, si sa, spesso più che entusiasmare chi li vive finiscono con l’atterrirlo e lasciarlo spaesato, perché non c’è e non ci può essere consapevolezza o distanza storica, quando si è invischiati direttamente in qualcosa con questa prossimità. 
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Turner di Mike Leigh, oltre alla pienezza delle molteplici riflessioni che propone (e che meriterebbero perfino ulteriore spazio, specie a proposito del finale del film, silente e cristallino nella sua umanissima poesia), ribadisce il bisogno tutto contemporaneo di biopic possibilmente differenti dalla media hollywoodiana, più intricati e scorbutici, capaci di lanciare domande a ripetizione sul pubblico e non limitarsi a essere cartoline agiografiche, enfatiche o retoriche. 
Con gli artisti tutto ciò è più facile, con gli scienziati (e con i militari di guerra), decisamente meno: basta confrontare l’esito artistico di Turner a opere di strettissima attualità cinematografica e dal taglio ben diverso come The Imitation Game, La teoria del tutto o a un altro film in uscita, Unbroken di Angelina Jolie. Il Turner di Spall in una scena del film contrappone dopotutto la disarmonia della tavolozza alla perfezione granitica del prisma, praticamente arrogando all’arte il compito di rispecchiare le contraddizioni e gli squilibri dell’umanità quasi in opposizione alla scienza, che il “fiammeggiante firmamento” di cui parla Turner non può che raccontarlo in un altro modo. Con più certezze, altrettanto necessarie, ma forse un filo meno umane e più imbavagliate dall’obbligo della santificazione e della dimostrazione rigida. Almeno al cinema.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Mr. Turner
Anno: 2014
Regia: Mike Leigh
Sceneggiatura: Mike Leigh                                                                                                        
Attori: Timothy Spall, Dorothy Atkinson, Marion Bailey, Paul Jesson, Lesley Manville 
Fotografia: Dick Pope
Montaggio: Jon Gregory
Durata: 150’
Uscita italiana: 29 gennaio 2015
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