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EFFETTI COLLATERALI - Ambiguità e inconsistenza

4/5/2013

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Steven Soderbergh è un equilibrista vorace, un pendolo che ama oscillare tra le connotazioni più mainstream del prodotto hollywoodiano e un cinema dalla levigata impostazione formale, animato in profondità da echi assai più personali. Una natura impalpabile che da sempre coesiste nella sua filmografia, equamente divisa tra rantoli indipendenti e film allineati a parametri spendibili sul mercato. Quasi che il regista di Atlanta volesse puntualmente decostruire, nelle sue opere più ricercate e calibrate, i meccanismi di oliata convenzionalità imbastiti nelle sortite meno autarchiche del suo cinema: il risultato è una non telefonata e continua riflessione sul linguaggio cinematografico e le sue strutture interne, in cui gli ingranaggi che l’animano e i pilastri compositivi che lo sorreggono sono quasi a priori messi in discussione in sortite regolari che di volta in volta spiazzano, provocano, convincono, fanno arricciare il naso, irritano. A seconda dei casi.
Perché Steven Soderbergh, diciamocelo, tra le tante cose è anche un autore terribilmente discontinuo e alterno, che usa Hollywood come un bersaglio totemico rivolgendovisi con fortissima ambiguità: da un lato ne costituisce indubbiamente una voce interna (pur con tutti i vezzi di riconsiderazione linguistica che il suo cinema porta con sé), ma dall’altro ne manipola e ne deforma le linee guida con il proposito sotterraneo di approdare a una forma corroborata e a sé stante di cinema autonomo e autosufficiente, dal cuore intimo ed eminentemente teorico sul glorioso modello godardiano (del regista di Pierrot le fou Soderbergh, per sua stessa ammissione, ha non a caso visto quasi tutto il visibile). Una volontà precisa coincidente con una palese dichiarazione di poetica, che però col tempo è suo malgrado venuta a coincidere sempre più con involucri di esclusiva patina e maniera, assai lontani dalla sostanzialità di un discorso filmico vero e proprio. 
Non fa eccezione l’ultimo Effetti collaterali, thriller (???) psicologico visto all’ultima Berlinale e ora uscito nelle sale, che corona il declassamento di livello dell’ultimissimo Soderbergh. Un abbassamento consumato nel dittico letale di titoli quali Knock-Out e Magic Mike, che sono succeduti all’ottimo Contagion, di sicuro l’ultima grande opera del regista di Traffic, in cui l’ossessione per il contagio diventava nube psicotropa in grado di azzannare lo star system con rara e feroce lucidità dissacratoria (Kate Winslet fatta fuori in un battibaleno, per dire) e farsi specchio del contemporaneo. Cosa che in Effetti collaterali, nonostante dispiegamenti d’idee non da poco, non avviene mai. 
La protagonista del film, Emily (Rooney Mara), è una giovane donna che dopo la scarcerazione del marito (il belloccio Channing Tatum), accusato di insider trading, sprofonda in una depressione che la porta sull’orlo del suicidio. Interviene allora lo psichiatra Jonathan Banks (Jude Law) che la prenderà in cura somministrandole un nuovo psicofarmaco dalle conseguenze tutt’altro che innocue. 
Oltre alle inquadrature studiate tipiche di Soderbergh, lattiginose, sgranate e caratterizzate da una fissità ovattata e barbosa che in questo caso fa sembrare macroscopica perfino una minuscola variazione sul (sonnacchioso) tema della regia, Effetti collaterali ha in comune con Contagion anche l’uso strumentale del protagonista Jude Law, costretto a una sottilissima operazione di mediazione dai margini angusti e dall’attuazione ancor più delicata. Ancora una volta ago della bilancia, termometro e controllore ultimo di un microuniverso che sta per imboccare la via definitiva e senza ritorno della follia. Un (anti)eroe ambiguo e addensato di ombre sul più lapalissiano dei modelli hitchcockiani, un canovaccio psicologico e pragmatico che si prova qui a rinnovare ma con un’imbolsita e fallimentare assenza di vigore. 
La ricerca di verità del suo personaggio, ben più interessante di una poco credibile ma comunque brava Rooney Mara (annegata tra follie, dimenate, gridolini e un’improbabile deriva lesbo con una Catherine Zeta-Jones in soggiorno premio), è infatti annaspante e incespicante tanto quanto lo sguardo di Soderbergh, la cui ispirazione pare ormai tagliuzzata dalle cesoie di un’estetizzazione troppo invasiva, vulnerabile e ripiegata su se stessa. Una narcisistica autoindulgenza che disinteressa e aliena lo spettatore e ancor prima distoglie regista e interpreti dal vero obiettivo, dando luogo a un esito che finisce con l’essere solo paracool, denso più di specchietti per le allodole e vane traiettorie subdole che di autentica sostanza. 
La denuncia farmacologia è pretestuosa esattamente come la regia intellettualmente squadrata, alla stregua della montatura di Soderbergh, e la sceneggiatura dal canto suo si arrotola ben presto, incartandosi in delle isole di racconto che provano a fare il punto ma peggiorano solo la situazione. A un certo c’è addirittura un accoltellamento, inserto assassino a dir poco fuori posto. Il tutto mentre il compiacimento è alle stelle e i movimenti di macchina inseguono De Palma e un certo cinema in interni dei Coen, modelli lontani anni luce per un film disarticolato anche dal punto di vista derivativo. Lasciasse dopodomani il cinema come più volte minacciato, questo Soderbergh non ci mancherebbe affatto. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Side Effects
Anno: 2013
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Scott Z. Burns
Fotografia: Peter Andrews
Musiche: Thomas Newman
Durata: 106’
Interpreti principali: Rooney Mara, Jude Law, Catherine Zeta-Jones, Channing Tatum

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