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THE ELEPHANT MAN - Sono un uomo

10/10/2013

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Potrei raccontarvi di una notte nebbiosa, con viaggi in auto e dolori improvvisi e lancinanti al dente del giudizio; una notte di gonfiore al viso, di deformità, della mia gratuita osservazione “Sembro the elephant man!”. E invece è di mostri che voglio parlare, mostri con un nome, gente che non si poneva il problema di un lieve gonfiore alla guancia.
C’erano quei Freaks di Tod Browning, per citarne alcuni. Quelli che prendevano il pubblico per lo stomaco: la pinhead Schlitzie dalle innocenti vanità di bambina, il Prince Randian che aveva imparato a sopravvivere usando solo la bocca. Fuori dallo schermo, c’era l’impossibile felicità per Julia Pastrana e l’obiettivo spregiudicato di Diane Arbus sempre a caccia di umanità dimenticata. Oggi ci sono trasmissioni scioccanti a ora tarda, trionfo di medici che scuotono il capo. C’erano le carovane del circo per gli inavvicinabili mostri, ieri. Oggi c’è la credenza, propria di alcune culture, che un’inficiante deformità sia il segno di Dio. O del demonio. Da correggere in sala operatoria.
Nel 1862 nasceva un uomo di nome Joseph Merrick, malato di neurofibromatosi: il suo viso deturpato e il corpo deforme gli valsero il soprannome di uomo elefante. Lo stesso imprigionato da Sir Frederick Treves in un romanzo. Lo stesso che David Lynch si propone di raccontare in un film che scansa accuratamente il baratro del patetismo e sceglie di mettere a fuoco la semplicità dei sentimenti.
Merrick (John Hurt) è uno dei mostri da osservare sfilando fra le gabbie, un errore di natura, proprietà esclusiva del laido e crudele Zampanò della situazione. L’uomo elefante avrebbe vent’anni se vivesse fuori dall’inferno circense, se avesse un viso pulito e un motivo per sorridere.
Esposto come une bestia rara, Merrick attira l’attenzione del medico Treves (Anthony Hopkins). Agli occhi di questi, il ventenne è un caso clinico tutto da studiare per amore di carriera. Viene preso, Merrick, e portato in una stanza d’ospedale. Strappato alla meschinità del suo padrone e gettato sotto il telescopio di uno scienziato dai modi gentili. 
Non è amicizia, in principio. È una stanza dove l’uomo elefante può sistemare se stesso e il carico leggero della propria personalità inespressa. Un luogo in cui rinascere, per scoprire quel ragazzo che la natura ha punito con lo sfregio: un luogo di piccoli cassetti, abiti puliti, pezzetti di carta, finestre che scrutano la luna, dialoghi con Dio. 
Ben presto la natura di Merrick emerge e toglie il fiato. La sua gentilezza, quel suo timido ottimismo di fronte alle strettoie della vita, quella gratitudine dirompente e quasi infantile, fanno pericolosamente oscillare le rigide ambizioni del medico. "Sono un uomo buono o un uomo cattivo?" chiede il dottor Treves, ora che la farfalla che studiava con la lente d’ingrandimento ha rivelato un cuore. 
È un uomo buono, Treves. Risponde all’affetto di Merrick col dono impagabile dell’amicizia. L’uomo elefante ora è solo un uomo. Sono un uomo, affermerà lui stesso davanti al raccapriccio di una bambina che lo guarda in viso. Solo un uomo – almeno a parole - anche per quella stampa famelica e rumorosa che vuole accendere un nuovo, opprimente riflettore sulla diversità. Un fenomeno fuggito al baraccone per divenire nuova attrazione della società vittoriana. Tutti, inclusa la bella attrice Miss Kendall (Anne Bancroft), vogliono fregiarsi della conoscenza con l’uomo elefante. E non manca chi, dall’ombra, medita di soffocarlo nuovamente fra gli infidi tentacoli del circo. 
Spettacolo e mostruosità in un film maestro di delicatezza, a cominciare dalla scelta di quel romantico bianco e nero che attutisce il senso di orrore e sfuma dolcemente il contorno ai ricordi. Merrick, rinato uomo a vent’anni, osserva dalla finestra la punta del campanile della cattedrale e chiede alla fantasia di regalargli l’immagine del monumento per intero. Gradualmente riproduce quel modellino con la carta dando vita a una piccola costruzione perfetta, prodigio di mani attente. Via via che la cattedrale si completa Merrick esplora il suo inconscio, trovando l’uomo che l’elefante ha cercato di schiacciare, il ragazzo che può tornare a galla respirando.
Questo classico firmato Lynch non si presta alle consuete dietrologie del caso: è una preziosa storia di umanità, la cronaca fedele di una diversità che va impugnata e non subita, una vicenda semplice di amici che si tendono la mano, una fotografia nitida di società adorante e al contempo recalcitrante di fronte a ciò che è difficilmente omologabile. È soprattutto la storia di una cattedrale di carta, che rivela la maestosa grandezza di mura sconosciute sotto la prua solitaria di un campanile. Storia di identità ripescata a fatica. E ricostruita. Desiderata sino al pericoloso eccesso.
A tutte le farfalle prigioniere di una lente va il mio pensiero. A Schlitzie, a Prince Randian, a Julia Pastrana, a Joseph Merrick.

In onda su Iris, lunedì 14 ottobre, ore 23.25.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: The Elephant Man
Anno: 1980
Durata: 123'
Regia: David Lynch
Soggetto: Sir Frederick Treves, Ashley Montagu
Sceneggiatura: Christopher De Vore, Eric Bergren, David Lynch
Fotografia: Freddie Francis
Montaggio: Anne V. Coates
Attori: Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft, John Gielgud

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