ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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FISH TANK - Sete di libertà

8/7/2016

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L'irrequieta adolescente Mia (Katie Jarvis) vive con la madre Joanne (Kierston Wareing) e la sorellina Tyler (Rebecca Griffiths) in un caseggiato popolare della periferia inglese. In guerra col mondo intero, in lotta contro tutto e tutti, non frequenta la scuola, insulta e picchia le coetanee, litiga con i familiari e trascorre le giornata gironzolando per il quartiere. Come un pesce imprigionato in un acquario (da qui il titolo del film, Fish Tank), procede a tentoni alla ricerca di uno scopo che la salvi dallo squallore quotidiano e da una condizione verso la quale prova solo odio e disprezzo. Una vecchia cavalla bianca, che pascola accanto a una carovana di gitani, diventa il simbolo della sua sete di libertà (tanto che rischierà di mettersi in guai seri nel tentativo di slegarla). 
Mia sembra placare la rabbia sorda che cova dentro di sé soltanto quando balla in una stanza vuota musica hip hop; la danza rappresenta l'unico elemento in grado di destare in lei un barlume di vitalità, una pulsione/passione positiva in un mare di indifferenza e insofferenza. Del resto, la svampita Joanne pare comunque più interessata a collezionare amanti disadattati che al benessere delle figlie e, purtroppo, anche la piccola Tyler sta intraprendendo lo stesso percorso della sorella maggiore. 
Le cose cambiano all'arrivo di Conor (Michael Fassbender), nuova fiamma della madre, che da subito mostra attenzione per le due ragazze, le quali lamentano la mancanza di una figura paterna che si prenda cura di loro. Ma, se l'uomo conquista all'istante Tyler con un paio di sterline e un giro in macchina, il suo rapporto con Mia non inizia nel migliore dei modi: sceso in cucina dalla stanza di Joanne, si imbatte nell'adolescente mentre sta danzando di nascosto e lei, piena di vergogna, lo aggredisce verbalmente. Nonostante le pessime premesse, Conor non si fa intimorire dall'ostilità della giovane, incoraggiandola invece a partecipare a un'audizione. Per la prima volta, Mia conosce qualcuno che desidera davvero esserle d'aiuto e starle vicino. Così, un passo alla volta, la sua barriera difensiva scricchiola e finisce per sgretolarsi, con conseguenze disastrose. L'attrazione morbosa, ricambiata, nei confronti del compagno della madre acuirà la già insostenibile rivalità con quest'ultima e causerà una serie di eventi tragici dai risvolti inaspettati.

Fish Tank, seconda opera della regista britannica Andrea Arnold, già autrice del lungometraggio Red Road e di alcuni corti (tra i quali va ricordato Wasp, Oscar nel 2005), si è aggiudicato il Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 2009, riconoscimento già vinto nel 2005 proprio con Red Road e riconquistato quest'anno con American Honey.
Con Fish Tank la Arnold batte sentieri già esplorati da Ken Loach e racconta la storia di un'adolescente inquieta, ennesima icona dei disadattati, di coloro che non possono permettersi false speranze perché la periferia degradata dalla quale provengono ha segnato fin dalla nascita il loro destino. Ecco perché l'intera vicenda ha un leggero retrogusto di già visto e alcune scene-simbolo (il tentativo di liberare la cavalla incatenata oppure la cattura di un pesce) rischiano di apparire scontate. Lo stesso discorso vale per la scelta della musica come unica via per affrancarsi dal ghetto. Tuttavia, grazie a una regia che segue Mia ovunque, la Arnold riesce a penetrare la sfera più intima della ragazza e a carpirne i turbamenti e le sofferenze. Merito anche della freschezza interpretativa dell'esordiente Katie Jarvis, notata per caso da un'agente in una stazione ferroviaria e poi scritturata. Non sono da meno Michael Fassbender e Kierston Wareing (che ha debuttato proprio con Ken Loach). 
Tornando alla Jervis, è quasi impossibile non paragonarla ad altre giovanissime protagoniste femminili incontrate recentemente, ad esempio, nei lavori di Céline Sciamma (Naissance des pieuvres, Bande de filles) o in Rosetta dei fratelli Dardenne. Fish Tank può dunque diventare anche un'ottima occasione per riscoprire alcuni validi titoli dove splendide attrici in erba regalano emozioni vere. 

In onda su Rai Movie nella notte tra domenica 10 e lunedì 11 luglio, alle ore 01.15.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica 

Titolo originale: Fish Tank
Anno: 2009
Regia: Andrea Arnold
Sceneggiatura: Andrea Arnold
Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Nicolas Chaudeurge
Musica: Phonso Martin (Steel Pulse)
Durata: 123'
Interpreti principali: Katie Jarvis, Kierston Wareing, Michael Fassbender e Rebecca Griffiths.

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LE IDI DI MARZO - Giulio Cesare in Ohio

26/2/2014

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Il senatore democratico Morris (George Clooney) è candidato alle primarie in Ohio. Il cammino verso la Casa Bianca è irto di insidie e Morris affida dunque la gestione della sua campagna a Paul Zara (il compianto Philip Seymour Hoffman) e a Stephen Meyers (Ryan Gosling), giovane e brillante addetto stampa. Stephen, idealista e puro di spirito, non è stato ancora risucchiato dagli ingranaggi del carrozzone elettorale, ma etica e politica non possono andare a braccetto per molto tempo. Meyers non tarderà a farsi travolgere dagli eventi, imparando a proprie spese come ricatti, scandali e porcherie di ogni genere siano parte intrinseca, se non addirittura imprescindibile, del gioco.
La guerra per il potere da sempre scatena i più bassi istinti dell’uomo, disposto a qualsiasi bassezza pur di arrivare in alto e sovrastare il prossimo, consapevole anche del fatto che chiunque può avere un prezzo. Così, come nella migliore tradizione, menzogne, intrighi di palazzo, tradimenti e congiure non possono mancare: il senatore Morris rischierà quindi di far la fine di Giulio Cesare, come il titolo del film lascia presagire, e all’oramai contaminato Stephen non resterà che prendere atto dell’accaduto, farsene velocemente una ragione ed escogitare in tutta fretta un modo per sopravvivere in un mondo dove, tutto sommato, si trova a proprio agio. Da quel che si intuisce dall’ultima inquadratura, i mal di pancia iniziali sembrano essere abbondantemente superati e già si notano i segni che il contatto con la corruzione ha scavato sul suo volto.
Le idi di marzo, quarto film di George Clooney (in veste anche di sceneggiatore), adattamento cinematografico della pièce teatrale Farragut North di Beau Willimon, è un omaggio al cinema politico degli anni settanta, nonché una ferocissima critica al sistema politico e amministrativo statunitense. Complici un’ottima sceneggiatura e inquadrature efficaci, Clooney porta a galla tutto il marcio che sta dietro la corsa al potere (e poco importa se si tratta del partito democratico o di quello repubblicano). La vera piaga della politica contemporanea, non soltanto made in the USA, sta nel fatto che il machiavellico fine che giustifica i mezzi si è ridotto al conseguimento dell’interesse personale del candidato.
L’esigenza da parte di una certa cinematografia americana di denunciare lo stato delle cose, pur non potendo fornire rapide soluzioni (che probabilmente non esistono), si è inoltre concretizzata nella serie TV targata Starz Boss, la cui prima stagione risale al 2011, anno di uscita nelle sale de Le idi di marzo. Boss narra le vicende del sindaco di Chicago Tom Kane (Kelsey Grammer), ancor più spietato del senatore Morris e del suo entourage. Il sindaco Kane priva lo spettatore dell’ultimo barlume d’illusione, poiché fa capire che il sudiciume parte da molto in basso e coinvolge la gestione del bene pubblico sin dai livelli infimi e meno importanti.
Anche se ne Le idi di marzo sono presenti gli elementi classici della tragedia, Clooney va oltre, puntando il dito sul potere mediatico che condiziona e di fatto decide l’esistenza dei rappresentanti politici, senza minimamente preoccuparsi degli effetti che potranno avere gli scoop nella loro vita privata e affettiva.
La conclusione non può che essere degna di un dramma e lasciare l’amaro in bocca. Un buon addetto all’ufficio stampa laverà in casa i panni sporchi e, nonostante la colpa vada attribuita a tutti gli attori in scena, essa ricadrà inevitabilmente sull’immancabile capro espiatorio. Il vincitore non potrà davvero dirsi tale perché ha pagato un prezzo troppo elevato per il successo. E il pubblico non potrà fare a meno di pensare che la tragica fine in realtà rappresenti l’inizio di un gioco che si farà ogni giorno più duro.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: The Ides of March
Anno: 2011
Regia: George Clooney
Sceneggiatura: George Clooney, Grant Heslov, Beau Willimon
Fotografia: Phedon Papamichael
Colonna sonora: Alexandre Desplat
Durata: 101’
Uscita in Italia: 16 dicembre 2011 nelle sale (il 31 agosto 2011 in prima mondiale al Festival di Venezia).
Attori: George Clooney, Ryan Gosling, Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Evan Rachel Wood, Marisa Tomei

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FILM IN TV - Suggestioni natalizie

23/12/2013

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Puntuali come ogni anno, al sopraggiungere delle festività invernali, le nostre emittenti Tv rovistano nel loro archivio per presentare un palinsesto carico di film natalizi, classici senza tempo, cartoni animati e cinema d’autore. Il piccolo schermo una volta tanto lo è un po’ meno, sostituendosi al grande come una sorta di rifugio per schiere di cinefili in fuga dalle sale affollate dalle solite commedie italiane. 

Proviamo dunque a districarci nella miriade di proposte filmiche che i nostri canali hanno in serbo in questi giorni di festa, scegliendo alcuni tra i titoli più interessanti. La sera della Vigilia di Natale Italia 1 propone come da tradizione Una poltrona per due (21.10), commedia di culto di John Landis interpretata dagli scatenati Eddie Murphy e Dan Aykroyd. Su Italia 2 alla stessa ora è di scena Coraline e la porta magica, ispirato film d'animazione in stop-motion realizzato da Henry Selick, già autore insieme a Tim Burton dell’inarrivabile Nightmare Before Christmas. Sempre in prima serata La7 propone Angeli con la pistola, l’ultimo film diretto dal grande Frank Capra, qui alle prese con il remake del suo Signora per un giorno girato quasi trent’anni prima, mentre alla stessa ora su Rai 5 va in onda Regalo di Natale di Pupi Avati. 
Segnalazione d’obbligo per la seconda serata di Rai 3 che alle 23.15 propone Fantastic Mr. Fox, un altro gioiello d’animazione in stop-motion realizzato da Wes Anderson, che nell’adattare un racconto di Roald Dahl non rinuncia affatto al suo inconfondibile e irresistibile marchio di fabbrica, riconoscibile a prima vista da ammiratori e detrattori.

Il giorno di Natale si apre con un classico dei classici natalizi tratto sempre dall’inesauribile fantasia di Roald Dahl, Willie Wonka e la fabbrica di cioccolato (Canale 5 ore 11.00). Ovviamente stiamo parlando del film diretto da Mel Stuart nel 1971 e magnificamente interpretato da Gene Wilder, poi rifatto qualche anno fa, in maniera non del tutto riuscita, da Tim Burton. La serata di Rai 2 si apre alle 21.00 con Paperman, meraviglioso e poetico cortometraggio muto in bianco e nero della Disney uscito al cinema appena un anno fa in abbinamento al film d’animazione Ralph Spaccatutto. A seguire - sempre sullo stesso canale - Cars 2 della Pixar, sequel assai meno riuscito rispetto al suo predecessore, che vede impegnati Saetta McQueen e Carl Attrezzi in una spy story in giro per il mondo. 
Da non perdere assolutamente la serata di Rai 3 che propone due film che negli ultimi anni hanno conquistato il pubblico internazionale con la loro accurata rivisitazione del cinema muto. Alle 21.10 è in programma The Artist, pellicola acchiappa Oscar diretta dal francese Michel Hazanavicius e interpretata da Jean Dujardin, impegnato qui in uno spudorato omaggio a Gene Kelly, e dalla splendida Bérénice Bejo. A seguire l’incantevole Blancanieves, uscito nei nostri cinema appena due mesi fa, del regista spagnolo Pablo Berger: una nuova, sorprendente rivisitazione in bianco e nero della favola di Biancaneve vincitrice di 10 premi Goya, e capace di coniugare le atmosfere fiabesche con l’omaggio al cinema muto, mantenendo un’originale e coraggiosa impronta autoctona. Se invece amate il cinema di Alfred Hitchcock potete sintonizzarvi su Top Crime, che a partire dalle 12.45 con Topaz dedica l’intera giornata ai grandi classici del maestro del brivido programmando titoli come Nodo alla gola (19.30), L'uomo che sapeva troppo (21.05) e Marnie (23.20). Pregevole infine la scelta di La7, che dedica la serata al cinema francese iniziando alle 21.10 con Le petit Nicholas di Laurent Tirard (con Kad Merad) per poi proseguire subito dopo con Monsieur Batignole. 

Il pomeriggio di Santo Stefano comincia nel migliore dei modi, con la prima tv in chiaro (su Rai 1 alle 14.10) del film L’ultimo pastore, esordio nel lungometraggio di Marco Bonfanti. Un’opera impossibile da etichettare o catalogare, una sorta di documentario dai toni fiabeschi e stralunati incentrato sulla figura di Renato Zucchelli, uno degli ultimi pastori italiani dediti all’antico mestiere della transumanza, un ritratto poetico dell’ultimo dei sognatori. Se siete refrattari al buonismo natalizio potete rifugiarvi su La7 che alle 21.10 propone Parenti serpenti, un feroce e divertito ritratto della famiglia italiana firmato dal grande Mario Monicelli. Alla stessa ora MTV propone invece La storia infinita, un fantasy di culto degli anni ’80, mentre su La Effe alle 21.30 è di scena American Life, una delle pellicole meno note di Sam Mendes. 
Spazio al cinema d’autore su Rai 3 che alle 23.05 propone la prima tv in chiaro dell’ultimo film del maestro Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone. A tarda notte su Rai Movie (0.50) va in onda La conversazione, uno dei capolavori di Francis Ford Coppola, impreziosito dalla gigantesca interpretazione di Gene Hackman. Un film enorme, premiato nel 1974 a Cannes con la Palma d'Oro, che ancora oggi riesce a farci sentire quel senso di paranoia che serpeggia al suo interno e tutta la malinconia e il disincanto tipici della New Hollywood dei bei tempi che furono. 

Ancora grandi classici Disney nella serata di venerdì 27 con Rai 1 che alle 21.10 manda in onda Lilli e il vagabondo, evergreen destinato ad ammaliare numerose generazioni di bambini. Alla stessa ora su Rai Movie è di scena Sir Alfred Hitchcock con Caccia al ladro mentre su La Effe è possibile ammirare per l’ennesima volta Jules e Jim, film epocale del grandissimo François Truffaut. Sempre sullo stesso canale alle 0.50 trova ancora spazio il grande cinema francese con il meraviglioso Amanti Perduti di Marcel Carné.

La giornata di sabato 28 si apre alle 13.00 su Rai Movie con il leggendario western Pat Garrett e Billy the Kid dell’indomabile Sam Peckinpah e prosegue in prima serata sullo stesso canale con il bellico The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, trionfatore alla notte degli Oscar del 2010 con ben sei statuette. La notte di Fuori Orario è dedicata al cineasta cileno Raoul Ruiz con la versione cinematografica del suo I misteri di Lisbona, trasmesso in chiaro per la prima volta dopo la messa in onda della versione tv in sei puntate.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film in Tv

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IL BUIO OLTRE LA SIEPE - Cinema civile

10/6/2013

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To kill a mockinbird, nel suo evocativo titolo originale, è tratto da un romanzo di Harper Lee, considerato un testo capitale nella storia contemporanea americana. Il film diretto dal dimenticato Robert Mulligan nel 1962 non ha forse avuto sul pubblico europeo lo stesso impatto che ha avuto sulla cultura americana, ma la sua importanza dal punto di vista storico e civile rimane inalterata, così come immutato resta il suo valore cinematografico.
L’intera storia ruota attorno al personaggio di Atticus Finch (Gregory Peck, vincitore per questo ruolo del suo unico Oscar) e alla sua battaglia contro la segregazione razziale nella pacifica cittadina di Maycomb, dove una denuncia di stupro effettuata dalla giovane Mayella Ewell contro il nero Tom Robinson (Brock Peters, I quattro dell’Ave Maria) diventa pretesto e metafora per un racconto di formazione tra discriminazione, diversità e poetico invito alla tolleranza.
Il buio oltre la siepe è anche un’opera politica, come politico è ogni film secondo i critici del Cahièrs du Cinema. In questo caso, non si può distinguere la pellicola dall’epoca in cui è stata realizzata, e non considerare la matrice letteraria e l’impegno del suo sceneggiatore, Horton Foote, nel trattare Harper Lee con rispetto e consapevolezza del mezzo cinematografico. Non si può dimenticare la felicissima mano di Robert Mulligan (Lo strano mondo di Daisy Clover, Strano incontro), o la straordinaria fotografia in bianco e nero che fissa le lancette nella determinatissima eppure indefinibile atemporalità della storia. Così come non si può non tenere presente la scelta di affidare a un attore come Gregory Peck, da sempre impegnato anche nel mondo civile, uno dei ruoli più significativi della narrativa contemporanea americana. Atticus Finch, il padre che mantiene saldi i propri principi e la propria morale, e che sa insegnare ai figli giustizia, compassione e generosità. Atticus, i cui monologhi diventano i precetti della società come dovrebbe essere, dell’America come dovrebbe avviarsi a diventare, crescere e maturare.
Aveva ragione Sidney Poitier quando, nella serata degli Oscar del 2002, ricevendo il premio alla carriera, evidenziò come «nulla si sarebbe messo in moto se non vi fosse stato un numero inestimabile di scelte coraggiose ed altruistiche intraprese da un manipolo di creatori visionari americani: registi, scrittori e produttori, ciascuno con un forte senso di responsabilità civile verso l’epoca in cui viveva».
Il film-svolta in questa presa di posizione è proprio Il buio oltre la siepe, che affronta con partecipazione e giusto equilibrio le delicate tematiche dei diritti civili, del razzismo e della necessità di una coscienza civica.
Il tutto viene portato nei cinema proprio nel 1962, in coincidenza con l’impegno politico del presidente Kennedy contro la discriminazione razziale e in favore dei diritti civili. Il 1962 è lo stesso anno in cui la Corte Suprema dichiara incostituzionale la segregazione razziale e in cui John Kennedy invia l’esercito per scortare in aula la prima matricola afroamericana, nell’Università del Mississippi. È un passaggio significativo, questo, se si considera come il concetto di educazione sia centrale nel film e nel romanzo. Un’educazione a una profonda coscienza morale e, al tempo stesso, una lezione sulle ineguaglianze sociali, sulla giustizia o meglio sul bisogno di giustizia, sulle radici dell’odio, sul potere dell’ignoranza e sulla necessità di abbattere i muri delle differenze e del pregiudizio, per costruire una società più libera, autentica, costruttiva e vera.
La decisione di produrre un film dal romanzo di Harper Lee, in un momento in cui l’opinione pubblica era attenta alle battaglie per i diritti civili riportate dai mass media, e quindi era maggiormente sensibile a interiorizzarne i messaggi, sottolinea anche come Il buio oltre la siepe possa essere considerato un «peana al valore civico di Hollywood», come scrive R. Armstrong nella sua analisi, il mezzo ideale per guardare alle realtà di un mondo solo temporaneamente inclinato nel proprio asse e che deve riscoprire la vera essenza degli esseri umani.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film in Tv

In onda su Rai Movie, mercoledì 12 giugno, ore 21.15


Scheda tecnica

Titolo originale: To Kill a Mockinbird
Regia: Robert Mulligan
Sceneggiatura: Horton Foote (da un romanzo di Harper Lee)
Attori: Gregory Peck, Mary Badham, Brock Peters, Robert Duvall
Fotografia: Russell Harlan
Musiche: Elmer Bernstein
Anno: 1962
Durata: 129'
Premi: Tre Oscar (Gregory Peck miglior attore protagonista; migliore sceneggiatura non originale; migliore fotografia)

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UBRIACO D'AMORE - La cornice degli opposti

31/5/2013

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Paul Thomas Anderson ha costruito la propria filmografia tra originalità, indipendenza dalle majors e una forte ambizione. Tra la grandiosità di Magnolia (1999) e l’epica de Il petroliere (2006), si pone Ubriaco d’amore. Un film piccolo, estremamente personale, che si allontana dalla coralità di Magnolia per raccontare quanto di più particolare esista: una porzione di vita, quella del timido Barry (Adam Sandler), tra minimalismo ed eccentricità, personaggi tragici e situazioni paradossali. Il confine tra commedia e tragedia è labile, come stretta, minima, impercettibile è la linea della follia percorsa dai personaggi.
Barry è un tipo come tanti altri, addirittura anonimo, schiacciato da una famiglia invadente e afflitto dal desiderio di essere amato, considerato, apprezzato, voluto. Un uomo che vive come un ragazzino, vittima della repressione, del desiderio, della vergogna. Una mente non meravigliosa ma ansiosa di liberarsi, di vivere le proprie illusioni. Un’anima fragile e sola, disperata per il desiderio di farsi ascoltare. Un giovane nevrotico che compra valanghe di yogurt per poter accumulare miglia aeree che non utilizzerà mai, al solo fine di darsi un obiettivo. Uno che rischia di strozzarsi con il cordone ombelicale della famiglia, solo per non avere il coraggio di imporsi. 
Poi, come spesso accade in questi casi, l'incontro d’amore con Lena (Emily Watson) è la molla che convincerà Barry a cambiare se stesso e la propria vita, a intravedere oltre la realtà e finalmente cominciare a lottare, tagliando i lacci che lo imprigionano.
È una storia d’amore con un solo personaggio, scriveva «The Nation» all’uscita del film, nel 2002. E perché no, dopotutto. Ubriaco d’amore è un viaggio nella vita, nella mente e nel cuore del protagonista, nelle sue manie, nelle sue nevrosi, nell’isteria della normalità. L’inadeguatezza di Barry alle convenzioni del microcosmo sociale in cui vive si rivela sin da subito, ma monta come il tarlo della ribellione man mano che l’amore per Lena (e di Lena) si insinua nella monotonia della sua vita.
Non si tratta certo di un film minore nella filmografia di Paul Thomas Anderson; casomai è un’anomalia nella ricerca stilistica compiuta dal regista. È più vicino ad essere considerato un oggetto d’arte post-moderna, con l’estrema ricercatezza visiva, i contrasti, la scelta cromatica fatta di colori netti – in corrispondenza con la grande forza espressiva dei personaggi, come rapiti dal flusso di incontrollabili emozioni - e i movimenti della macchina da presa, che inquadrano la storia di Barry e Lena come un’inaspettata magia sullo sfondo delle illusioni.
A intrecciare alla perfezione la cornice degli opposti, una scelta musicale azzeccata – nello stile di successo già provato con Magnolia – mette insieme l’alternative composer Jon Brion con la canzone He needs me, cantata da Shelley Duvall, ossessivamente ripetuta nel corso del film come ossessionata, pulsante e compressa sembra la mente di Barry.
L’artista Jeremy Blake ha curato gli artworks introduttivi delle diverse scene (che rappresentano “la parte terrorizzante dell’innamorarsi”, afferma l’artista), ancora una volta confermando l’importanza delle immagini, svincolate dalla loro natura cinematografica ma in qualche modo a essa intimamente legate. Astrazione e realtà del film. Sogno e verità. Amore e sesso. Silenzio e rabbia. La storia di Barry Egan, l’imprevedibilità delle sue azioni, l’altalena emozionale che vibra tra stati d’animo e azione, silenzi e grandiose spinte di rabbia, somiglia in tutto a una partitura in cui nessuna nota è fuori posto, e tutte si legano per chiudere il cerchio.
Il racconto delle anime sensibili ha sempre trovato consensi nel cinema americano. I personaggi timidi che si riscattano da una situazione di costrizione e sofferenza sono i piccoli grandi eroi della nostra epoca, coloro nei quali sembriamo riporre fiducia e speranza, perché così diversi dalla norma eppure così simili a noi. Barry Egan, interpretato con straordinaria intensità e sottile furore da Adam Sandler, rispecchia forse la nevrosi americana dell’11 settembre, l’americano meno-che-medio che si barcamena tra insoddisfazioni, solitudini e disagi affettivi. La catarsi del sopravvissuto si manifesta in una spasmodica ricerca di senso, in un andivieni sconnesso tra strade vuote, personaggi abulici, familiari distaccati. Un viaggiare in cerca di pathos. Un’isola felice. Ubriachezza di sensazioni rosse, elettriche, amorose, feroci. La trasformazione di una imminente tragedia in un'atipica favola rock, vagamente sboccata e romantica. L’amore inebriante. Il sogno, la purezza, la speranza.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Punch Drunk Love
Regia: Paul Thomas Anderson
Sceneggiatura. Paul Thomas Anderson
Anno: 2002
Durata: 90'
Interpreti: Adam Sandler, Emily Watson, Philip Seymour Hoffman
Musica: Jon Brion
Fotografia: Robert Elswitt

In onda su Rai Movie, Domenica 2 Giugno, ore 23.15

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I DANNATI E GLI EROI - L'America della libertà

5/5/2013

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John Ford è l'autore che “faccio film western”, come egli stesso ebbe modo di descriversi durante un famoso incontro del Directors Guild. Ma, con in bacheca quattro Oscar da migliore regista, non ha mai potuto contarne uno che appartenesse al genere da lui tanto amato. Nemmeno Ombre rosse, nemmeno Sentieri selvaggi, nemmeno uno della trilogia della cavalleria (Rio Bravo, I cavalieri del Nord-Ovest, Il massacro di Fort Apache). Figurarsi questo piccolo film, I dannati e gli eroi, che uscì nel 1960, nell’ultimo periodo della produzione cinematografica di Ford. Non passò inosservato, ma pochi lo apprezzarono veramente (addirittura Films in Review dichiarò che Ford doveva averlo girato “con la mano sinistra”), ed è tuttora considerato un’opera minore.
Senz’altro atipico, I dannati e gli eroi sposa l’ambientazione e le tematiche tradizionalmente care a John Ford – la frontiera, gli indiani, l’esercito nordista con la vita del reggimento e le dinamiche militari ben al centro della storia – con elementi se non nuovi senz’altro diversi. Il film, che dal titolo originale (Sergeant Rutledge) già annuncia chi sia il vero protagonista della vicenda, è innanzitutto uno dei primi esempi di legal drama militare ambientato nel west.
Il tenente Cantrell (Jeffrey Hunter, già in Sentieri selvaggi, qui alla prima prova importante) è incaricato di difendere il sergente Rutledge (Woody Stroode) dall’accusa dello stupro e dell’omicidio della giovane Lucy Debney, figlia del maggiore della compagnia, anch’egli ucciso.
Attraverso un complesso giro di flashback, durante il processo verrà ricostruita l’intera vicenda, fino alla scoperta della verità. Con essa, si toglierà il velo al clima di ipocrisia e razzismo di una società che, tra passato del film e il presente di John Ford (gli anni ‘60 delle leggi contro la segregazione razziale), non sembra essere cambiato granché.
Già il legal thriller in costume rappresenta una novità non solo per Ford ma per il genere western in generale; il vero nodo nell’economia del film e fattore ancora più interessante è che il sergente Rutledge, appartenente al reggimento del Nono Cavalleggeri, è uno dei tanti neri che, nell’America perbenista e silenziosamente razzista dell’epoca, imbracciarono le armi combattendo fianco a fianco con i bianchi, senza però ottenerne gli onori o i riconoscimenti. John Ford affermò con una certa fierezza che I dannati e gli eroi era il primo film in cui un nero era descritto come un eroe americano; se anche questo non è propriamente vero, in quanto altre pellicole erano state già girate sin dalla fine degli anni ’20, i film con afroamericani come eroici protagonisti della storia americana erano stati prodotti e distribuiti per il ristretto pubblico dei neri, confinando dunque la diffusione e la discussione delle pur importanti tematiche solo ai discriminati. 
Ford puntò anche il dito contro la pessima (cioè assente) campagna di promozione e distribuzione de I dannati e gli eroi, che fu successivamente consegnato alla storia e alla memoria solo degli appassionati. Peccato, perché si tratta di uno dei suoi migliori film, non solo per dinamismo dell’azione, originalità dell’impianto narrativo e perfetta meccanica nell’uso e nello sviluppo del flashback, ma per l’epica che sottende alla piccola, misconosciuta storia di Braxton Rutledge, leader naturale della sua compagnia, incarnazione del Capitan Buffalo che veglia sui commilitoni, i compagni, che difende i civili e una porzione di America troppo frivola, superficiale e chiusa in se stessa per accorgersi di ciò che deve a quegli uomini cui ha negato il diritto di essere considerati uguali. 
Impreziosito dalla fotografia del veterano Brent Glannon (Ombre rosse) - che sembra utilizzare il colore per slanciare proprio il senso epico della Storia e per imprimere azioni, comportamenti e umanità dei personaggi nella ormai mitica cornice della frontiera – I dannati e gli eroi conta un cast eccezionale composto per larga parte da attori che, nel cinema di John Ford, hanno spesso ricoperto il ruolo di comprimari. Non ci sono star, qui, ma ottimi interpreti che sanno imprimere agli eccellenti dialoghi e ai toccanti monologhi le sfumature giuste per un’opera fondamentalmente corale, intesa a esaltare il misconosciuto eroe.
La scoperta della verità dietro il giallo coincide con la celebrazione anti-retorica dell’America della libertà, della democrazia e degli ideali. Così si cristallizza l’universo valoriale dell’epica di Ford. Così si traduce l’attualità in storia. Così si consegna il cinema all’immortalità.

Francesca Borrione

In programmazione Martedì 7 maggio, ore 21.05, su Iris

Sezione di riferimento: Dvd & Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Sergeant Rutledge
Regia: John Ford
Anno: 1960
Durata: 111'
Sceneggiatura: James Warner Bellah, Willis Goldbeck
Fotografia: Brent Glennon
Musica: Howard Jackson
Attori: Jeffrey Hunter, Woody Stroode, Billie Burke, Constance Tower, Juano Hernandez

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L'ETÀ DELL'INNOCENZA – Una sinfonia mai doma

27/4/2013

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Newland Archer (Daniel Day-Lewis) è un avvocato dell’alta società ed è fidanzato con May Welland (Winona Ryder), ma la normalità della sua esistenza verrà sconquassata dall’irruzione della contessa Ellen Olenska (Michelle Pfeiffer), cugina di May. Un legame partito come gioco senza impegno, ma diventato assai in fretta molto più serio, dovrà scontrarsi con la limitante chiusura di un sistema di valori ben consolidato. 
Triangolo passionale, raro inserto amoroso nella filmografia di un autore di solito non avvezzo a questi temi, o piuttosto sterile danza manierista, campionario estenuante di patinate bomboniere ottocentesche? Quando si parla de L’età dell’innocenza il più delle volte si scade proprio in simili definizioni restrittive, o in rifiuti sprezzanti, pressoché abissali. Un destino che ha accompagnato e continua ad accompagnare la ricezione di un film di sicuro poco compreso e non nobilitato dal tempo come spesso accade a opere che in verità lo meritano assai meno, che all’apparenza potrebbe sembrare avulso dalle corde scorsesiane ma in realtà non lo è affatto. 
Chi conosce Martin Scorsese sa bene infatti che la sua passione per il melodramma in costume non è certo seconda a quella per il gangster movie: un amore antico e radicato nel tempo, fin da quando il nonno gli mostrò il suo adorato Gattopardo viscontiano in età giovanile, una visione fondamentale nella formazione televisiva del giovane Martin cinéphile. E in questo film, che a quel cantuccio cinefilo è omaggio e asservito atto d’amore, Scorsese si dimostra ancora una volta ben lungi dall’essere un illustratore esangue, qui esattamente come nei lavori più celebri, conclamati e facilmente riconducibili ai suoi risaputi stilemi. Definire L’età dell’innocenza un film non scorsesiano sarebbe dunque come tacciare Joe Cocker di non essere un valente musicista rock solo perché accanto alle schitarrate più affilate ha inframmezzato ogni tanto una ballata romantica meno convulsa e più suadente. In altre parole, una limitazione imperdonabile. 
L’affresco del film con cui Scorsese spiazzò anche buona parte dei suoi fan non è infatti mai composto e irrigidito ma ancora una volta esondante di passione. La cura certosina e forsennata del décor è solo un’apparente mutazione formale in chiave ottocentesca e in costume rispetto alle mean streets e alle storture sanguinolente del crimine metropolitano tanto care a Zio Marty: l’ossessione per le regole cristallizzate di un mondo cieco e violento, governato da diktat inviolabili e biechi, non è poi tanto lontana dall’epica rovesciata di Quei bravi ragazzi, com’è facilmente osservabile da un immediato confronto sinottico tra i due film. 
Scorsese, come Visconti, Matarazzo, Powell & Pressburger e in forme relativamente meno roboanti ma più sottili e meta-linguistiche anche De Palma e Tarantino, è infatti uno di quegli autori in cui l’ossessione per la forma è essa stessa sostanza, compiuta, significante e in sé perfetta. La passione divorante per le immagini è sempre la stessa, saettante e insanguinata, insaziabile e vorace. Una fame che qui vive di carrellate, di una rapacità mai paga per l’iconografia del XIX secolo che va a comporre un arazzo torrenziale e magniloquente, estatico e avvolgente, sensuale e bellissimo. E’ il valzer ballato con una donna matura, consapevole e ricca di sfaccettature, curata al millimetro fin nel più intarsiato merletto. Senza nulla togliere all’ancheggiare forsennato con una diciottenne a una festa del college, naturalmente, ma qui siamo proprio in un’altra galassia. 
Con uno scrupolo raffinatissimo e inesauribile l'autore ha realizzato uno dei più grandi film in costume degli anni ’80, una ricognizione storicizzata nel passato sepolto delle sue origini newyorkesi che fa il paio con Gangs of New York, film che di fatto si pone rispetto a L’età dell’innocenza come una speculare altra faccia della medaglia, in quel caso più classicamente scorsesiana, polverosa e dalle pupille arrossate, odorosa di zolfo e sgorgante di sangue a fiumi zampillanti. Questo, a suo modo, è perfino il più bel film di Scorsese: il più bello a guardarsi, naturalmente, da un punto di vista di esclusivo intarsio estetico, non in assoluto. Ed è di fatto impossibile non lasciarsi travolgere da quella macchina da presa voluttuosa e bramosa, che fluttua scovando ora sguardi in soggettiva ora quadri sublimi, sconfinando in piani sequenza in grado di ridefinire il concetto di magnifico viscontiano, annegando con melliflua, debordante eleganza in un mare di suggestioni palpitanti. 
L’età dell’innocenza è la quintessenza della bellezza cinematografica a cielo aperto, una gioia per le cornee, un pianoforte mai pago di note di colore differenti, di gradazioni che si fanno sempre più sfaccettate e sfumate a ogni visione. Il sonoro schiaffo di Scorsese a una tonnellata infinita di film in costume assai più raggelati, assolutamente incapaci, nella loro perfettibilità algida, di restituire simili zaffate di sinfonica, frastornante magia. E, per colmo d’amore, vorresti quasi che in un film così ci fosse perfino qualche carrello in più.  

Davide Eustachio Stanzione

In onda su Sky Cinema Passion, lunedì 29 aprile, ore 21.00

Sezione di riferimento: Dvd & Tv

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MYSTIC RIVER - L'ombra del dolore

17/4/2013

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C’è un’atmosfera da tragedia classica, percepibile in ogni parola, fotogramma e inquadratura che compone Mystic River, l’opera più complessa del Clint Eastwood del ventunesimo secolo, riduzione cinematografica di La morte non dimentica, di Dennis Lehane, romanzo nerissimo e dai tratti così intensi e foschi che una sua trasposizione poteva rappresentare un serio rischio. 
Con i romanzi di genere, per quanto ricchi di sfaccettature, lo sceneggiatore corre sempre il pericolo di puntare sull’intreccio thriller, favorendo l’azione e rinunciando all’introspezione. Qui, al contrario, Brian Helgeland (capace di alternare opere come L.A.Confidential a prodotti di totale divertissement come Il destino di un cavaliere) tiene tutto in piedi: storia, personaggi, ambientazione, pesando dialoghi e descrizione così come aveva fatto Lehane.
Nella periferia di Boston del 1975, Jimmy, Dave e Sean sono tre amici nemmeno adolescenti che giocano in strada. In una giornata come tante, una berlina scura accosta di lato al marciapiede. Due uomini obbligano Dave a salire in auto. Il bambino rapito tornerà a casa quattro giorni dopo, portando con sé il silenzio degli orrori subiti, solo silenziosamente suggeriti.
Oggi, Jimmy (Sean Penn), Sean (Kevin Bacon) e Dave (Tim Robbins) vivono esistenze indipendenti, ma restano legati dall’evento che ne ha intrecciato i destini venticinque anni prima. Nel presente sono tre uomini – un boss, un poliziotto e un invisibile - che dovranno scontrarsi ancora quando la figlia del primo verrà trovata uccisa. Il quartiere è in subbuglio. Qualcuno dovrà pagare.
Clint Eastwood costruisce, attorno a ciascuno dei protagonisti, un universo familiare ed emozionale che influisce, giudica e pregiudica azioni e comportamenti dei personaggi. Pur essendo strette figure nello sfondo, Annabelle (Laura Linney) e Celeste (Marcia Gay Harden), le mogli di Jimmy e Dave, fanno parte di questo dramma collettivo che prende sempre di più i caratteri di un’opera shakespeariana man mano che l’intreccio giallo si svolge e la ricerca dell’assassino diventa una simbolica caccia al mostro. Il sospetto avvelena anche gli innocenti, mentre i personaggi tentano disperatamente di dare forma al male all’ombra della colpa, del dolore, del sacrificio.
Mystic river sembra utilizzare le convenzioni di genere per proporre un ritratto profondo, netto e spietato sulle dinamiche che guidano le azioni di una piccola comunità, stretta e sconvolta dall’evento delittuoso, traumatico perché colpisce una giovane vita e perché si consuma dentro una quotidianità accettata e trasparente. Ecco allora che la natura umana si rivela, le emozioni esplodono e con esse la rabbia di dare pace ai propri fantasmi, a qualsiasi costo.
Clint Eastwood ha il tocco magico con i suoi attori, da sempre. Qui tocca l’accordo perfetto che fa volare Sean Penn verso il suo primo Oscar. Penn è uno che non ha mezze misure interpretative, ma in questo caso il suo stile si sposa perfettamente con gli eccessi di Jimmy, il “re” del quartiere, tutto famiglia e tradizioni da mafia di quart’ordine, tanto cuore e immediatezza da essere sottilmente gestito dalla sua lady Macbeth, Annabelle, la regina. A Laura Linney serve un monologo per garantirsi una nomination, ma a Penn basta un urlo straziato (da ascoltare rigorosamente in originale) per vincere la statuetta. Eppure, in totale contrasto con la sua debordante performance, è Tim Robbins la vera star: pone lo spettatore di fronte a una sfera di emozioni contrastanti e contrapposte, tiene il film sul filo della tensione, ci obbliga a provare per Dave un misto di partecipazione, odio e compassione per la vittima-carnefice, il predestinato che assume su di sé la colpa di ogni male.
Non fosse capitato proprio nell’anno de Il signore degli anelli – Il ritorno del re, nel 2003 Mystic River avrebbe forse vinto in tutte le categorie, mentre si è dovuto accontentare di due premi per gli attori. Il 2004 è stato l’anno dello straordinario Million Dollar Baby, ma l’epica tragica di Mystic River ne ha aperto in qualche modo il sentiero.

In onda su Iris (digitale terrestre), lunedì 22 aprile, ore 21.10

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Mystic River
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Brian Helgeland (dal romanzo di Dennis Lehane)
Fotografia: Tom Stern
Musiche: Clint Eastwood, Kyle Eastwood.
Uscita in Italia: 24 ottobre 2003
Durata: 137'
Attori: Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon, Laurence Fishburne, Laura Linney, Marcia Gay Harden.

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ORE DISPERATE - Elegia western

10/4/2013

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Della produzione di Michael Cimino, solo Il cacciatore e I cancelli del cielo sembrano trovare uno spazio nell’Olimpo cinematografico, uno perché un indiscusso capolavoro consacrato da cinque premi Oscar, l’altro in quanto fiasco commerciale capace di far fallire la United Artists. Ma che posto hanno gli altri film di Cimino? Per coloro che amano il suo modo di osservare il mondo, Ore disperate è un cult.
Uscito nel 1990, in piena restaurazione western (è l’anno di Balla coi lupi), remake dell’omonimo film del 1955 diretto da Willam Wyler con Humphrey Bogart e Fredric March, il film è passato, come previsto, sotto silenzio, collezionando un coro di critiche e censure per l’eccessiva violenza del soggetto, tanto da essere vietato ai minori. Tuttavia, Cimino ricalca l’originale soltanto nel plot, per differire subito sia nel taglio da elegia western (dove il film di Wyler è un serratissimo noir) sia nella evoluzione dei personaggi: un criminale (Mickey Rourke) evade e ripara, con la complicità del fratello (Elias Koteas) e di un amico (David Morse), in una villa di quartiere posta in vendita e abitata, ancora per poco, da una tranquilla famiglia borghese in cui rancori e silenzi colmano la totale assenza di comunicazione tra i quattro componenti. Tim (Anthony Hopkins) e Nora (Mimi Rogers) sono in crisi e la precarietà del loro matrimonio condiziona il rapporto con i due figli. L’irruzione dei tre ricercati, per quanto tragica e sconvolgente, avrà il potere di sciogliere l’intricata rete di rapporti, mettendo ciascuno dei personaggi di fronte alle proprie debolezze, paure, contraddizioni.
Il cattivo entra in casa e prende possesso dell’abitazione, rispettandola ma violandone tutte le leggi, e si mette seduto al posto di comando, spettatore-moderatore dei conflitti familiari sul punto di esplodere. È il cattivo ad essere buono, inizialmente, ed è il buono ad essere cattivo, rigido, severo, assolutamente spregevole. Finché le parti si ribaltano, e ognuno prende il posto che gli compete. Tim è il padrone di casa, il perno intorno al quale ruotano moglie e figli, una figura autoritaria e protettiva, invisibile baluardo di un’America silenziosa e cosciente. Il Male, insidiatosi in casa per minarne le basi, sputa su ciò che non ha mai avuto e che, in qualche modo, invidia.
Nell’ora e mezza di apnea, in cui i momenti da ricordare sono innumerevoli, Ore disperate può contare su una sceneggiatura non originale ma incalzante, densa di dialoghi, ritmo e tensione. Cimino si concede anche il lusso di due protagonisti perfetti: Mickey Rourke, in una delle tante sottovalutate interpretazioni, e Anthony Hopkins, la cui bravura certo non fa notizia. È lui che affronta la più interessante evoluzione, trasformandosi nell’inaspettato sceriffo della propria casa. Il film risente forse di quell’atmosfera culturale degli anni Ottanta che tanto ha influenzato il cinema americano, e la critica alla deriva della famiglia e della società si ferma dove inizia il riscatto dell’uomo comune. Ma non ci sono veri buoni o cattivi, e ciascuno viene messo di fronte alla propria coscienza. È la poetica di Michael Cimino. E, come in tutto il suo cinema, la linea tra bianco e nero, vita e morte, è stretta, sfumata e confusa.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Dvd & Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Desperate Hours
Regia: Michael Cimino
Fotografia: Douglas Milsome
Sceneggiatura: Mark Rosenthal, Lawrence Konner, Joseph Hayes
Durata: 100 min.
Interpreti: Mickey Rourke, Anthony Hopkins, Mimi Rogers, Elias Koteas, David Morse, Kelly Lynch.

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