ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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LEBANON - L'atroce assurdità della guerra

1/9/2014

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6 giugno 1982, primo giorno di guerra in Libano. Quattro soldati a bordo di un carro armato perlustrano un villaggio bombardato dall'aviazione militare israeliana. Shmulik (Yoav Donat), Assi (Itay Tiran), Yigal (Michael Moshonov) e Hertzel (Oshri Cohen), giovani e inesperti, si aggirano sperduti in una wasteland che possono osservare soltanto attraverso il mirino del cingolato. Mandati allo sbaraglio dagli ufficiali (che, come in tutti i conflitti, non si trovano mai in prima linea), abbandonati a se stessi, perderanno il controllo della missione. Il carro armato diventerà la loro prigione, una trappola buia e asfissiante che rischierà di annientarli. 
Suggestiva la scena finale, che riprende l'inquadratura iniziale, dove la corsa verso la salvezza del tank si conclude in un rigoglioso campo di girasoli. La potente bellezza della natura, indifferente alla piccolezza degli uomini, regala un magnifico cielo azzurro al milite che emerge dal ventre del mezzo corazzato.
Opera prima dell'israeliano Samuel Maoz, Lebanon è un film autobiografico, ispirato alle vicende del regista, recluta appena ventenne nel 1982 in Libano. Maoz non si addentra in questioni e giudizi politici, ma analizza invece il dramma umano di chi è costretto a partecipare alle ostilità. I suoi soldati non amano combattere, non vogliono sterminare nessun nemico, ma il loro unico obiettivo pare piuttosto quello di “portare a casa la pelle”.
Film claustrofobico, di guerra ma contro la guerra, Lebanon è stato premiato con il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2009. In quell'occasione Maoz ha dedicato il premio alle migliaia di persone in tutto il mondo che sono tornate sane e salve dal fronte, e ha aggiunto che il ricordo delle atrocità vissute trafiggerà per sempre l'anima di un reduce, anche se apparentemente godrà di buona salute, lavorerà, si sposerà e avrà dei figli.
Nonostante abbia regalato il primo Leone d'oro della storia a Israele, Lebanon ha suscitato delle perplessità in patria perché, come ha spiegato Maoz, non sono ben accette le opere che raccontano i crimini commessi dai militari e che mostrano sul grande schermo la debolezza del proprio Paese. 
Per motivi probabilmente opposti dal punto di vista ideologico e politico, Lebanon è stato rifiutato ai Festival di Berlino e di Cannes nel 2009 (e pure in Italia non sono mancate le critiche). Implacabile anche il verdetto dei Cahiers du Cinéma: “Le lacrime versate dai soldati israeliani, condannati a uccidere, mistificano la guerra, rappresentandola come naturale, inevitabile e in un certo qual modo la giustificano”.
Tuttavia, in un'intervista al The Observer, Maoz ha sottolineato che l'intento del suo lavoro era quello di aprire un dibattito e di coinvolgere le persone perché si confrontassero su temi importanti, cosa che non sarebbe potuta accadere in caso di boicottaggio nei confronti del film.
Piaccia o non piaccia, Lebanon riapre comunque l'eterna questione sull'opportunità di valutare l'opera d'arte per il suo valore intrinseco, oppure se sia eticamente impossibile scinderne il giudizio dagli aspetti ideologici, politici, religiosi e storici che spingono l'artista verso la realizzazione dell'opera stessa.

In onda su Rai Movie, giovedì 4 settembre, ore 02.50.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Lebanon
Anno: 2009
Regia: Samuel Maoz
Sceneggiatura: Samuel Maoz
Fotografia: Giora Bejach
Durata: 93'
Interpreti principali: Yoav Donat, Itay Tiran, Oshri Cohen, Michael Moshonov, Zohar Strauss

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POLISSE - Innocenza rubata

4/8/2014

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A Parigi la BPM, Brigade de Protection des Mineurs, si occupa di crimini commessi ai danni di minori. Per svolgere accuratamente le indagini, i poliziotti ascoltano le testimonianze delle giovanissime vittime di abusi; un compito ingrato, che richiede una spiccata dose di sensibilità, specialmente nel caso si sospetti una violenza di natura sessuale. Il lavoro degli investigatori consiste inoltre nel raccogliere le deposizioni di genitori e conoscenti, nel seguire adolescenti problematici (spesso già nei guai con la giustizia) e nel sorvegliare i luoghi di ritrovo di bambini e ragazzi. 
Il gruppo che compone la BPM è solidale, tra colleghi esiste un forte spirito di squadra, proprio perché all'interno della brigata i membri sono consapevoli dello stress al quale ognuno di loro è sottoposto quotidianamente; una responsabilità logorante che non può non intaccare anche la vita privata di un poliziotto.
La ricerca estenuante di un neonato rapito o lo sgombero di un campo nomadi, interventi all'ordine del giorno, si mescolano a problematiche di carattere personale, come l'affidamento dei figli o la perdita del partner. A minare il difficile equilibrio raggiunto, innescando nuove dinamiche, sarà Melissa (la stessa regista che compare soltanto con il nome Maïwenn), una fotoreporter inviata dal Ministero dell'Interno per realizzare un libro di foto che documentino l'operato della BPM.
Gli ultimi minuti di Polisse, con un meraviglioso e sorprendente colpo di scena finale, rappresentano la perfetta quadratura del cerchio di un film che riesce a conciliare una sobria delicatezza con un crudo ma necessario realismo.
Maïwenn Le Besco, alle prese con il suo terzo lungometraggio, di cui ha curato anche la sceneggiatura, si ispira a casi realmente trattati dalla Brigade de Protection des Mineurs di Parigi. I dialoghi, originali e sofferti, tra gli investigatori e e le vittime di abuso, con la telecamera a mano che si sofferma sullo sguardo dei minori, sono testimonianze di dolore, ma anche di inconsapevolezza. Il ragazzino che ha subito uno stupro dall'insegnante di ginnastica si chiede per quale motivo il suo maestro debba andare in prigione, ne è addirittura dispiaciuto, perché “gli vuole bene”. La madre che masturba il figlio più piccolo per farlo addormentare non si rende conto di aver commesso una violenza e confessa di aver agito allo stesso modo con il maggiore.  
Lo spettatore, grazie alla fotocamera di Melissa che regala ulteriore autenticità alle vicende della squadra, segue con partecipazione lo svolgersi degli eventi diventando anzi parte del gruppo, immedesimandosi nelle ottime interpretazioni di un grande cast nel quale si segnalano Karin Viard, Joey Starr, Marina Fois, Frédéric Pierrot, Naidra Ayadi (premiata con il César) e Sandrine Kiberlain.
La sceneggiatura, scritta a quattro mani con Emanuelle Bercot, ha il merito di incastrare alla perfezione episodi relativi alla sfera privata dei protagonisti con scene di vita professionale, con l'intento di far comprendere quanto il loro lavoro, appassionante ma sfibrante, possa condizionare i rapporti con familiari e amici.
Senza mai scadere nel meccanismo della lacrima facile, Polisse, premio della giuria a Cannes 2011, è un film lucido e toccante, che dimostra ancora una volta quanto il cinema francese goda di ottima salute, assestandosi su livelli difficilmente raggiungibili dalle produzioni di casa nostra. 

Serena Casagrande

In onda su La7, giovedì 7 ore 22.30

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Poliss
Anno: 2011
Regia: Maïwenn Le Besco
Sceneggiatura:  Maïwenn le Besco, Emmanuelle Bercot.
Fotografia: Pierre Aïm
Durata: 134'
Interpreti principali: Karin Viard, Joey Starr, Marina Foïs, Nicolas Duvauchelle, Maïwenn Le Besco.

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TOMBOY - L'estate di Mickäel

25/6/2014

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Durante le vacanze estive Laure (Zoé Héran), una ragazzina di dieci anni, si trasferisce con i genitori e la sorella in un nuovo quartiere nella periferia di Parigi. Il padre (Mathieu Demy) è spesso assente a causa di impegni lavorativi mentre la madre (Sophie Cattani), in attesa del terzo figlio, è distratta dall'imminente gravidanza. Laure si sente sola, non conosce gli altri bambini del vicinato e la sua unica compagna di giochi è la sorellina Jeanne (Malonn Lévana). Per farsi dei nuovi amici finge di essere un ragazzo: si fa chiamare Mickäel, si veste esclusivamente con abiti maschili, porta i capelli corti e partecipa alle partitelle di calcio. L'estate scorre piacevolmente anche per merito della presenza di Lisa (Jeanne Disson), una coetanea, per la quale prova fin da subito una profonda simpatia. Un sentimento reciproco che sfocerà in una tenera infatuazione, suggellata da un timido bacio.
Lo stratagemma funziona, complici il silenzio della piccola Jeanne e la poca presenza della famiglia, ma la verità è destinata inevitabilmente a venire a galla. Un giorno Laure, per difendere la sorella, picchia un bambino, e quando la madre di quest'ultimo si reca in casa di Mickäel per un chiarimento, la ragazzina viene smascherata. Per punizione, Laure è obbligata a presentarsi dal compagno di giochi per porgergli delle scuse indossando un vestitino azzurro. L'umiliazione più cocente però è il faccia a faccia con Lise, che dichiara di fronte al gruppo di amici di provare ribrezzo per aver baciato una donna.
Tomboy, accolto favorevolmente al Festival di Berlino del 2011 e vincitore del GLBT Festival di Torino, è il secondo lungometraggio della regista francese Céline Sciamma, già promettente autrice di Naissance des Pieuvres (2007). Se il suo primo film analizzava le inquietudini affettive e sessuali tipiche della fase adolescenziale, in Tomboy la protagonista appartiene a una fascia d'età inferiore. Laure è infatti una bambina di dieci anni che sta affrontando la delicatissima fase della preadolescenza. I meravigliosi primi piani rivelano la sua innocenza, ma anche i primi turbamenti, la necessità di “esplorare” e la voglia trasgredire.
Con un tocco lieve, poetico e una notevole sensibilità, la Sciamma si addentra in un terreno troppo spesso ignorato dagli adulti, che non vedono (o non vogliono vedere) i cambiamenti in atto nei loro figli. La regista tratta con leggerezza la tematica della formazione dell'orientamento sessuale, provando a immedesimarsi in Laure/Mickäel, verso la quale dimostra tenerezza, ma anche un sincero rispetto. Il lieto fine, con Lise che si riavvicina all'amica, spazza via ogni forma di pregiudizio, a dimostrazione del fatto che i ragazzi, anche se educati all'intolleranza, possono facilmente liberarsene. La bella fotografia di Crystel Fournier immortala spaccati di una dolce estate, ricordo indelebile che, forse, segnerà per sempre l’esistenza di Laure. O di Mickäel.
Un film necessario, da riscoprire, nell’attesa di poter vedere nelle sale italiane Bande de Filles, il nuovo film della Sciamma presentato all'ultimo Festival di Cannes nel corso della Quinzaine des Réalisateurs.

In onda su Laeffe, sabato 28 giugno ore 22.10.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Tomboy
Anno: Francia 2011
Regia: Céline Sciamma
Sceneggiatura: Céline Sciamma
Fotografia: Crystel Fournier
Durata: 82'
Interpreti principali: Zoé Héran, Malonn Lévana, Jeanne Disson, Sophie Cattani, Mathieu Demy.

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IL RAGAZZO CON LA BICICLETTA - Rancore e riscatto

2/6/2014

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Il dodicenne Cyril (Thomas Doret) vive in un istituto d'accoglienza per l'infanzia, “temporaneamente” abbandonato dal padre (Jérémie Renier), che si è rifatto una vita dove non c'è posto per un bambino. Il genitore non solo non va mai a far visita al figlio, ma si è addirittura dileguato, cambiando casa senza comunicargli il nuovo indirizzo. Anche l'unico esile legame che li unisce (una bicicletta, dono del papà) si strappa quando quest'ultimo la vende per guadagnare qualche soldo.
Cyril presenta i classici sintomi di un minore che ha sperimentato in prima persona la sofferenza dell'abbandono. Rabbia e rancore gli impediscono di avvicinarsi al prossimo se non attraverso una comunicazione violenta. Tradito e ormai dimenticato, non può più permettersi di affidarsi incondizionatamente a un adulto.
La parrucchiera Samantha (Cécile De France, reduce da Hereafter di Clint Eastwood) lo conosce per caso e da subito comprende il dolore con il quale egli convive. Si offre dunque di ospitarlo in casa durante i weekend e di aiutarlo nella ricerca del genitore. Inizialmente Cyril fatica ad affezionarsi alla donna, ma Samantha saprà conquistarsi rispetto e fiducia riacquistando la bicicletta venduta dal padre.

Jean-Pierre e Luc Dardenne affrontano nuovamente il tema dell'infanzia lasciata a se stessa e indifesa, incapace di trasmettere i propri disagi e spesso costretta a rapportarsi con adulti impreparati ad accogliere le esigenze di un minore. Il ragazzo con la bicicletta (premiato con il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes nel 2011, ex aequo con C'era una volta in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan) consente ai due registi di ribadire il loro punto di vista sul disfacimento della famiglia modello, ovvia conseguenza della più ampia degenerazione del tessuto sociale attuale. Pur non rappresentando la miglior produzione dei fratelli belgi, rigore e coerenza stilistici sono evidenti anche in quest'opera, che per loro stessa ammissione si è rivelata al momento la più ottimista tra quelle girate. 
Alcune differenze sostanziali caratterizzano le riprese de Il ragazzo con la bicicletta rispetto ai lavori precedenti: l'utilizzo di un tema musicale, l'assegnazione di un ruolo primario a un'attrice già nota, e la scelta di ambientare la vicenda d'estate. Una novità, quest'ultima, che ha conferito più luce e colore alle immagini. Inoltre i toni sono stati smorzati, e nel corso della narrazione si respira un'aria fiabesca, peculiarità che fa sperare il pubblico in un lieto fine.
Ciò nonostante, la strada che condurrà Cyril verso un'esistenza più serena è lastricata da momenti di intensa drammaticità. Il ruolo della bicicletta è di fondamentale importanza poiché simboleggia sia il viaggio intrapreso dal ragazzo in compagnia di Samantha, che il cordone ombelicale che lo tiene legato ad un passato costruito sull'insicurezza e sulla paura. Egli procede dunque per tentativi, perché incapace di riconoscere l'amore che la donna gli vuole donare. “Diseducato” all'affettività, brancola nel buio e commette errori madornali prima di apprendere, passo dopo passo, un registro comunicativo che gli è totalmente sconosciuto.
Il riscatto finale arriva nel momento in cui Cyril viene inseguito da un altro adolescente e picchiato per vendicare una rapina da lui commessa. Per la prima volta non reagisce: subisce in silenzio, poi raccoglie la sua bicicletta e torna verso la casa di Samantha, la sua casa.

In onda su Rai 3, giovedì 5 giugno, ore 22.35.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Le gamin au vélo
Anno: 2011
Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne.
Sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne.
Fotografia: Alain Marcoen
Durata: 87’
Attori principali: Jérémie Renier, Cécile De France, Olivier Gourmet, Thomas Doret, Fabrizio Rongione. 

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HUNGER - Il coraggio della disperazione

5/5/2014

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In Irlanda del Nord, nel carcere di Long Kesh, noto anche come Maze, i militanti dell'IRA si ribellano per ottenere il riconoscimento dello status di prigionieri politici, abolito dal Primo Ministro inglese Margaret Thatcher. Dal 1976 al 1981 i detenuti appartenenti all'IRA avviano una serie di proteste, quali la blanket protest e la dirty protest. Gesti estremi, che i condannati spingono fino al limite dell'auto-denigrazione (nel primo caso coprendosi di sole coperte per non indossare le divise carcerarie; nel secondo, evitando ogni forma di pulizia e igiene personale, arrivando a imbrattare le pareti delle celle con i propri escrementi). 
Le guardie della prigione rispondono con una feroce repressione, che il regista Steve McQueen immortala in un bellissimo piano sequenza ambientato in un corridoio, dove gli agenti in assetto antisommossa massacrano di botte i ribelli. Ultimo atto della disperazione è l'organizzazione di due scioperi della fame, iniziati a partire dal 1980. Hunger racconta il secondo sciopero, che coinvolge l'attivista Bobby Sands (un magnifico Michael Fassbender), il quale paga con la vita la sua scelta coraggiosa, morendo di stenti il 5 maggio 1981.
Opera prima di McQueen e vincitore della Caméra d'or al 61° Festival di Cannes, il film non lascia scampo al pubblico, costretto a prendere atto delle sofferenze che certi uomini sono disposti a sopportare per una causa superiore. Evitare la visione di alcune scene, particolarmente crude, equivale a volgere lo sguardo dall'altra parte di fronte alle nefandezze che quotidianamente accadono in ogni parte del mondo. Lo strapotere dell'immagine al giorno d'oggi fa sì che nulla esista se non è visibile: Hunger obbliga lo spettatore ad assistere al disfacimento del corpo di Sands, al deterioramento dei suoi organi, alla putrefazione delle sue viscere. L'intento non è però voyeuristico, ma serve a ricordare che le conquiste dell'umanità spesso passano attraverso la lacerazione della carne.
Le motivazioni che Bobby Sands adduce alla sua dolorosa decisione sono contenute in uno splendido piano sequenza di quasi venti minuti, durante i quali il militante spiega le ragioni che l'hanno spinto allo sciopero della fame a un prete, padre Dom. La moralità dell'atto sta nella convinzione di Sands di compiere un'azione giusta e, per tale ragione, egli affronta con forza il suo destino, pur conoscendone le conseguenze.
McQueen si schiera indubbiamente con i prigionieri dell'IRA, criticando apertamente le scelte miopi del governo inglese e puntando il dito sul regime carcerario al quale sono sottoposti i detenuti, un sistema disumano dove torture fisiche e psicologiche sono all'ordine del giorno. 
Essere disposti a qualsiasi cosa per ottenere un risultato non è di per sé un valore, ma il film non estremizza questo concetto. Hunger narra semplicemente le vicende di un uomo che, con la sola forza della disperazione, è riuscito a cambiare, almeno in parte, la storia. L'esordio cinematografico di McQueen è un lavoro tanto devastante quanto necessario, in quanto ha saputo colmare una lacuna che non poteva restare tale.

In onda su Laeffe, martedì 6 maggio ore 23,30, sabato 10 maggio ore 22.10, lunedì 12 maggio ore 00.40.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Hunger
Anno: 2008
Regia: Steve McQueen
Sceneggiatura: Enda Walsh, Steve McQueen.
Fotografia: Sean Bobbitt
Durata: 96'
Interpreti principali: Michael Fassbender, Liam Cunningham, Stuart Graham, Liam McMahon, Brian Milligan.

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LE IDI DI MARZO - Giulio Cesare in Ohio

26/2/2014

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Il senatore democratico Morris (George Clooney) è candidato alle primarie in Ohio. Il cammino verso la Casa Bianca è irto di insidie e Morris affida dunque la gestione della sua campagna a Paul Zara (il compianto Philip Seymour Hoffman) e a Stephen Meyers (Ryan Gosling), giovane e brillante addetto stampa. Stephen, idealista e puro di spirito, non è stato ancora risucchiato dagli ingranaggi del carrozzone elettorale, ma etica e politica non possono andare a braccetto per molto tempo. Meyers non tarderà a farsi travolgere dagli eventi, imparando a proprie spese come ricatti, scandali e porcherie di ogni genere siano parte intrinseca, se non addirittura imprescindibile, del gioco.
La guerra per il potere da sempre scatena i più bassi istinti dell’uomo, disposto a qualsiasi bassezza pur di arrivare in alto e sovrastare il prossimo, consapevole anche del fatto che chiunque può avere un prezzo. Così, come nella migliore tradizione, menzogne, intrighi di palazzo, tradimenti e congiure non possono mancare: il senatore Morris rischierà quindi di far la fine di Giulio Cesare, come il titolo del film lascia presagire, e all’oramai contaminato Stephen non resterà che prendere atto dell’accaduto, farsene velocemente una ragione ed escogitare in tutta fretta un modo per sopravvivere in un mondo dove, tutto sommato, si trova a proprio agio. Da quel che si intuisce dall’ultima inquadratura, i mal di pancia iniziali sembrano essere abbondantemente superati e già si notano i segni che il contatto con la corruzione ha scavato sul suo volto.
Le idi di marzo, quarto film di George Clooney (in veste anche di sceneggiatore), adattamento cinematografico della pièce teatrale Farragut North di Beau Willimon, è un omaggio al cinema politico degli anni settanta, nonché una ferocissima critica al sistema politico e amministrativo statunitense. Complici un’ottima sceneggiatura e inquadrature efficaci, Clooney porta a galla tutto il marcio che sta dietro la corsa al potere (e poco importa se si tratta del partito democratico o di quello repubblicano). La vera piaga della politica contemporanea, non soltanto made in the USA, sta nel fatto che il machiavellico fine che giustifica i mezzi si è ridotto al conseguimento dell’interesse personale del candidato.
L’esigenza da parte di una certa cinematografia americana di denunciare lo stato delle cose, pur non potendo fornire rapide soluzioni (che probabilmente non esistono), si è inoltre concretizzata nella serie TV targata Starz Boss, la cui prima stagione risale al 2011, anno di uscita nelle sale de Le idi di marzo. Boss narra le vicende del sindaco di Chicago Tom Kane (Kelsey Grammer), ancor più spietato del senatore Morris e del suo entourage. Il sindaco Kane priva lo spettatore dell’ultimo barlume d’illusione, poiché fa capire che il sudiciume parte da molto in basso e coinvolge la gestione del bene pubblico sin dai livelli infimi e meno importanti.
Anche se ne Le idi di marzo sono presenti gli elementi classici della tragedia, Clooney va oltre, puntando il dito sul potere mediatico che condiziona e di fatto decide l’esistenza dei rappresentanti politici, senza minimamente preoccuparsi degli effetti che potranno avere gli scoop nella loro vita privata e affettiva.
La conclusione non può che essere degna di un dramma e lasciare l’amaro in bocca. Un buon addetto all’ufficio stampa laverà in casa i panni sporchi e, nonostante la colpa vada attribuita a tutti gli attori in scena, essa ricadrà inevitabilmente sull’immancabile capro espiatorio. Il vincitore non potrà davvero dirsi tale perché ha pagato un prezzo troppo elevato per il successo. E il pubblico non potrà fare a meno di pensare che la tragica fine in realtà rappresenti l’inizio di un gioco che si farà ogni giorno più duro.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: The Ides of March
Anno: 2011
Regia: George Clooney
Sceneggiatura: George Clooney, Grant Heslov, Beau Willimon
Fotografia: Phedon Papamichael
Colonna sonora: Alexandre Desplat
Durata: 101’
Uscita in Italia: 16 dicembre 2011 nelle sale (il 31 agosto 2011 in prima mondiale al Festival di Venezia).
Attori: George Clooney, Ryan Gosling, Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Evan Rachel Wood, Marisa Tomei

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FURYO - Merry Christmas, Mr. Lawrence

27/1/2014

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Seconda guerra mondiale, 1942. A Giava, in un campo di prigionia giapponese, il comandante Yonoi (Ryuichi Sakamoto) e il sergente Hara (Takeshi Kitano) maltrattano i detenuti, in gran parte britannici, sottoponendoli a inutili crudeltà. L'ufficiale inglese Lawrence (Tom Conti), che conosce la lingua nipponica, si prodiga per ottenere condizioni di vita meno disumane per i suoi commilitoni, ma ogni tentativo di mediazione è destinato a fallire a causa di un rigidissimo codice militare e dello smisurato senso dell'onore giapponese. L'arrivo del maggiore britannico Jack Celliers (David Bowie) complicherà ulteriormente la situazione, dato che il nuovo prigioniero scatenerà in Yonoi una passione morbosa. E quando lo sfrontato Celliers bacerà il comandante nipponico in pubblico, il gesto segnerà ineluttabilmente il destino di entrambi. 
Film di Nagisha Oshima del 1983, tratto da The Seed and the Sower, un romanzo di Laurens Van Der Post, Merry Christmas, Mr. Lawrence è entrato meritatamente a far parte della storia del cinema grazie alla magnifica colonna sonora di Ryuichi Sakamoto e a uno straordinario quartetto di attori. Furyo, titolo con il quale è conosciuto in Italia, significa “prigioniero di guerra” in giapponese.
Oshima, analizzando il tema del legame omosessuale che unisce Yonoi e Celliers, mette a confronto due tradizioni che si incontrano e, inevitabilmente, si scontrano. Attrazione e rifiuto sono le due facce della stessa medaglia, e non riguardano soltanto il rapporto tra il comandante del campo e l'ufficiale britannico, ma sono anche il simbolo del contrasto tra Oriente e Occidente. Contrasto che, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, ha sconvolto profondamente la società nipponica, catapultata all'improvviso da un remoto passato alla (post)modernità. Un conflitto culturale che ha provocato uno squarcio profondo all'interno del Paese del Sol Levante. Che cosa ne è stato dunque del samurai, dell'uomo tutto d'un pezzo che temeva più la vergogna che la morte, dopo la contaminazione occidentale? Non a caso il feroce sergente Hara, il quale sostiene che non si conosce un giapponese se non si è mai visto un harakiri, nel corso della scena finale del film, prima dell'inutile condanna a morte, augura a Lawrence “Buon Natale” in un inglese stentato. 
Oshima però non sembra interessato a riflettere sulla disgregazione postbellica del tessuto sociale nipponico (tema carissimo al maestro Yasujiro Ozu), ma racconta invece un dramma intimo e, tuttavia, universale. Per sottolineare che i dolori e le passioni dell'individuo riguardano tutti gli esseri umani, nonostante la storia e le tradizioni siano differenti. Yonoi e Celliers sono entrambi lacerati da un episodio accaduto nella loro vita passata che condiziona il loro presente; inoltre, la repulsione di Yonoi per gli Occidentali non gli impedisce di infatuarsi del maggiore inglese. Oshima mette quindi in scena la tragedia dell'umanità intera, che raggiunge il suo apice nella scelta senza senso dell'uso della forza per la risoluzione dei conflitti. Un'opzione scellerata che, anche in questo caso, pare accomunare uomini di ogni parte del mondo. E infatti, a ben guardare, lo stato maggiore britannico non è poi meno crudele di quello giapponese.
Due curiosità: nel film non compaiono donne, forse con l'intento di mettere ancor più in evidenza il culto della virilità presente all'epoca nel Paese del Sol Levante (la donna aveva un ruolo in società esclusivamente in qualità di moglie e madre). Nei titoli di testa e di coda l'attore/regista Takeshi Kitano viene citato soltanto come Takeshi.

Serena Casagrande

In onda domenica 2 febbraio, su Rai Movie, ore 04:35

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Senjo No Merry Christmas (Japan), Merry Christmas, Mr. Lawrence (International)
Anno: 1983
Regia: Nagisha Oshima
Sceneggiatura: Nagisha Oshima, Paul Mayersberg
Fotografia: Toichiro Narushima
Colonna sonora: Ryuichi Sakamoto
Durata: 122'
Interpreti principali: David Bowie, Ryuichi Sakamoto, Takeshi Kitano, Tom Conti, Jack Thompson

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FILM IN TV - Suggestioni natalizie

23/12/2013

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Puntuali come ogni anno, al sopraggiungere delle festività invernali, le nostre emittenti Tv rovistano nel loro archivio per presentare un palinsesto carico di film natalizi, classici senza tempo, cartoni animati e cinema d’autore. Il piccolo schermo una volta tanto lo è un po’ meno, sostituendosi al grande come una sorta di rifugio per schiere di cinefili in fuga dalle sale affollate dalle solite commedie italiane. 

Proviamo dunque a districarci nella miriade di proposte filmiche che i nostri canali hanno in serbo in questi giorni di festa, scegliendo alcuni tra i titoli più interessanti. La sera della Vigilia di Natale Italia 1 propone come da tradizione Una poltrona per due (21.10), commedia di culto di John Landis interpretata dagli scatenati Eddie Murphy e Dan Aykroyd. Su Italia 2 alla stessa ora è di scena Coraline e la porta magica, ispirato film d'animazione in stop-motion realizzato da Henry Selick, già autore insieme a Tim Burton dell’inarrivabile Nightmare Before Christmas. Sempre in prima serata La7 propone Angeli con la pistola, l’ultimo film diretto dal grande Frank Capra, qui alle prese con il remake del suo Signora per un giorno girato quasi trent’anni prima, mentre alla stessa ora su Rai 5 va in onda Regalo di Natale di Pupi Avati. 
Segnalazione d’obbligo per la seconda serata di Rai 3 che alle 23.15 propone Fantastic Mr. Fox, un altro gioiello d’animazione in stop-motion realizzato da Wes Anderson, che nell’adattare un racconto di Roald Dahl non rinuncia affatto al suo inconfondibile e irresistibile marchio di fabbrica, riconoscibile a prima vista da ammiratori e detrattori.

Il giorno di Natale si apre con un classico dei classici natalizi tratto sempre dall’inesauribile fantasia di Roald Dahl, Willie Wonka e la fabbrica di cioccolato (Canale 5 ore 11.00). Ovviamente stiamo parlando del film diretto da Mel Stuart nel 1971 e magnificamente interpretato da Gene Wilder, poi rifatto qualche anno fa, in maniera non del tutto riuscita, da Tim Burton. La serata di Rai 2 si apre alle 21.00 con Paperman, meraviglioso e poetico cortometraggio muto in bianco e nero della Disney uscito al cinema appena un anno fa in abbinamento al film d’animazione Ralph Spaccatutto. A seguire - sempre sullo stesso canale - Cars 2 della Pixar, sequel assai meno riuscito rispetto al suo predecessore, che vede impegnati Saetta McQueen e Carl Attrezzi in una spy story in giro per il mondo. 
Da non perdere assolutamente la serata di Rai 3 che propone due film che negli ultimi anni hanno conquistato il pubblico internazionale con la loro accurata rivisitazione del cinema muto. Alle 21.10 è in programma The Artist, pellicola acchiappa Oscar diretta dal francese Michel Hazanavicius e interpretata da Jean Dujardin, impegnato qui in uno spudorato omaggio a Gene Kelly, e dalla splendida Bérénice Bejo. A seguire l’incantevole Blancanieves, uscito nei nostri cinema appena due mesi fa, del regista spagnolo Pablo Berger: una nuova, sorprendente rivisitazione in bianco e nero della favola di Biancaneve vincitrice di 10 premi Goya, e capace di coniugare le atmosfere fiabesche con l’omaggio al cinema muto, mantenendo un’originale e coraggiosa impronta autoctona. Se invece amate il cinema di Alfred Hitchcock potete sintonizzarvi su Top Crime, che a partire dalle 12.45 con Topaz dedica l’intera giornata ai grandi classici del maestro del brivido programmando titoli come Nodo alla gola (19.30), L'uomo che sapeva troppo (21.05) e Marnie (23.20). Pregevole infine la scelta di La7, che dedica la serata al cinema francese iniziando alle 21.10 con Le petit Nicholas di Laurent Tirard (con Kad Merad) per poi proseguire subito dopo con Monsieur Batignole. 

Il pomeriggio di Santo Stefano comincia nel migliore dei modi, con la prima tv in chiaro (su Rai 1 alle 14.10) del film L’ultimo pastore, esordio nel lungometraggio di Marco Bonfanti. Un’opera impossibile da etichettare o catalogare, una sorta di documentario dai toni fiabeschi e stralunati incentrato sulla figura di Renato Zucchelli, uno degli ultimi pastori italiani dediti all’antico mestiere della transumanza, un ritratto poetico dell’ultimo dei sognatori. Se siete refrattari al buonismo natalizio potete rifugiarvi su La7 che alle 21.10 propone Parenti serpenti, un feroce e divertito ritratto della famiglia italiana firmato dal grande Mario Monicelli. Alla stessa ora MTV propone invece La storia infinita, un fantasy di culto degli anni ’80, mentre su La Effe alle 21.30 è di scena American Life, una delle pellicole meno note di Sam Mendes. 
Spazio al cinema d’autore su Rai 3 che alle 23.05 propone la prima tv in chiaro dell’ultimo film del maestro Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone. A tarda notte su Rai Movie (0.50) va in onda La conversazione, uno dei capolavori di Francis Ford Coppola, impreziosito dalla gigantesca interpretazione di Gene Hackman. Un film enorme, premiato nel 1974 a Cannes con la Palma d'Oro, che ancora oggi riesce a farci sentire quel senso di paranoia che serpeggia al suo interno e tutta la malinconia e il disincanto tipici della New Hollywood dei bei tempi che furono. 

Ancora grandi classici Disney nella serata di venerdì 27 con Rai 1 che alle 21.10 manda in onda Lilli e il vagabondo, evergreen destinato ad ammaliare numerose generazioni di bambini. Alla stessa ora su Rai Movie è di scena Sir Alfred Hitchcock con Caccia al ladro mentre su La Effe è possibile ammirare per l’ennesima volta Jules e Jim, film epocale del grandissimo François Truffaut. Sempre sullo stesso canale alle 0.50 trova ancora spazio il grande cinema francese con il meraviglioso Amanti Perduti di Marcel Carné.

La giornata di sabato 28 si apre alle 13.00 su Rai Movie con il leggendario western Pat Garrett e Billy the Kid dell’indomabile Sam Peckinpah e prosegue in prima serata sullo stesso canale con il bellico The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, trionfatore alla notte degli Oscar del 2010 con ben sei statuette. La notte di Fuori Orario è dedicata al cineasta cileno Raoul Ruiz con la versione cinematografica del suo I misteri di Lisbona, trasmesso in chiaro per la prima volta dopo la messa in onda della versione tv in sei puntate.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film in Tv

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THE ELEPHANT MAN - Sono un uomo

10/10/2013

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Potrei raccontarvi di una notte nebbiosa, con viaggi in auto e dolori improvvisi e lancinanti al dente del giudizio; una notte di gonfiore al viso, di deformità, della mia gratuita osservazione “Sembro the elephant man!”. E invece è di mostri che voglio parlare, mostri con un nome, gente che non si poneva il problema di un lieve gonfiore alla guancia.
C’erano quei Freaks di Tod Browning, per citarne alcuni. Quelli che prendevano il pubblico per lo stomaco: la pinhead Schlitzie dalle innocenti vanità di bambina, il Prince Randian che aveva imparato a sopravvivere usando solo la bocca. Fuori dallo schermo, c’era l’impossibile felicità per Julia Pastrana e l’obiettivo spregiudicato di Diane Arbus sempre a caccia di umanità dimenticata. Oggi ci sono trasmissioni scioccanti a ora tarda, trionfo di medici che scuotono il capo. C’erano le carovane del circo per gli inavvicinabili mostri, ieri. Oggi c’è la credenza, propria di alcune culture, che un’inficiante deformità sia il segno di Dio. O del demonio. Da correggere in sala operatoria.
Nel 1862 nasceva un uomo di nome Joseph Merrick, malato di neurofibromatosi: il suo viso deturpato e il corpo deforme gli valsero il soprannome di uomo elefante. Lo stesso imprigionato da Sir Frederick Treves in un romanzo. Lo stesso che David Lynch si propone di raccontare in un film che scansa accuratamente il baratro del patetismo e sceglie di mettere a fuoco la semplicità dei sentimenti.
Merrick (John Hurt) è uno dei mostri da osservare sfilando fra le gabbie, un errore di natura, proprietà esclusiva del laido e crudele Zampanò della situazione. L’uomo elefante avrebbe vent’anni se vivesse fuori dall’inferno circense, se avesse un viso pulito e un motivo per sorridere.
Esposto come une bestia rara, Merrick attira l’attenzione del medico Treves (Anthony Hopkins). Agli occhi di questi, il ventenne è un caso clinico tutto da studiare per amore di carriera. Viene preso, Merrick, e portato in una stanza d’ospedale. Strappato alla meschinità del suo padrone e gettato sotto il telescopio di uno scienziato dai modi gentili. 
Non è amicizia, in principio. È una stanza dove l’uomo elefante può sistemare se stesso e il carico leggero della propria personalità inespressa. Un luogo in cui rinascere, per scoprire quel ragazzo che la natura ha punito con lo sfregio: un luogo di piccoli cassetti, abiti puliti, pezzetti di carta, finestre che scrutano la luna, dialoghi con Dio. 
Ben presto la natura di Merrick emerge e toglie il fiato. La sua gentilezza, quel suo timido ottimismo di fronte alle strettoie della vita, quella gratitudine dirompente e quasi infantile, fanno pericolosamente oscillare le rigide ambizioni del medico. "Sono un uomo buono o un uomo cattivo?" chiede il dottor Treves, ora che la farfalla che studiava con la lente d’ingrandimento ha rivelato un cuore. 
È un uomo buono, Treves. Risponde all’affetto di Merrick col dono impagabile dell’amicizia. L’uomo elefante ora è solo un uomo. Sono un uomo, affermerà lui stesso davanti al raccapriccio di una bambina che lo guarda in viso. Solo un uomo – almeno a parole - anche per quella stampa famelica e rumorosa che vuole accendere un nuovo, opprimente riflettore sulla diversità. Un fenomeno fuggito al baraccone per divenire nuova attrazione della società vittoriana. Tutti, inclusa la bella attrice Miss Kendall (Anne Bancroft), vogliono fregiarsi della conoscenza con l’uomo elefante. E non manca chi, dall’ombra, medita di soffocarlo nuovamente fra gli infidi tentacoli del circo. 
Spettacolo e mostruosità in un film maestro di delicatezza, a cominciare dalla scelta di quel romantico bianco e nero che attutisce il senso di orrore e sfuma dolcemente il contorno ai ricordi. Merrick, rinato uomo a vent’anni, osserva dalla finestra la punta del campanile della cattedrale e chiede alla fantasia di regalargli l’immagine del monumento per intero. Gradualmente riproduce quel modellino con la carta dando vita a una piccola costruzione perfetta, prodigio di mani attente. Via via che la cattedrale si completa Merrick esplora il suo inconscio, trovando l’uomo che l’elefante ha cercato di schiacciare, il ragazzo che può tornare a galla respirando.
Questo classico firmato Lynch non si presta alle consuete dietrologie del caso: è una preziosa storia di umanità, la cronaca fedele di una diversità che va impugnata e non subita, una vicenda semplice di amici che si tendono la mano, una fotografia nitida di società adorante e al contempo recalcitrante di fronte a ciò che è difficilmente omologabile. È soprattutto la storia di una cattedrale di carta, che rivela la maestosa grandezza di mura sconosciute sotto la prua solitaria di un campanile. Storia di identità ripescata a fatica. E ricostruita. Desiderata sino al pericoloso eccesso.
A tutte le farfalle prigioniere di una lente va il mio pensiero. A Schlitzie, a Prince Randian, a Julia Pastrana, a Joseph Merrick.

In onda su Iris, lunedì 14 ottobre, ore 23.25.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: The Elephant Man
Anno: 1980
Durata: 123'
Regia: David Lynch
Soggetto: Sir Frederick Treves, Ashley Montagu
Sceneggiatura: Christopher De Vore, Eric Bergren, David Lynch
Fotografia: Freddie Francis
Montaggio: Anne V. Coates
Attori: Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft, John Gielgud

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URLO - Contro il Moloch

13/8/2013

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Nel 1955, la Six Gallery di San Francisco vide per la prima volta il poeta Allen Ginsberg impegnato in una recitazione pubblica del suo Urlo, futuro manifesto della Beat Generation. Un poema sboccato e fluviale, suadente e affastellato nella scrittura, controverso come pochi altri nella storia della letteratura mondiale. Qualche anno dopo il City Light Bookstore lo pubblica e l’editore Lawrence Ferlinghetti e il testo di Ginsberg finiscono sotto processo per un’accusa di oscenità che sfocia anche in una messa in discussione del reale valore letterario dell’opera. 
Il film di Rob Epstein e Jeffrey Friedman si approccia all’Howl di Ginsberg e agli eventi giudiziari ad essa connessi con umiltà ma anche con la giusta consapevolezza dei propri mezzi: non azzarda né una trasposizione immaginifica (sarebbe stata una pretesa da pazzi) né un biopic sul personaggio di Ginsberg in senso stretto, e sceglie piuttosto la via fertile di un punto d’incontro tra diverse forme comunicative: la declamazione del poema riprodotta da un mimetico James Franco, stralci di film d’animazione che riproducono alcuni squarci del testo letterario e una manciata di interviste a cuore aperto in cui il Ginsberg di James Franco rivela molto di sé, della sua anima, del suo genio lunatico, forse strampalato, di sicuro spiazzante e necessario. 
Una scelta opportuna e centrata dal punto di vista espressivo quella di Epstein e Friedman, che conferisce al film l’identità ibrida di un oggetto polifunzionale senza però snaturarla troppo o ridurla a una semplice giustapposizione di esiti e forme d’arte molteplici ma in fondo sfilacciati e non dialoganti tra loro. Tutt’altro. Pur con qualche ingenuità e una serie di passaggi un po’ bozzettistici, il loro Urlo restituisce tutta la forza appassionata e febbricitante di un testo che bisognerebbe sempre ascoltare pensandolo recitato dinanzi alle porte dell’Inferno, il solo scenario mentale adeguato per la melma erotica e liberissima dei versi ginsberghiani. 
Quella dei due registi è una requisitoria di straordinaria libertà, inneggiante all’unione dei linguaggi, aperta alle contaminazioni stilistiche e agli orizzonti formali che la parola scritta in rapporto all’immagine è in grado allo stesso tempo di fornire e delimitare. Una ricognizione redatta in modo talmente dignitoso che Urlo funziona bene anche come documento storico, come analisi del costume di un’epoca, non solo come canto di libertà non uniformato e fine a se stesso nel suo rifiuto di ogni istanza bacchettona e oscurantista. 
Il film è disarticolato, frammentario, refrattario agli equilibri interni, ma generosissimo e inarginabile, prodigo di sollecitazioni e stimoli. Forte della musica di Carter Burwell e della bella fotografia del geniale Ed Lachman (due indiscusse autorità nei loro rispettivi territori artistici), la multimedialità dell’opera offre una risposta tutt’altro che riduttiva e di poco conto alla domanda primaria: come dar vita sul grande schermo a un’opera così particolare per ritmo, umori, colori, perversioni? 
Col suo eclettismo poliedrico, i due registi hanno messo in piedi una groviera di sensazioni e “nuove visioni” nel senso rimbaudiano del termine, che parte dal documentarismo spettrale delle loro esperienze precedenti (Epstein ha firmato The Times of Harvey Milk, da cui il film di Gus Van Sant dedicato all’attivista omosessuale) per approdare alla traduzione sui generis di un’opera attualissima e importante ancora oggi. Un oggi in cui il conformismo ha ormai preso il sopravvento, ogni urlo è stato silenziato e non è rimasto più quasi più nessuno a combattere il Moloch, o almeno ad osteggiarlo. 

Davide Eustachio Stanzione

In onda su Rai Movie, 15 agosto ore 21.15

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Howl                                                                                                            
Regia e sceneggiatura: Rob Epstein, Jeffrey Friedman                                                               
Fotografia: Edward Lachman 
Montaggio: Jake Pushinsky
Musiche: Carter Burwell 
Anno: 2010
Durata: 86’
Interpreti: James Franco, Aaron Tveit, Mary-Louise Parker, Jon Hamm, Jeff Daniels, David Strathairn

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