ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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GIORNATE DEL CINEMA MUTO 35 - Nel segno di Nanà

11/10/2016

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​The Mysterious Lady con la Garbo e Il ladro di Bagdad con Douglas Fairbanks jr., quest'ultimo con l'esecuzione della partitura originale ricostruita: sono i titoli scelti per le serate iniziali e finali delle Giornate del Cinema Muto, al solito mirate anche al pubblico cittadino che per il resto (salvo le consuete comiche sonorizzate da studenti delle medie: quest'anno è toccato a due Buster Keaton, Neighbors e The Balloonatic) è parso scarsamente interessato, meno di un tempo. In verità anche il pubblico di appassionati e “addetti ai lavori” non è stato numerosissimo, sebbene lo zoccolo duro ci sia sempre e il teatro alcune volte lo si sia visto pieno. Anche con Monte-Cristo di Henri Fescourt, trasposizione che strizza il romanzo di Dumas in tre ore e quaranta: l'anno scorso era passato l'ancora più lungo Les misérables, dello stesso regista.
Pochi dubbi sul lungometraggio più bello visto a Pordenone da chi scrive: Nana di Jean Renoir. Secondo film del regista, ha nel ruolo principale la moglie, Catherine Hessling. I due portano sullo schermo non una seducente vamp ma una sorta di pupazzo grottesco, smorfioso e agitato, che col suo modo di fare rende spiccatamente patetici gli uomini che per lei perdono la testa e che manovra e sottomette. Più di una sequenza pressoché perfetta (ad esempio il can-can verso la fine, quando per Nana inizia il declino) e almeno un'inquadratura da sindrome di Stendhal (il conte Moffat che sale la scalinata per unirsi all'amante; le scenografie sono di Claude Autant-Lara), in un classico che non esclude una componente di umorismo. Secondo probabilmente Der Adjutant des Zaren con Ivan Mozhukin (visto anche in Kean ou désordre et génie di Alexander Volkoff, personaggio che ama e soffre tra palcoscenico e realtà), principe russo che rischia grossissimo legando a sé una ragazza sotto falsa identità, che si rivela un pericolo e in pericolo: una sorpresa, caratterizzata da intensità e tensione narrativa e visiva sempre vive. 
Tornando a Nana, lo stesso giorno si è visto uno dei ritrovamenti principali in programma: Nanà, adattamento italiano del romanzo con protagonista Tilde Kassay. Risultato artistico un poco scialbo, rispetto alla materia, anche se la stessa Kassay, pur non ottima, contribuisce a donargli vita. Peccato per la copia in digitale proiettata, modesta e con parte dell'immagine fuori quadro – non è stata l'unica copia deludente quest'anno, a conferma che digitale non equivale in automatico a benvenuto progresso – . Sempre per “Riscoperte e restauri”, la versione russa dell'inglese Three Live Ghosts di George Fiztmaurice, primo film sopravvissuto a cui lavorò Hitchcock, nelle didascalie (perdute) e nelle scenografie (almeno come aiutante). Il rimaneggiamento del film, che per esempio aggiunge un'introduzione ideologica (sulle differenze tra classi) è intuibile vedendolo, perché il risultato è un po' strampalato, ma godibile; da segnalare la nostra incredulità leggendo le didascalie relative al personaggio dello smemorato, che originariamente era un conte ma in questa versione diventa un ex cantante lirico chiamato... Renzi.
Anna Q. Nilsson, attrice in questo film, ci porta a un altro ritrovamento: Who's Guilty? (1915), in cui affianca Tom Moore. Non la prima di alcune serie ambiziosamente drammatiche della Pathé Exchange (il ramo americano della casa), è composta da 14 episodi (quelli ritrovati sono 10) auto-conclusivi, che propongono storie di amori, famiglie, carriere ostacolate, in un succedersi di avvenimenti di segno negativo che portano a finali drammatici e si concludono col titolo della serie, come a porre allo spettatore la domanda lì contenuta – e la risposta, si intende, non è affatto semplice, forse non c'è. Eccessi drammatici, tra svenimenti e morti, e schematicità portano il peso degli anni, ma si può dire che gli episodi funzionano ancora, li si vede stando dalla parte di questi protagonisti inabili alla felicità.
Collegato alla proiezione del Ladro di Bagdad, l'omaggio a William Cameron Menzies, che prima di essere regista di La vita futura è stato disegnatore dei set e “technical director” - praticamente co-regista per quanto concerneva il set in sé e non la direzione degli attori - , lavorando su film eterogenei di registi quali Raoul Walsh - per Il ladro... - e Lewis Milestone - The Garden of Eden: anche in una spiritosa commedia di ambientazione sofisticata si nota l'importanza del suo contributo. “Spesso è il set stesso a far ridere”, disse, vedi la gag delle luci che vengono accese e spente alternatamente, per un equivoco, dagli inquilini di un intero palazzo – e Sam Taylor, che è l'unico accreditato tra i registi di Tempest, ambientato durante la rivoluzione russa – uno dei due film col quale Menzies vinse il suo Oscar (l'altro è The Dove, in programma) – e che firma insieme a Henry King The Woman Disputed, spy story che porta i segni dell'espressionismo tedesco, in via di importazione negli Usa.
Meritevole anche se ristretto il focus su John H. Collins – e la bella moglie e attrice Viola Dana che lavorò spesso con lui – , regista statunitense il cui talento fu all'epoca notato ma la carriera stroncata dalla morte prematura. In programma alcuni film dal 1914 al 1918, come gli iniziali per la Edison –  come il dramma di vendetta al femminile The Cossack Whip – e The Girl Without a Soul, realizzato  alla Metro, con la Dana che si sdoppia in due sorelle, una delle quali mette nei guai il fidanzato dell'altra perché manipolata da un millantatore: ideologicamente non sempre persuasivo ma stilisticamente il film è padroneggiato.
La quota di comicità è stata assicurata dalla sezione sulle Christie comedies, con programmi di brevi film prodotti e/o diretti da Al Christie, che ad un certo punto della carriera creò una compagnia col fratello Charlie per produzioni che venivano distribuite attraverso case come la Paramount; la sua attività durò fino alla fine degli anni Venti con successo, anche se oggi non è certo noto come Hal Roach o Mack Sennett. Eddie Lyons e Lee Moran furono una sua coppia forte e le comiche in generale sono di livello medio: No Parking si fa notare perché richiama One Week di Keaton, anche se chiaramente è molto meno incisiva e geniale.
In proseguimento le sezioni “Origini del western” e “Altre sinfonie della città”. Anche nella prima si è visto un programma al femminile e femminista, che a fianco di “film di cowboy” e “film di indiani” ha proposto alcuni “cowgirl film”: The Craven (1915) della Vitagraph colpisce per il  rovesciamento dei ruoli di genere abituali (non un unicum, a quanto si legge) ma anche per alcune inquadrature di pregio, nello scontro tra il ricercato e la protagonista, che lo va a stanare al posto del marito rivelatosi assai pusillanime. Quanto alle sinfonie, São Paulo, a symphonia do metrópole (1929) inizia in modo tradizionale ma non privo di suggestività, ma alla lunga esagera in autolodi e boria nazionalista, fino a risultare interminabile (i “falsi” finali hanno strappato risate in sala). Al contrario, gli undici minuti di Halsted Street di Conrad Friberg, un attraversamento di Chicago lungo la via del titolo, scorrono ad alto ritmo tra insegne e passanti, ripetizioni e accostamenti ironici.
Quanto all'animazione, un altro “ritrovato” di prestigio: Africa Before Dark è un corto Disney del 1928 con il predecessore di Mickey Mouse, il coniglio Oswald. E molte proiezioni sono state introdotte da brevissime animazioni a colori restaurate di recente da anelli cromolitografici tedeschi, “il più antico esempio di animazione nel cinema”, strisce vendute come corredo da utilizzare in lanterne magiche utilizzate, come giocattolo, per uso domestico.
Le scelte del neodirettore Jay Weissberg (e dei collaboratori) sono sembrate in linea con le edizioni precedenti: il  festival rimane soddisfacente, ma non dispiacerebbe qualche cambio. Più titoli (cinque, quest'anno, compreso Sono nato, ma... di Ozu) nella sezione “Il canone rivisitato”, se non una retrospettiva più estesa, o forse un poco più di organicità. Questo, ovviamente, budget permettendo: vedremo la prossima edizione, nella quale tra l'altro si chiuderà l'omaggio a Luca Comerio, operatore del primissimo cinema italiano.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Report

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CINEMA MUTO 34 - Canoni e "novità"

14/10/2015

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Segnali contrastanti: questa l'impressione frequentando l'edizione numero 34 del festival friulano. Che a fronte di un programma soddisfacente, ha visto un calo generale di spettatori, compensato da alcune proiezioni sold-out: la serata di apertura con Maciste alpino, restaurato e reintegrato di alcuni minuti; quella di chiusura con Il fantasma dell'Opera; la comica con Laurel & Hardy da poco in coppia The Battle of the Century, a suon di torte in faccia, di cui è stato ritrovato il secondo rullo; ma anche il godibilissimo Il segno di Zorro con Douglas Fairbanks. Apprezzabile novità le presentazioni di libri, mentre ampio rilievo è stato dato alla notizia del cambio al vertice: dopo 19 edizioni, l'anno venturo David Robinson passerà la mano a Jay Weissberg, corrispondente a Roma di “Variety”.

Tentando un sunto del programma, si può partire con gli autori più noti. Come Lubitsch, di cui si sono visti Romeo und Julia im schnee (Romeo e Giulietta sulla neve), aggiornamento della storia senza finale tragico, e uno dei film migliori proposti da quest'edizione, La bambola di carne, traboccante malizia e humour (basti già l’inizio, col regista-demiurgo che dà l’avvio a tutto sistemando un modellino della scenografia). O come Eisenstein, con la potente sinfonia politica per immagini Ottobre. Il fluviale Les misérables (1925) ha segnato la giornata del 7: ricostruzione del capolavoro di Victor Hugo in quattro parti (dalle cinque del romanzo), diretta da Henri Fescourt, noto anche per cinéroman a episodi come questo.
Un po’ di alleggerimento con alcuni film di Victor Fleming, tra titoli noti e altri non risparmiati dal tempo. When the Clouds Roll by, ultima commedia per Fairbanks nei panni di un superstizioso cronico, satireggia la psichiatria: se il bizzarro passaggio del pasto pesante, in cui attori travestiti da cibi si scatenano nello stomaco del protagonista, si riallaccia al noto Dream of a Rarebit Fiend di Edwin S. Porter, la visualizzazione di un conflitto in atto nella sua mente è difficile non faccia pensare oggi a Inside Out. Ma vanno citati anche gli efficaci momenti onirici e il lieto fine che segue un’inondazione. Ancora Fairbanks in The Mollycoddle, dove il climax spettacolare è una frana, e siamo ancora nella commedia con il per certi versi più moderno Mantrap, con Clara Bow. To the Last Man ha per direttore della fotografia James Wong Howe (poi due volte premio Oscar), agli inizi; solo un frammento invece per The Way of All Flesh, primo film americano con Emil Jannings, nei panni di un impiegato di banca la cui vita va in rovina, amato da David Wark Griffith.
Fairbanks non è stato l'unico a sfoggiare energia sullo schermo del teatro Verdi: “Muscoli italiani in Germania” ha proposto alcuni film con due nostri attori, Luciano Albertini e Carlo Aldini, che ebbero grande fortuna anche e soprattutto in quel paese. Del primo, Mister Radio ha esaltato la sala nel segno del superamento della soglia di incredulità, con le sue vertiginose scene a testa in giù tra le rupi, mentre Il globo infuocato è un film più vivace come andamento e meno “a sensazione”, accompagnato in modo pimpante dalla Zerorchestra.

Nel “Canone rivisitato”, The Mysterious X di Benjamin Christensen, storia di spionaggio i cui valori e l'effettismo dell’ultima parte spingono oggi al riso, e il rigore e l’originalità formale de L’inhumaine, diretto da un Marcel L’Herbier alla guida di diversi esponenti dell’avanguardia parigina anni ’20, come Fernand Léger, che curarono i décor. Tra le “Riscoperte e restauri”, Drifting aka La perduta di Shanghai di Tod Browning e uno dei ritrovamenti più attesi: lo Sherlock Holmes del 1916, prodotto dalla Essenay e interpretato da William Gillette, attore cui si deve anche l’iconografia del personaggio. Der Tunnel, film tedesco del 1915, ipotizza un po’ goffamente la costruzione di una galleria per viaggiare tra Europa e Usa – e un sistema di trasmissione video a distanza – . Colpiscono le movimentate scene di massa e alcune belle inquadrature con la folla che guarda in su, verso la camera. Nel programma “Girls Will Be Boys”, una delle visioni più strampalate: la comica prodotta da Hal Roach What’s the World Coming to?, che ipotizza un futuro di uomini effeminati e delicatissimi e donne sicure di sé che li predano. Puntate slapstick a parte, è sicuramente terrorizzante per i seguaci del gender.
Secondo atto per “Risate russe”, con una selezione di commedie sovietiche, “genere indubbiamente rischioso, ma non proibito”. I film visti infatti cercano, con discreti risultati, di bilanciare umorismo e messaggi di propaganda, per un'iniziativa del regime nel caso di Can't You Just Leave Me Out? – lo spunto iniziale è la nascita di una catena di mense popolari, che il protagonista scopre meravigliose – , per l’educazione dei giovani nel caso di Wake Up Lenochka, con la 25enne Yanina Zheimo abbastanza credibile come ragazzina perennemente in ritardo a scuola. Primo atto invece per “Origini del western”, sugli anni di nascita e fermento di questo genere prettamente americano, anni in cui ogni possibilità tematica e narrativa fu “esplorata, vagliata e codificata”. Brevi film di case come la American Film Manufacturing Company e alcuni nomi noti tra i registi, come Allan Dwan, di cui The Vanishing Race colpisce per la tristezza nel mettere in immagini una vicenda di isolamento e vendette tra bianchi e indiani.

“Altre sinfonie delle città” ha mostrato una nutrita serie di lavori appartenenti a quel “genere”, praticato negli anni ‘20 e ’30 – quindi sconfinando nel sonoro – , che raccontava le città tra astrazione, documentarismo e un’ambivalenza nei confronti della modernità urbana. Titolo più noto l’esordio di De Oliveira Douro, faina fluvial, con protagonisti i lavoratori sulle sponde del relativo fiume. Poi immagini di Chicago, Praga, Liverpool, ma anche i focus più ristretti delle “Sinfoniette di quartiere” come Montparnasse di Eugéne Deslaw.
Dall’America latina segnalabili El tren fantasma di Gabriel Garcia Moreno, ispirato da The General di Keaton e quel che resta del serial El automóvil gris, basato sulle gesta di una vera banda criminale: in entrambi i casi si nota l’influenza del cinema Usa. L’attore, cantante, fondamentale esponente della comunità nera Bert Williams ha goduto di una sezione incentrata su di lui, comprensiva della ricostruzione dell’incompiuto Lime Kiln Club Field Day, datato 1913. Punto forte della sezione “Cinema delle origini” i film sopravvissuti di e con Leopoldo Fregoli, celeberrimo attore trasformista, presentati da Arturo Brachetti. L'artista torinese considera Fregoli come colui che iniziò la sua arte, anche se la rapidità delle sue gesta sul palco è lontanissima da quel che faceva a vista il pioniere (anche nell'utilizzo del cinema, a fine '800, per documentarsi) romano.
Nella sezione “Ritratti” il documentario su Gaston Méliès, fratello di Georges che girò film negli anni '10 in paesi lontani quali Polinesia e Cambogia. A riprova che nonostante la lunga stagione del muto sia chiusa – salvo estemporanei omaggi, come il nuovo mockumentary Amore tra le rovine di Massimo Alì Mohammad – , alle Giornate c'è davvero sempre qualcosa di “nuovo” da conoscere e vedere.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Report

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CINEMA MUTO 34 - Mantrap, di Victor Fleming

7/10/2015

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Ralph Prescott (P. Marmont) è un avvocato divorzista di Minneapolis che non ne può più delle donne, tanto che alle ennesime parole false di una cliente vede il suo viso moltiplicarsi e roteare davanti agli occhi. Joe (E. Torrence), invece, è un uomo grande e grosso ma con l'aria di un ragazzone lievemente tardo, che vive tra le foreste del Nord. Ciascuno ha modo di spostarsi nei luoghi dell'altro: Ralph, per staccare, va con un amico a trascorrere una maldestra vacanza di tranquilla temerarietà nella natura isolata, mentre il secondo si reca in città, stimolato dal ricordo delle emozioni provate, molto tempo prima, alla vista di una donna, anzi di una sua parte, una caviglia.
Joe torna dalla città con una moglie, Alverna (Clara Bow), tolta al suo impiego di manicure. Alverna è disinvolta, subito affettuosa con Ralph, vivace e insofferente verso il luogo e i suoi noiosissimi abitanti. Flirtando con Ralph, vince le sue resistenze a tradire la fiducia di Joe e lo persuade nell'improbabile avventura di tornare a piedi fino alla città. Joe, deluso, li cerca e sembra meditare vendetta, ma nessuno dei tre ha una ferrea determinazione; non è quindi certo che il dramma sia in agguato.
Se alle Giornate del cinema muto si ride molto, a volte capita per humour involontario, come può accadere con un effetto melodrammatico datato. Non è chiaramente stato il caso di Mantrap, proiettato all'interno dell'omaggio a Victor Fleming (di cui, in commedia, si è visto l'ancora più divertente, ma più “limpido”, When the Clouds Roll By). Si tratta di un film che parte col pedale felicemente premuto sullo humour: nella prima parte sembra di essere in quel territorio di commedie mute americane scritte con spirito. “Scritte” sia quanto a sceneggiatura (tratta da un romanzo) che quanto a didascalie dei dialoghi, che cercano spesso la battuta e utilizzano un gergo vicino al parlato del periodo. Va citata ad esempio, in tal senso,la sequenza, prettamente visiva, della riunione mondana a casa di Joe, con la camera che mostra i mestissimi e annoiati partecipanti, rappresentativi della fauna umana locale, prima che qualcuno se ne vada e possa tornare un po' di vita.
A un certo punto, quando il personaggio di Ralph fa comprendere a chiare lettere alla ragazza di non essere insensibile al suo fascino, il film sembra farsi più serio, con la neocoppia in fuga e Joe sulle loro tracce, e apparentemente sedersi. Sono passaggi che possono lasciare un po' delusi se confrontati con quel che il film ha dato fino a lì. Ma in realtà Mantrap è ancora in movimento, come i  personaggi. Di fatto, prima della fine le cose si riequilibrano e vanno più o meno come è “giusto” che vadano (Ralph torna al lavoro, Alverna torna all'ovile, la coppia ora è felicissima anche se la ragazza non sembra aver perso del tutto il gusto di flirtare, se ne ha l'occasione; la fedeltà amicale e coniugale tuttavia ha la meglio), ma la sequenza in cui i tre protagonisti si ritrovano è notevole nel lasciare la mano leggera su questo terzetto, con i personaggi che prendono (anche letteralmente) strade non scontate. Perché Mantrap rimane una commedia, non un dramma di tradimenti e passioni bensì un film con personaggi pronti a discutere le loro scelte, a chiedersi cosa è realmente meglio fare, mentre Alverna non è una femme fatale ma una simpatica opportunista, consapevole delle sue armi.
Il film si fa notare quindi per la scrittura: brillante non nel senso di script di ferro o di una brillantezza umoristica a ogni costo, ma perché matura, a costo di cambiamenti di tono e di dare l'impressione che sia quasi il film stesso a cercarsi, cosa che non ci si attende da una produzione di questo tipo. Tutto ciò non fa di Mantrap un assoluto gioiello, ma lascia la sensazione di aver visto una commedia poco convenzionale.
Clara Bow, divertente in un momento e seducente, in modo semplice o ammiccante, nell'altro, riteneva questo il suo film muto migliore. Da lì divenne particolarmente legata al regista; insieme girarono l'anno dopo Hula e sempre nel 1927 l'attrice interpretò It (da noi Cosetta), da cui nacque l'espressione “It Girl” per indicare un fascino non esattamente definibile. Henry Hathaway è accreditato come aiuto di Fleming.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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Scheda tecnica

Anno: 1926
Regia: Victor Fleming
Sceneggiatura: Adelaide Heibron, Ethel Doherty
Didascalie: George Marion
Fotografia: James Howe
Interpreti: Clara Bow, Ernest Torrence, Percy Marmont
Durata: 73'

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CINEMA MUTO 33 - Il cinema rivisitato

14/10/2014

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L'ultima edizione delle Giornate del cinema muto a Pordenone è stata soddisfacente, tra scelte interessanti e film di notevole fattura.
Cominciamo da alcuni ritrovamenti (sezione “Ritrovati & restaurati”) e dall'ultima, movimentata mezz'ora di The Eternal City. Protagonista un ragazzo -Rossi il suo cognome!- che diventa “braccio destro” di Mussolini e guida le camicie nere allo scontro con la minacciosa “red mob” guidata da Bonelli (Lionel Barrymore); intanto donna Roma (sic) si autoaccusa dell'omicidio di Bonelli, ma Rossi lo confessa e viene graziato da Mussolini, deus ex machina, che compare nell’atto di porre una firma. Il fascismo come forza rinnovatrice (ma legata al ricordo dei Mille), scene di massa al Colosseo, ingenuità romanzesca e una visione discutibile della storia che suscita il riso. Il Duce diede il massimo aiuto alla produzione, perché poteva ricavarne un'immagine positiva all'estero, mentre in Italia il film non fu mai proiettato.
La seconda metà di Whoozit, comica di Charley Bowers, genio surreale che portava in scena tecnologie e creature bizzarre, amato da Breton. Il cinese Pan si dong (La caverna del ragno), da una storia tradizionale, col suo gineceo di donne-ragno che “rapisce” un monaco e i discepoli (uno ha il muso di maiale) che lo vanno a salvare. Strampalato per il nostro gusto attuale, ma campione d'incassi in patria. Darwin Dan era un regista “erotico”, come ricordato sul palco dal nipote, ma in ciò che è sopravvissuto è inavvertibile.
Dopo Why Be Good?, a Bologna un altro film con Colleen Moore recuperato dalla Warner in Italia: Synthetic Sin (L'albergo delle sorprese). Vitale, dal corpo sottile, una “flapper” come Clara Bow ma più sfortunata quanto a sopravvivenza dei film, la Moore tiene la scena nella parte di una ragazza che, pensando di non avere l'esperienza di vita per fare l’attrice, si sposta a New York “per peccare” in un alberghetto immerso nella malavita, per finire ovviamente con l’imparare sì qualcosa, ma anche che la sua vita è a fianco di un bel commediografo. Commedia che utilizza gli stereotipi gangster e strappa risate, pur tirando lo spunto un poco per le lunghe. Deludente la comica greca Oi peripeteiai tou Villar (Le avventure di Villar) con Nikolas Sfakianos, comico (almeno qui) senza un'identità apprezzabile in un film che spesso gira a vuoto senza produrre humour, anche se ha una bizzarra sequenza di banchetto davanti all'Acropoli. Da notare la versione sonora del 1930, con didascalie riassunte e voci, de La corazzata Potemikin.
Nel “Canone rivisitato”, il magnifico, implacabile, funereo I Nibelunghi di Fritz Lang, tra il rigore, la geometria, la pulizia di messinscena della prima parte e l'intensità del massacro della seconda. “Dedicato al popolo tedesco” e apprezzato poi dai nazisti: ma quel che arriva oggi, di un'opera comunque complessa, è soprattutto l'ostinazione folle dei personaggi, la partecipazione verso i quali è allontanata dalle caratteristiche formali del film. Uno dei migliori muti della storia?
Ancora USSR nella sezione “Risate russe: le commedie mute di Yakov Protazanov” e nei corti animati di propaganda e trailer (L'undicesimo di Vertov) ucraini.
Nella sezione “The Barrymores”, pellicole con John, Lionel ed Ethel Barrymore. Successi di John a parte (Il dottor Jekill e Mister Hyde, When a Man Loves), si rilevano il talento di Lionel e i suoi personaggi ambigui, in grande difficoltà, come il borgomastro di The Bells, ansioso di piacere, che si macchia di un delitto per denaro. Quanto a Ethel, meglio in The White Raven che in The Call of Her People, dove è una zingara divisa tra il possessivo marito e la famiglia borghese d'origine.
“L'alba del Technicolor” ha proposto esempi del crescente uso del colore negli anni Venti: estratti da film in bianco e nero (I dieci comandamenti) e alcuni lungometraggi, come il gradevole film in costume inglese The Glorious Adventure, che ha dei minuti finali cromaticamente sorprendenti, nei primi piani, per il 1922 e Il pirata nero con Douglas Fairbanks in un copia dai colori “giusti” (che purtroppo non sono quelli delle edizioni home video).
Il 6 ottobre serata dedicata all'Airsc (Associazione Italiana Ricerche Storia del Cinema) con un programma di film brevi (non solo tricolori) dalla sua collezione. La sera seguente, il benshi Ichiro Kataoka ha recitato durante la proiezione di Kenka Yasubei (L'irascibile Yasubei), che inizia leggero e poi si fa serio, e di alcune comiche con Chaplin. Performance in giapponese non sottotitolata di cui, se non si conosce la lingua, giunge l'effetto complessivo; disorienta ma diverte. Chaplin anche in chiusura, con Luci della città.
Solo tre quest'anno i film italiani (escludendo i brevissimi), tra cui La statua di carne con Italia Almirante Manzini, che inserisce in convenzioni (pose, costumi, scenografie, atmosfere) del diva-film altoborghese uno spunto intrigante, anche se non sfruttato appieno: l'attrice interpreta Maria, che muore, e Noemi, a cui l'uomo che amava l'altra chiede di impersonarla.
Aumenta, come rilevato nel catalogo, la quantità di copie proiettate in DCP, le quali peraltro alcune volte lasciano a desiderare.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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CINEMA MUTO 32 - Non solo Welles

16/10/2013

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A fronte di un aumento del costo dell'accredito per i pesanti tagli, le Giornate hanno proposto un programma “ricco di scoperte”.
Pienone per la prima mondiale del “film” di Orson Welles Too Much Johnson. Una serata di emozione cinefila, nel disvelamento di immagini mai proiettate prima e commentate da Paolo Cherchi Usai, per quello che, paradossalmente, non è un vero film ma doveva costituire l'introduzione ai tre atti di una pièce teatrale diretta dallo stesso Welles e di cui resta una copia lavoro. Welles sembra aver montato poco più delle prime due sequenze: l'introduzione di una coppia di personaggi di contorno, il protagonista Augustus Billings (che si spaccia per un certo Joseph Johnson ed è impersonato da Joseph Cotten) a letto con l'amante (con un editing notevole, creativo e rapido) e parte dell'inseguimento, anche sui tetti, tra il protagonista e il personaggio di Dathis, il marito cornificato, di cui vediamo tanto materiale, tra un assurdo nascondino fra pile di casse del mercato e l'apparizione di alcuni simil-Keystone cops, prima di infinite riprese e ciak ripetuti.
L'uso degli spazi può essere riconoscibile e già troviamo le tipiche inquadrature dal basso di Welles: alcune immagini sono di qualità e sebbene informe, la comica accelerata che il “film” doveva essere qualche volta suscita la risata. Il rullo più danneggiato contiene le divertenti inquadrature di Dathis che leva il cappello a una serie di uomini, per vedere se corrispondono alla foto della parte superiore del volto del protagonista, l'unica traccia che ha di lui. La seconda parte mostra una tumultuosa partenza in nave per Cuba, in cui si intrufolano pure Augustus e Dathis, che continua la sua ricerca (e la relativa gag). L'ultima parte contiene molto materiale sul duello fra Dathis e il vero Johnson, un proprietario terriero, più Augustus che qua e là si intromette, prima in cima a un dirupo poi in acqua. Il tutto contiene almeno un paio di fuori scena.
In “Labbra sigillate: gli anni dimenticati del cinema svedese 1925-1929”, si sono visti film successivi a quello considerato il periodo d'oro della cinematografia della nazione, dal gusto internazionale ed eterogenei. Come l'interessante Synd (Peccato) di Gustaf Molander, tratto da Strindberg, che inizia come una commedia e sfocia in dramma, con un mistero a base di flashbacks basati su testimonianze contradditorie.
All'interno di “Ucraina: il grande esperimento”, la sorpresa dell'anno, per chi scrive: Nichnyi Viznyk (Il vetturino notturno), mediometraggio di Heorhii Tasin, un dramma mozzafiato e allucinato su un uomo che compie una scelta sbagliata e conosce la violenza di stato in modo devastante, cooptato nel ruolo di accompagnatore alla morte prima di scegliere l'unica via d'uscita possibile. Venne contestato all'epoca perché psicologicamente introspettivo, ma andò peggio a Khlib (Pane) di Mykola Shpykovskyi, mediometraggio sulla collettivizzazione della terra che fu messo al bando: indubbiamente importante dal punto di vista visivo, è oggi francamente un po' stucchevole nel suo orizzonte ideologico e di cose concrete.
Tanti i brevi film della prima retrospettiva al mondo sull'animazione sovietica degli anni Venti: da citare almeno Pochta (Posta), viaggio di una lettera in giro per il mondo. “Anny Ondra, comedienne europea” ha mostrato parte della carriera dell'attrice (raffigurata nell'immagine ufficiale dell'edizione) che prima di recitare per Hitchcock (Blackmail in primis) fu la prima star del cinema cecoslovacco. Redivivus è una produzione per l'epoca ambiziosa, ingenua, bagnata di horror, con ampi flashbacks di ricostruzione storica.
Nella sezione “Gli «ultimi» di Gerhard Lamprecht”, film dalla parte dei loro personaggi sofferenti e con un occhio di riguardo verso i bambini. Die Verrufenen (Der fünfte stand), ovvero I malfamati (Il quinto stato), per esempio, ha per protagonista un uomo uscito dal carcere, che infine riesce a mostrare il suo valore, anche se perde un affetto. Lamprecht è regista corretto di film umani, morali, più che dignitosi.
Tra i film de “Il canone rivisitato”, l'americano Beggars of Life, con una coppia di vagabondi (lei è Louise Brooks) che si imbatte in una accolita di senza tetto poco raccomandabili. Nella sezione “Ritratti”, Musidora, la dixième muse, sulla poliedrica protagonista di Las vampires, da sex symbol amato dai surrealisti a collaboratrice di Henri Langlois.
Confermatesi appuntamento di alto valore, “Le giornate” hanno avuto però una programmazione non sempre agevole (il blocco di film delle origini dal vero messicani che sarebbe stato meglio spalmare su più giorni, come fatto per i cartoons con Felix e Ko Ko il clown, che aprivano e chiudevano ogni giornata). C'è poi la generale, annosa questione del passaggio al digitale: sempre più copie di film chiaramente girati in 35mm proiettate in DCP, formato standard del presente e forse del futuro, dalla resa però dubbia, quando non soggette a frequenti fermi immagine, come successo per i film di Lamprecht visti.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival

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