ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
  • HOME
  • REDAZIONE
  • LA VIE EN ROSE
  • FILM USCITI AL CINEMA
  • EUROCINEMA
  • CINEMA DAL MONDO
  • INTO THE PIT
  • VINTAGE COLLECTION
  • REVIVAL 60/70/80
  • ITALIA: TERZA VISIONE
  • AMERICA OGGI
  • ANIMAZIONE
  • TORINO FILM FESTIVAL
    • TORINO 31
    • TORINO 32
    • TORINO 33
    • TORINO 34-36-37
  • LOCARNO
    • LOCARNO 66-67-68
    • LOCARNO 69
    • LOCARNO 72-74-75
  • CANNES
    • CANNES 66
    • CANNES 67
    • CANNES 68
    • CANNES 69
  • VENEZIA
  • ALTRI FESTIVAL
  • SEZIONI VARIE
    • FILM IN TELEVISIONE
    • EXTRA
    • INTERVISTE
    • NEWS
    • ENGLISH/FRANÇAIS
  • SPECIAL WERNER HERZOG
  • SPECIAL ROMAN POLANSKI
  • ARCHIVIO DEI FILM RECENSITI
  • CONTATTI

VENEZIA 70 - Il Concorso: bilancio conclusivo

26/9/2013

0 Comments

 
Immagine
L’ultima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia ha riacceso i riflettori su temi che in realtà sono sempre attuali e vivi ma che qualche volta perfino i più attenti tra gli addetti ai lavori tendono a mettere colpevolmente in standby. In particolar modo, Venezia 70 ha ribadito, attraverso la sua espressione più diretta e frontale, vale a dire il concorso ufficiale, la necessità per il cinema contemporaneo di farsi carico di un preciso lavoro sul linguaggio, forzandone i margini e dilatandole i limiti al di là di ogni angusta barriera.
Un’urgenza pressante che la selezione di quest’anno ha ribadito in modo quasi militante, attraverso titoli che facevano dell’essere apocrifi rispetto al canone un tratto distintivo: si pensi soprattutto al fluviale Die Frau des Polizisten di Philip Groning, che mirava a prostrare la resistenza dello spettatore per buona parte delle sue tre ore attraverso la durata fiume e l’irritante ripartizione in micro-capitoli, quasi per renderlo indifeso nel momento in cui il climax finale l’avrebbe poi messo di fronte al dramma sadico e insostenibile di un’ordinaria storia di violenza domestica.
La contiguità tematica di alcune opere finisce con l’essere quindi solo uno specchietto per le allodole: quel che più conta, al di là delle solite, pretestuose macro-aree (il crollo delle istituzioni propriamente dette e la crisi della famiglia intesa in senso tradizionale), è la comune tendenza scardinante che i film di quest’edizione hanno evidenziato, una spinta della quale la vittoria di un documentario è solo la punta dell’iceberg più macroscopica e strombazzata.
Ciò di cui si dovrebbe parlare e di cui occorrerebbe rallegrarsi, piuttosto che perdersi nei soliti discorsi comparativi tra le varie annate (si sa, il raccolto non è quasi mai lo stesso), è proprio quest’ansia di novità che si rintraccia sottopelle in tutto il panorama cinematografico internazionale e che emerge in superficie come la lava di un vulcano. 
Dalla lentezza colma d’oblio e disperazione di Stray Dogs di Tsai Ming-liang alla piccolezza intima, malinconica e ostentata di Garrel passando per il mélo stranito e allucinato di Dolan, alcuni dei migliori film in concorso ribadiscono il concetto espresso benissimo, tra gli altri, da alcune righe vergate nei giorni scorsi da Emma Dante, che ha parlato di “opere fragili e complesse nei riguardi delle quali ci vorrebbe maggiore attenzione”, come perifrasi (meravigliosa) di tutto un cinema d’autore che troppo spesso viene superficialmente snobbato dai media tradizionali, davvero poco inclini a una ricezione all’insegna di una maggiore apertura mentale. Una generalizzata pigrizia (termine che è ricorso più volte, nel dibattito romano post-Festival alla presenza del direttore della Mostra Alberto Barbera) che non fa altro che vessare l’attività di ricerca cinematografica ostruendo sempre più ogni possibile contatto con un pubblico più vasto di quello degli addetti ai lavori, una fetta di potenziali fruitori la cui ineducazione all’audiovisivo viene avallata e coccolata piuttosto che combattuta o, per quanto sia possibile, curata.
In tal senso, e a sentirlo parlare Barbera sembra decisamente dello stesso avviso, la critica sul web e sui media meno paludati, pur con gli ovvi rischi dovuti a incompetenza non filtrata e a proliferazioni selvagge di impostori più o meno imbellettati, ha saputo carpire molto meglio della carta stampata il “nuovo che avanza” e restituirlo nella sua problematica complessità. Va preso atto, non certo per tirare acqua al proprio mulino (vista anche l’esiguità degli interessi in ballo) di un atteggiamento decisamente più propenso da parte delle recensioni telematiche a prendersi il tempo dell’approfondimento, del percorso, dell’analisi, tutte operazioni che di sicuro contribuiscono a supportare lo spirito di una Mostra d’Arte Cinematografica.
Occhio alla definizione: Arte, non certo intrattenimento da multisala che soffochi la presunta presunzione dei cosiddetti “film da festival”, che poi sono ben altra cosa (e ben più convenzionale, quando confezionati in forma deteriore) rispetto a un film come quello di Tsai o a un’opera rischiosa e liberissima, anche se claudicante, come Under the Skin di Jonathan Glazer. Come rilancia giustamente Barbera: “È inutile dirci che il cinema sta cambiando se poi un festival non coglie questo cambiamento in atto. Anche negli sbagli, nelle scelte che possono essere discutibili”.
Curioso ma non troppo e quantomeno sintomatico, dunque, che Barbera stesso nel corso della suddetta conferenza alla Casa del Cinema di Largo Mastroianni abbia trovato una discreta opposizione da parte di (alcuni) rappresentanti della stampa istituzionale (gli rimproverano addirittura la difficoltà di tirar fuori un titolo accattivante durante la Mostra…) e che qualcuno tra i presenti gli abbia anche urlato: “Ma il pubblico ama gli attori!”, in risposta all’affermazione secondo cui sui primi quotidiani nazionali lo spazio per l’analisi filmica sarebbe ormai sempre più ridotto se non quasi inesistente a vantaggio del chiacchiericcio e del gossip.
Segnali di un conservatorismo allarmante, che rischia poi di produrre uscite imbarazzanti, indecorose e di sicuro poco documentate come quella di Pupi Avati nei giorni scorsi. Lo stesso sentimento conservativo che proviene, a livello formale, dall’altro documentario in concorso oltre al vincitore Sacro GRA, ossia The Unknown known, scelta a conti fatti non così d’impatto. Non meno ambigua, a livello semantico, dello stesso film di Rosi, che però spurio lo è mille volte di più: non solo perché flirta vertiginosamente con la fiction ma soprattutto nella misura in cui orchestra una non narrazione che freme per diventare narrazione vera e propria, passando dalla contemplazione lucida e chirurgica al cuore misterioso e strambo dei suoi personaggi.
Un equilibrio affascinante che rende Sacro GRA un film importante ben oltre i suoi stessi limiti e disequilibri, capace di affermare la sconcertante e intrinseca modernità espressiva del documentario senza la retorica del genere di serie B che da neopromosso si ritrova a gioire quale primo della classe nella massima serie. Che poi quest’etichetta insopportabile e appiccicaticcia gliela mettano addosso gli altri in un secondo momento è ovviamente tutta un’altra storia. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Festival

Articoli correlati: Venezia 70 - Stray Dogs, di Tsai Ming-liang     Venezia 70 - Il battito vitale del Fuori Concorso


0 Comments

VENEZIA 70 - Stray Dogs, di Tsai Ming-liang: l'ultimo spettacolo

18/9/2013

0 Comments

 
Immagine
Sintesi testamentaria doveva essere e sintesi testamentaria è stata. Stray Dogs non poteva né doveva ambire ad altro, chiusura assoluta su una filmografia che tanto ha lavorato sulla sottrazione, negando e negandosi, ma altrettanto ha saputo donare al suo pubblico. 
Nel solco di una scarnificazione del tanto amato melodramma truffautiano, il cinema di Tsai Ming-liang si è ritagliato un angolo in cui poter coltivare i propri insofferenti atti di depistaggio rispetto ai codici narrativi tradizionali: Vive l’amour, opera già definitiva nonostante vedesse la luce quasi un ventennio fa, consacrava agli occhi del mondo un talento registico in grado di reggere silenzi pneumatici antonioniani e scene di pianto dilatate per decine di minuti senza mancare di dare corpo a una sessualità raffigurata anch’essa con un tatto raro, dal sapore originale e anticonvenzionale. 
Da quell’apice al film che fa calare il sipario sulla carriera del regista di Che ora è laggiù?, il cinema di Tsai Ming-liang appare oggi irrimediabilmente incupito, fosco oltre ogni limite pronosticabile, contaminato da un pessimismo che si fa cappa di fumo, rigonfiamento tumorale e pietra tombale tutto in un solo colpo. Non c’è metafora mortuaria capace di rendere fino in fondo il nichilismo e la volontà di sparire nel più buio dei buchi neri che trapela da Stray Dogs, dove tutto è diluito oltre misura e l’estremismo stilistico regna sovrano in ogni aspetto. 
Nella sua personale lettera d’addio al cinema e al mondo, Tsai non si pone freni d’alcun tipo e fa esplodere la sua poetica in mille pezzi, in brandelli che nessuno si curerà più di rimettere insieme. L’impurità e le scorie radioattive che infestano il mondo contemporaneo e impediscono agli abitanti del suo cinema e della sua idea di realtà di vivere in modo pacificato i propri sentimenti prendono allora il sopravvento, in una Taipei che mai come in questo caso somiglia a una fogna livida e putrida, vessata dal vento e dalla pioggia, inghiottita dall’oscurità pece della notte. Il corso d’acqua è un lontano miraggio, i cani randagi del titolo pullulano in ogni luogo e non resta allora che limitarsi a dare sfogo alle funzioni corporali più basiche, ampiamente sottolineate da un regista che dal canto suo non le ha mai disdegnate ma che qui offre loro gli onori che si riserverebbero a una primadonna: ecco dunque affiorare pasti che vengono mostrati allo spettatore integralmente con polli spolpati da capo a piedi, scene di traffico cittadino che si fanno tableaux vivants, poemi patriottici recitati in faccia alla macchia da presa da reggitori di cartelli di professione che si sciolgono in pianti senza fine.
Stray Dogs è un martirio di bellezza funerea, che richiede allo spettatore tanta pazienza ma sa anche come restituirgli indietro tutto: riesce infatti a risarcire la resistenza dei più ostinati con una serie potenzialmente infinita di immagini di tristezza lancinante, che smuovono parti remotissime dell’anima di chi guarda costringendolo a fare i conti con cose come commozione, ribrezzo, commiserazione, disgusto. Si pensi a un esempio su tutti: la scena del cavolo truccato a mo’ di pupazzo, dapprima usato come strumento di piacere erotico e poi, constatata la sua inservibilità da quel punto di vista, sventrato, privato degli occhi e della bocca e infine divorato violentemente tra morsi e sputi, in una sequenza tra le più deflagranti e agghiaccianti che il cinema contemporaneo ci abbia donato fino a questo punto. Un momento impietoso di cinema respingente e altissimo, impossibile da dimenticare a prescindere da come lo si recepisca, se con ammaliato rapimento o con infastidito e sprezzante rifiuto. Stray Dogs è un film che lascia inerti come i suoi protagonisti, a piangere in più di un’occasione come vitelli orfani, indifesi e a pancia all’aria, soli contro le turpitudini del mondo e pronti a essere colpiti nelle nostre debolezze più intime da un momento all’altro. 
Mentre all’esterno si ode lo scroscio dell’ultimo acquazzone che viene giù, il cinema di Tsai si congeda da noi umido e tumefatto, versando lacrime e ingurgitando liquidi in bottiglia come per compensare, accostando due attori nella stessa scena uno dietro l’altro e lasciando nelle loro mani e nei loro corpi scossi dai tuoni la responsabilità di un lungo, lunghissimo addio. Fino alla familiare firma finale dell’autore che sopraggiunge sui titoli di coda, suggello definitivo su una carriera di ombre, fantasmi e poesia, su un cinema dotato di anima propria che continua a fissarci dallo schermo come nella celeberrima soggettiva di Goodbye Dragon Inn. Noi, dinanzi  a quello che è l’ultimo spettacolo di Tsai Ming-liang, pubblico attonito e tramortito, spiazzato una volta di più da un’arte che non concede compromessi e lascia orfani di consolazioni. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Festival


Scheda tecnica

Titolo originale: Jiaoyou
Anno: 2013
Regia: Tsai Ming-Liang
Sceneggiatura: Peng Fei Song, Tsai Ming-liang, Chen Yu Tung
Fotografia: Pen-jung Liao, Wen Zhong Sung, Sung Wen Zhong
Montaggio: Chen-Ching Lei
Durata: 138’
Attori principali: Shiang-chyi Chen, Kang-sheng Lee, Yi Cheng Lee

0 Comments

VENEZIA 70 - Il battito vitale del Fuori Concorso

16/9/2013

0 Comments

 
Immagine
Se c’è un aspetto di Venezia 70 che a freddo appare meritevole di essere lodato sopra ogni altro, è senza ombra di dubbio l’“ostinazione” con cui quest’edizione della Mostra è parsa invitare i suoi frequentatori a guardare oltre i bordi, al di là dei confini, negli anelli periferici, in un Fuori Concorso gravido di film enormi che in più di un’occasione gridavano letteralmente vendetta per non aver trovato posto in cornici baciate dalle luci della ribalta.
Mai come quest’anno infatti il polso del cinema più vivo si è sentito battere nelle opere tenute ai margini dai clamori della competizione, capaci di restituire un termometro fedele del cinema che resiste e di quello che sopravviverà: una mappatura delle direzioni in cui la celluloide contemporanea sembra andare, perfino dei sentieri che imbocca per stanca abitudine e di quelli forse troppo nuovi che non ha ancora abbastanza coraggio per intraprendere. Un cinema che solo guardandosi allo specchio, com’è ovvio, riesce a psicanalizzarsi mettendosi alla prova, facendo emergere smagliature, imperfezioni, mancanze di vario genere.
Nell’edizione in cui ha trionfato un film “sul” Grande Raccordo Anulare che cinge Roma come il perimetro di un calderone in perenne ebollizione, sembra quasi una fatale coincidenza che i film più interessanti si siano rivelati eccentrici rispetto al concorso ufficiale, troppo rabberciato e ondivago, conciliatorio ai limiti dello sbigottimento nell’accogliere al suo interno opere superflue e non meritevoli di una vetrina così altisonante: Tracks e Parkland su tutte, a rappresentanza di una medietà dello sguardo talmente anonima che non si capisce bene cosa ci stia a fare nella prima linea di una Mostra d’Arte Cinematografica. Un evento che in quanto tale dovrebbe dare spazio a oggetti filmici capaci di farsi carico di sguardi propulsivi o comunque meritevoli d’attenzione, non importa se a partire da film belli o brutti, estasianti o irritanti, meravigliosi o inaccettabili.
La sensazione nitida che si è respirata al Lido sembra invece avallare l’idea che il concorso di questo Barbera bis si sia mosso talvolta troppo a ridosso di un fatuo inorgoglirsi per i nuclei tematici dei film (la disgregazione della famiglia come simbolo della crisi contemporanea), privilegiando dunque opere dal lodevole aspetto contenutistico ma non sempre notevoli sul piano formale (il pensiero va al pur strapremiato Miss Violence o al marmoreo e avvizzito Ana Anabia di Amos Gitai). E allora non restava e non resta che guardare lontano dal centro delle questioni, in cui le fiamme bruciano più velocemente e slabbrano i contorni delle cose non permettendo una messa a fuoco sempre netta come la si vorrebbe.
L’Out of Competition di Venezia 70 non sarà godurioso come certe selezioni del passato mulleriano della Mostra avevano saputo renderlo (l’unico midnight movie e neppure troppo degno di nota è stato Wolf Creek 2), ma alle spezie ammiccanti preferisce una sostanza elevata e complessa e una qualità media di livello spropositato, ottimamente calibrata nel bilanciare qualche sparuta presenza polverosa e titoli rampanti e coinvolgenti.
Se da un lato i maestri Andrej Wajda e Ettore Scola hanno presentato due versioni semplificate, persino televisive del loro stile finendo col prostrare due rispettive idee di cinema storicamente notevoli in una resa esangue, dall’altro il Fuori Concorso ha ospitato un’opera viscerale e potente come Locke di Steven Knight, viaggio di un uomo al termine della notte nel tentativo disperato di salvare una vita in apparenza già deragliata. Il tempo reale, la progressione instancabile, il film-esperienza impeccabile che innesca il suo potenziale a partire da meccanismi di scrittura oliati e già visti (in questo caso ai limiti della manualistica), ma riesce a farli funzionare come nel migliore dei congegni a orologeria, tenendo l’incredulità e la commozione dello spettatore appese a un filo esilissimo e fondamentale.
La resa detonante del film con protagonista Tom Hardy è però solo la rivelazione più macroscopica in mezzo a una manciata di altri epigoni eccellenti: dalla peculiare visione dei potenti incredibilmente orchestrata dal talento cristallino di Miguel Gomes all’iconoclastia piena di interrogativi lancinanti di Kim Ki-Duk, che nel suo scandaloso Moebius divora e scardina le istituzioni familiari con vorace irriverenza verso la madre patria coreana. In mezzo a loro il cinema puro e volutamente declassato di Paul Schrader, che in The Canyons mette in scena i corpi maciullati dello star system, privi di una bussola credibile, inabili alla vita e disgustosi nella loro moralità di plastica che ha la stessa tangibilità illusoria di un paio di tette rifatte o di un fallo di gomma: brutte statuine di un immaginario deturpato, spalancato sull’orrore di un cinema digitale dal cuore freddo e calcolatore, pronto a morire dentro sale abbandonate e polverose o a essere inghiottito dal gelo cancerogeno di uno sguardo in camera affilato come un rasoio.
Se per così dire di speranza si vuole parlare (per non morire, per continuare ad esistere), quella va allora ricercata nelle vette di un Fuori Concorso che non si limita a lasciarsi schiavizzare dalla sindrome di Kessler dei rottami che si attraggono per dare vita a nuove galassie e ammassi corporali prima inesistenti, ma la mette addirittura concretamente in scena nel film d’apertura Gravity: esempio ristoratore di fantascienza colma di pietas che sa guardarsi allo specchio compassionevole, beandosi con umiltà del proprio virtuosismo, gestendo le contraddizioni e non lasciando pregiudicare il proprio sense of wonder da pochi e perfino salutari inciampi.
A chiudere il cerchio, un quadrilatero di colossi: il divertente e scatenato Sion Sono, che in Why Don’t You Play in Hell? imbastisce un omaggio al cinema sanguinolento e ipertrofico; Wang Bing e il suo oltranzismo disturbante e infine due maestà assolute che rispondono ai nomi di Frederick Wiseman e Edgar Reitz, che per i veri amanti del cinema certo non hanno bisogno di presentazioni. Quattro grandissimi registi per altrettanti capolavori assoluti: tanto attaccato all’impazzimento disumano il cinese, quanto civile, umano e sociale il maestro del documentarismo americano nel portare la sua macchina da presa dentro la maggiore università pubblica del mondo, Berkeley, ultima roccaforte sulla quale edificare scenari comportamentali e politici costruttivi, fondativi di un neo-umanesimo basato sul lògos e sull’istruzione come più alta sede di formazione identitaria dell’individuo.
Ciliegina sulla torta non può allora che essere, in conclusione, l’ennesimo Heimat del sopraccitato Reitz, con la sua Germania anti-oleografica, miserabile e negletta, marginale e dimenticata. Un cinema orgogliosamente ostinato e uguale a se stesso, sordo e cieco agli anni che passano, ma che continua instancabilmente a scaldare il cuore e la mente. Con un digitale che rilegge ciò che è stato in chiave futurista e spalanca speranzosamente nuove, inaspettate porte della percezione. Oltre il patetismo nostalgico e retorico della pellicola, oltre il cinema stesso, in un futuro atemporale in cui vivono i sogni più eterni e che, guarda caso, non può fare a meno di rivolgere indietro lo sguardo al passato confortevole di sempre.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Festival

0 Comments

VENEZIA 70 - Night Moves, di Kelly Reichardt

4/9/2013

0 Comments

 
Immagine
Quinto film di Kelly Reichardt, una delle autrici più interessanti del panorama americano, Night Moves racconta la storia di tre ambientalisti radicali che si uniscono per mettere in atto la più grande protesta della loro vita: far esplodere una diga idroelettrica, fonte e simbolo di quell’industria culturale divoratrice di energia e di risorse che essi tanto detestano.
Harmon è un ex marine, radicalizzato dal servizio prestato oltreoceano. Dena ha abbandonato il mondo dell’alta società, disgustata da quel consumismo in cui è nata. Josh è un militante formatosi da solo e impegnato nella difesa della Terra con qualsiasi mezzo necessario. Sono i protagonisti di una storia carica di suspense, incentrata sulle conseguenze dell’estremismo politico.
Night moves è un film che si presta a obiezioni fin troppo facili e gratuite da parte di chi reclama il diktat a tutti i costi della narrazione tradizionale e si appella alla "trama" stracciandosi le vesti. Dopo River of Grass, Old Joy, Wendy & Lucy e Meek's Cutoff la geniale regista d'oltreoceano continua a parlare la lingua proficua di un minimalismo di rara sostanza, che sdegna ogni effettismo e procede sempre sottotraccia, con la sua sofferta catatonia, con i suoi tempi rallentati e caricati di senso. Un involucro perfetto che per il cinema dell'autrice diventa sempre più una meravigliosa "gabbia" espressiva, una veste formale con la quale sostenere ed esplicitare il proprio sguardo sugli uomini, sul mondo di oggi, sui temi che le interessano (per cui, una volta di più, si parte sempre dalla forma, per stabilire il livello del contenuto, e non viceversa.).
Night moves parla del senso di colpa e della responsabilità personale e collettiva, invoca che "la gente che ricominci a pensare" e di sicuro non si riferisce solo alla chiave ambientalista che nel film è precipua. La sequenza del preattentato, poi, è da applausi: musiche lievi e formicolanti, un tappeto sonoro evocativo che tra soggettive e gesti accennati della macchina da presa si traduce in una sinfonia magistrale e ipnotica.
C'è qualche scollatura, qualche vuoto interno, ma sono segmenti d'imperfezione assolutamente perdonabili a una regista così brava e sotterranea, che ci racconta mirabilmente del peso delle conseguenze, del crollo definitivo di un'utopia che in quanto sogno impossibile e doloroso deve essere raccontata in forma prosaica, senza strilli, senza esaltazioni, con l'urgenza di un'aderenza alla realtà che può sembrare grigia e sbiadita e invece è accorata da morire, anche se quest'ultimo aspetto non è palesemente dato a vedere, in nome di una spettralità tutta antonioniana.
Un film che cresce dentro, senza dubbio. Una delle opere più belle del Concorso di Venezia 70.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Festival


Scheda tecnica

Regia: Kelly Reichardt
Sceneggiatura: Jonathan Raymond, Kelly Reichardt
Attori: Jesse Eisenberg, Dakota Fanning, Peter Sarsgaard
Musiche: Jeff Grace
Fotografia: Christopher Blauvelt
Montaggio: Kelly Reichardt
Anno: 2013
Durata: 112'

0 Comments

VENEZIA 70 - The Canyons, di Paul Schrader

2/9/2013

0 Comments

 
Immagine
Il nuovo film di Paul Schrader, capace di dividere in maniera piuttosto radicale i giudizi della critica durante il Festival di Venezia, è un thriller a sfondo sessuale girato con un basso budget, raccolto in gran parte tramite il crowdfunding. La storia è incentrata su cinque ragazzi che inseguono il potere, l’amore e il sesso, tra crimini e momenti di redenzione: Christian, un produttore cinematografico che ama filmare i suoi rapporti sessuali; Tara, la sua fidanzata; Ryan e Gina, due giovani attori che recitano in un horror prodotto da Christian; Lindsay, una ex attrice diventata insegnante di yoga.
Quello di Schrader è un film che si guarda morbosamente allo specchio, che nel riconoscere il se stesso riflesso dall'altra parte decreta l’inevitabile morte di sé e del cinema tutto, così ben esemplificata dalle inequivocabili sale distrutte e in stato di abbandono che puntellano i titoli di testa. 
Un film che si annulla nella propria auto-riproduzione non può che essere dunque assai narciso: la casa di produzione presente nei titoli di testa, dal colorito nome Prettybird, è poi visibile (il logo, naturalmente) sul muretto di fronte a un parcheggio. Una genesi progressiva, che prende vita sotto i nostri occhi, come un happening spiritato. 
James Deen e la bolsa Linsday Lohan sono sarcofagi e sepolcri imbiancati a rappresentanza di un’evanescenza dilagante, di un divismo fatto a pezzi e martoriato fin quasi a diventare intangibile, proprio come loro due, così fisici sullo schermo eppure così irreali, il pornodivo e la star autodistruttiva, nient’altro che cenere dentro a un'urna sconsacrata. Il primo cammina come un American Gigolò ma è più un ellisiano American Psyco, una precisazione che però non rende il film meno schraderiano di quel che è, per lo meno dal punto di vista coreografico. Cellulari, facebook, messaggeria istantanea d’ogni tipo, in un vortice totalizzante di tecnologia che spersonalizza e rende gelidi, svuotati, anaffettivi. Una Los Angeles digitalizzata in modo vampiresco, l’inaccettabilità che siano gli altri a dominarci (Deen confida allo psicologo Van Sant i suoi problemi sul fatto che Tara/Lohan lo forzasse a consumare un rapporto gay: "Mi sono sentito un attore, come quando vengo qui"), per non parlare della casa di Deen/Christian che si staglia sul paesaggio come un livido promontorio della paura. 
Metacinema profetico, quello di Schrader, che piaccia o no (d’altronde, uno come lui un motivo minimo per voler fare questo film forse deve anche averlo avuto, testo/sceneggiatura di Bret Easton Ellis a parte… o no?). Guarda oltre, The Canyons, al cinema come lo conosciamo sempre più prossimo alla sparizione. Però, in fondo, è un orizzonte saputo e risaputo, tirato in ballo già da molti. E tra l'altro il monito metacinematografico esplode in un finale fin troppo spettacolarizzato, con Christian che di Patrick Bateman oltre alle ossessioni replica anche la vena sanguinaria: farsi mettere in guardia da uno come Ellis sui rischi dal metacinema, lui che nel “meta” ha sempre sguazzato a piene mani, è come diventare vegani su consiglio del proprio macellaio di fiducia. 
Per cui sì, The Canyons risulta un lavoro un po’ ruffiano, ma è un film moderatamente interessante che va comunque capito e decodificato fino in fondo. Sennò rischia di essere mal compreso e di passare solo per la sagra dello scempio recitativo. E non sarà servito a nulla.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Festival


Scheda tecnica

Regia: Paul Schrader
Sceneggiatura: Bret Easton Ellis
Attori: Lindsay Lohan, James Deen, Nolan Gerard Funk, Amanda Brooks, Gus Van Sant
Fotografia: John DeFazio
Montaggio: Tim Silano
Musiche: Brendan Canning
Anno: 2013
Durata: 104'

0 Comments


    FESTIVAL

    CATEGORIE DELLA SEZIONE

    Tutti
    Abel Ferrara
    Aki Kaurismaki
    Alberto Signetto
    Alex De La Iglesia
    Alfred Hitchcock
    Almas En Juego
    Amnesia
    Amy Winehouse
    Anderswo
    Anna Karina
    Ariane Ascaride
    Ariane Labed
    Bergamo Film Meeting
    Biografilm Festival
    Buster Keaton
    Chaika
    Charlie Chaplin
    Chroniques D'une Cour De Récré
    Cinema Erotico
    Cinema Francese
    Cinemambiente
    Cinema Muto
    Cinema Ritrovato
    Cord
    Courmayeur Noir Festival
    Crying Fist
    Dakota Fanning
    Deep Dark
    Die Saat
    Dirk Bogarde
    Documentari
    Dylan Thomas
    Edgar Reitz
    Elijah Wood
    Erik Gandini
    Fabrizio De André
    Femen
    Festival Cinema Africano
    Festival Del Cinema Europeo
    Festival Di Cannes
    Festival Di Venezia
    Festival Reportage
    Finding Vivian Maier
    Fish & Chips Festival
    France Odeon
    Fritz Lang
    Garnet's Gold
    Giornate Del Cinema Muto
    Go Forth
    Grey Gardens
    Ingrid Bergman
    In Uno Stato Libero
    Io Danzerò
    Iris
    I Segreti Di Kabiria
    It Is Not Over Yet
    Jalanan
    Jean Renoir
    Jean Vigo
    Jesse Eisenberg
    John Barrymore
    Joseph Cotten
    Julianne Moore
    Kelly Reichardt
    Korea Film Fest
    Kristen Stewart
    Lab 80
    La Californie
    La Dune
    Léa Seydoux
    Leave To Remain
    Linsday Lohan
    Living
    Love Hard
    Love Hotel
    Lucca Film Festival
    Lucia Puenzo
    Madonna
    Marie Heurtin
    Marlon Brando
    Mathieu Amalric
    Milos Forman
    Modris
    Monica Guerritore
    Montage
    Naciye
    New World
    Niels Arestrup
    Night Moves
    Oliver Stone
    On The Job
    Orlando Festival
    Orson Welles
    Os Maias
    Parasol
    Parfums D'Alger
    Paul Schrader
    Penelope Cruz
    Porno E Libertà
    Ravenna Nightmare Festival
    Rendez-vous
    Robert Guediguian
    Robin Williams
    Ruta De La Luna
    Sacro Gra
    Schnick Schnack Schnuck
    Sguardi Altrove Festival
    Sicilia Queer Filmfest
    Silmatera
    Sion Sono
    Solveig Anspach
    Sophia Loren
    Steven Knight
    Still Alice
    Stray Dogs
    The Canyons
    The Music Of Strangers
    The Sailor
    Toby Jones
    Tokyo Idols
    Torino Film Festival
    Torino Film Lab
    Torino Glbt Festival
    Torino Underground Cine Fest
    Toz Bezi
    Tsai Ming Liang
    Valeria Golino
    Valérie Donzelli
    Victor Fleming
    Vincent Rottiers
    Vittorio De Sica
    Wakolda
    Walking With Red Rhino
    Willem Dafoe
    Xavier Dolan
    Zomer - Summer


    ​SEGUICI SULLE NOSTRE PAGINE UFFICIALI
    Immagine
    Immagine

    Feed RSS

Powered by Create your own unique website with customizable templates.