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IL CINEMA RITROVATO 31 - Nel tempo e nello spazio

3/7/2017

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Il Cinema Ritrovato, al 31° atto, offre ormai un programma persino troppo pieno, al punto da generare un po' di frustrazione anche nel riepilogarlo.
Come sempre ci si muove nel tempo e nello spazio. Nel tempo perché si sono visti film del 1897, di Alexandre Promio, addestratore di operatori Lumière che firma centinaia di vedute, anche dall'Africa. E cinema del 1917, anno di guerra e delle rivoluzioni in Russia: da lì, alcuni film di Evgenij Bauer.
​Poi, pescando: Fear fa incontrare il regista Robert Wiene e l'attore Conrad Veidt prima de Il gabinetto del dottor Caligari. Protagonista un uomo che ha paura, perché per avidità ha sottratto un idolo sacro da un tempio. Un sacerdote si manifesta annunciandogli la morte di lì a sette anni: che saranno di bella vita, prima della tragedia. Soggetto impegnativo, che Veidt rende con una recitazione marcata. Un film di Victor Sjöström, La ragazza della torbiera, che ha deluso un po' ma vanta almeno qualche riuscito passaggio (come quello di imbarazzo familiare alla presenza della cameriera co-protagonista, considerata una ragazza immorale) ed è curioso, nella seconda parte, il suo basarsi su un particolare di cui il protagonista si è dimenticato al pari, probabilmente, dello spettatore. Brevi film animati, più i 41' de La guerra e il sogno di Momi di Segundo de Chomón, gioiello a passo uno che sotto le spoglie di un film per ragazzi mostra la crudeltà del conflitto mondiale.
Il regista italiano omaggiato è Augusto Genina, con muti quali il dramma L'innocenza del peccato con Maria Jacobini, film con un ritmo e una capacità di agganciare alla storia narrata superiore ad altri muti italiani. E sonori come l'interessante Les amours de minuit (1931) nella versione francese co-diretta con Yves Allégret – all'inizio sembra un talkie lentissimo ma poi si rivela praticamente un noir, attentamente padroneggiato – e Maddalena nella versione francese, a colori. Il che ci porta alla sezione sul colore nel cinema, e relativi lungometraggi in Technicolor e 35mm: Rancho Notorious di Fritz Lang e tre film di Douglas Sirk tra cui Magnifica ossessione sono solo alcuni esempi.
In “Colette e il cinema”, film sceneggiati o recensiti dalla scrittrice, oppure tratti da suoi romanzi. Come Divine di Max Ophüls e la prima versione di Gigi (che lui avrebbe dovuto girare). Il film sfoggia qualche motto di spirito colettiano, ma ci sarebbe voluto forse più umorismo e personaggi, come quello dello spasimante della protagonista, più a fuoco.
Tra le cose viste in Piazza Maggiore spicca il prologo de La roue di Abel Gance: 25 minuti che catturano, tra un drammatico incidente ferroviario e più leggere immagini di felicità familiare, in un montaggio rapido con molteplici effetti di colorazione. È l'assaggio del restauro di un'opera monstre, che si vedrà tra un paio d'anni. Seguiva La corazzata Potemkin con partitura originale eseguita dal vivo: chi scrive l'ha persa, ma chi c'era dice di una proiezione semplicemente esaltante. Poi The Patsy, con una vivace Marion Davies diretta da King Vidor. Tre serate di proiezioni con lanterna a carbone nella piazzetta Pasolini: Innocence-Little Veronika di Robert Land valorizza con la regia una storia parzialmente banale, quella di una fanciulla ingenua che va ad abitare con la zia maîtresse e cade tra le braccia di un seduttore.
Continua il progetto Buster Keaton, che oltre a corti e lunghi – come Io e il ciclone – ha proposto un programma di apparizioni tv, difficilissimo da organizzare per l'ottenimento dei materiali e frutto di un ridimensionamento. Spicca The Awakening (1954), episodio di una serie antologica. Storia distopica e rivoluzionaria ispirata a Il cappotto di Gogol', è un breve lavoro compiuto in cui Keaton interpreta un ruolo serio.
Nei documentari: l'ultimissimo lavoro di Rossellini, Beaubourg – del 1977, sull'inaugurazione del Centre Pompidou – , Becoming Cary Grant e (ancora in progress) Nice Girls Don't Stay for Breakfast su Robert Mitchum. Dell'attore omaggiato dall'immagine ufficiale di questa edizione si sono visti tra gli altri l'imprescindibile Le catene della colpa e il piccolo cult noir Gli amici di Eddie Coyle.
Viaggio nel tempo, si diceva, e nello spazio: torniamo alle cinematografie lontane. Per il cinema messicano dell'epoca “d'oro” (ma si spazia tra 1933 e 1960), film sulla rivoluzione nel paese come La sombra del caudillo di Julio Bracho, a lungo censurato. Dall'Iran, Samuel Khachikan, regista rimosso di cinema di genere negli anni '50 e '60, il thriller Strike tra i suoi titoli più apprezzati. E, ovviamente, una sezione giapponese. In una selezione di jidai-geki e drammi della seconda metà degli anni '30 spicca Umanità e palloni di carta, noto per essere uno dei pochissimi sopravvissuti di Sadao Yamanaka.
Usa: cinema degli anni '30 sia nella seconda parte dell'omaggio alla Paramount guidata da Carl Laemmle jr. sia nel focus su William K. Howard. Nella prima sezione si è visto E adesso, pover'uomo? di Frank Borzage: sfortune e ripartenze di una coppia positiva, nella poetica del regista. Di Borzage, in altra sezione, pure Secrets, muto con Norma Talmadge un poco deludente, curioso per il succedersi di toni ma anche di generi (c'è una parte western, con violento assedio), però lento e serioso. Howard è un regista relativamente sfortunato, noto soprattutto per Il potere e la gloria con Spencer Tracy che anticipa Quarto potere. L'uso di set interconnessi e uno stile fotografico con “geometrie di ombre e audaci effetti in controluce” sono citati dal catalogo tra i suoi segni stilistici, e li si ritrova anche in un film che intrattiene come Transatlantico, tra commedia corale e thrilling, aperto da movimenti di macchina che si fanno notare.
“Cauto sognatore: la malinconia sovversiva di Helmut Käutner” ha presentato otto film di un regista tedesco che definire eclettico pare banale (ma pertinente), tra Under the Bridges, girato tra le distruzioni del dopoguerra e Mad Emperor: Ludwig II; mentre A Glass of Water (1960), commedia a colori bagnata di musical, è molto interessante per l'antinaturalismo del set – gli ambienti di una corte – ma completamente autoreferenziale.
Nella macro-sezione “Ritrovati e restaurati” di tutto, da Giungla d'asfalto a Blow-Up, ma da citare due chicche italiane: “il primo grande film sul motociclismo” (almeno nostrano e secondo la stampa d'epoca), I fidanzati della morte di Romolo Marcellini (1956), e Romano Scavolini che ha presentato la versione pre-censura del suo sperimentale A mosca cieca – che Zomia Cinema ha intenzione di far circolare prossimamente – .
Infine il lavoro sulla scarna filmografia di Jean Vigo, con L'Atalante restaurato dalla copia originale, con altro materiale proiettato a parte, e Zero in condotta dalla copia della Cineteca Italiana, leggermente più lunga e “integrale” della versione vista in seguito.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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GIORNATE DEL CINEMA MUTO 35 - L'aiutante dello zar

14/10/2016

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Russia. Il principe Boris Kurbsky, leale servitore dello zar, sta tornando in patria dalla Germania, reduce da un matrimonio abortito. In treno conosce e inizia a entrare in confidenza con la graziosa Helena, che però una volta in stazione viene scippata da un uomo e resta quindi senza documenti. Kurbsky decide di commettere un illecito per aiutarla: farle passare i controlli spacciandola per la propria consorte.
​All'inizio questo comporta “solo” il dover reggere il gioco con i colleghi e il dover vivere insieme, circostanza che, prima da parte di lui poi anche da quella di lei, fa nascere un sentimento e poi un matrimonio vero. Ma Helena sta nascondendo un pericolosissimo segreto: è una sovversiva, o meglio, è vittima di una banda che l'ha scelta per la missione di attentare allo zar, previo il legame col principe. Lei però, come da tradizione, si è innamorata davvero. Non vorrebbe più adempiere al suo dovere, ma viene minacciata, una minaccia che può coinvolgere anche il marito. Scoperto il tutto Kurbsky decide di aiutarla a lasciare il paese, ma il capo della polizia mangia la foglia, mentre Helena scompare.

Proiettato alle Giornate del Cinema Muto all'interno dell'omaggio al Danske Filminstitut per i suoi 75 anni (il film è di nazionalità tedesca, ma la copia viene dalle collezioni danesi ed è l'unica esistente), L'aiutante dello zar, come uscì in Italia, si è rivelato una sorpresa in positivo. Nella prima parte sembra una commedia sofisticata: gag maliziose (quando, sul treno, il principe cerca di celare la presenza della ragazza nel suo scompartimento), equivoci, personaggi e ambienti di livello, un amore in vista, e in aggiunta qualche momento di suspence (quando lui teme di essere stato scoperto). Poi cambia tono, si potrebbe anche dire genere, a partire da quando vediamo Helena coinvolta in qualcosa di cui l'amato è (ancora) all'oscuro, perché si allontana di nascosto da casa. E da qui diventa un perfetto meccanismo di tensione, dovuta agli accadimenti, alla posta in gioco per i personaggi, alle situazioni in cui si trovano e alla progressiva sensazione del protagonista di essere con le spalle al muro; tensione anche visiva, perché ad accompagnare una sceneggiatura abbastanza essenziale c'è una regia sicura, che riesce a tenere il film su una nota di intensità con un linguaggio piuttosto pulito. Il risultato è affilato, tiene inchiodati alla poltrona durante la visione e resta nella memoria dopo. 
Ivan Mozzhukin, notissimo divo russo che dagli anni '20 lavorò in Francia (protagonista anche di un Il fu Mattia Pascal e di un Casanova), sfoggia una recitazione estremamente controllata, anche nella mimica facciale, e il bell'aspetto dell'attore fa gioco: ricorrono primi piani velati del suo volto, che hanno anche – forse soprattutto – una motivazione divistica ma pure una funzione relativa al personaggio, un uomo che cela dietro l'abitudine alla compostezza e alla necessità di non tradirsi emozioni fortissime, in quanto si trova invischiato in un dramma che rischia di fargli crollare il mondo addosso e lo obbliga a mentire. Il dramma del protagonista è comunicato con forza allo spettatore; Carmen Boni, comunque, è sufficientemente all'altezza di Mozhukin. 
L'ultima parte ha uno snodo più convenzionale, quando il principe convince il capo della polizia a lasciarlo libero per il tempo utile a risolvere la questione, ritrovando e salvando Helena dai suoi “compagni” e il tutore della legge, che incute timore, si ammorbidisce; segue un non lungo inseguimento e la vicenda va a chiudersi con un lieto fine molto parziale in un luogo di addii – una stazione, circolarmente – , perché il pericolo è scampato per entrambi gli amanti, ma poter vivere l'amore è un'altra questione.
Ha qualcosa di “romanzesco”, se si vuole, pure il ritratto del losco capo dei rivoluzionari. Nella serie di inquadrature su alcuni componenti del gruppo, nel loro nascondiglio, la regia ha un'incertezza tecnica visibile (e perdonabile): la macchina da presa si muove verso l'accesso al covo, dietro il quale Kursbky sta origliando, con un movimento traballante. Lo zar, nelle sequenze che vedono il suo personaggio in scena (tra cui un ricevimento nel quale dovrebbe aver luogo l'attentato), non è mai inquadrato, resta una figura “lontana”, la cui importanza non può e non deve essere toccata dagli eventi in corso.
In definitiva Der adjutant des zaren è un buon spettacolo, adatto a più palati, che meriterebbe di essere maggiormente conosciuto.
Strizhevsky, attore prima di diventare regista, realizzò anche un film in Italia negli anni '40, La carne e l'anima, mentre la carriera dell'italiana Carmen Boni, che all'epoca era praticamente una diva, si svolse in più fasi tra madrepatria e Germania.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Report


Scheda tecnica

Tit. or.: Der adjutant des zaren
Regia e sceneggiatura: Vladimir Strizhevsky
Cast: Ivan Mozzhukhin, Carmen Boni, Eugen Burg, George Serov, Alexander Granach
Fotografia: Nikolai Toporkoff
Germania, 1929
Durata: 98'

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Carmen Boni
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IL CINEMA RITROVATO 30 - Cinema dal 1896 al 2016

6/7/2016

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Il Cinema Ritrovato ha compiuto 30 anni con una edizione colma di proposte; parafrasando quanto udito da una spettatrice, al termine ne sfogli il catalogo e ti accorgi di aver visto poco. Dar conto di tutto in poche righe è impossibile, si può solo saltabeccare tra le sezioni.
Da “Cento anni fa”, i 198 minuti di Intolerance di Griffith, due film di Mauritz Stiller (Vingarne, Balletprimadonnan), l'incantevole e composto “melodramma pittorico”- storico L'esclave de Phidias di Léonce Perret e altre piccole cose, anche italiane: drammi di forte retorica patriottico-bellica – Il sopravvissuto di Augusto Genina – e il restauro dello spietato melodramma dannunziano La fiaccola sotto il moggio con Helena Makowska.
​Un passaggio di qualche decennio ed ecco l'omaggio a Mario Soldati: se la bellezza ben più che “calligrafica” di Malombra è nota, La mano dello straniero da Graham Greene è migliore della sua scarsa fama critica, forte del personaggio del deprecabile dottore (Eduardo Ciannelli). Se è vero che Soldati amava gli attori lo si vede anche qui, ad esempio nella scena al bar col bambino. La provinciale con Gina Lollobrigida, trasposizione da Moravia strutturata in flashback di più personaggi tutti inerenti la protagonista, è un'opera esatta e senza giri a vuoto, con un'atmosfera drammatica e concentrata.
La comicità e i suoi grandi: Buster Keaton del quale prosegue il Progetto col restauro di alcune comiche, di Our Hospitality e Seven Chances, Stan Laurel con alcuni minuti ritrovati di una comica che parodizza Valentino, Oliver Hardy (e Jimmy Aubrey) in Maids and Muslin, Jerry Lewis (con Jerry 8 ¾) e, ancora, Chaplin, di cui si è rivisto in piazza Maggiore Il monello. Oltre alle proiezioni serali in questa cornice (Legittima difesa, Spettacolo di varietà, L'albero degli zoccoli, Valmont), alcune serate in piazzetta Pasolini con muti da proiettore a carboni, come il programma finale – un'ora circa di film delle origini fra trucchi e colorazioni ipnotiche – e Coeur fidele di Jean Epstein.
Alla sorella Marie, attrice, sceneggiatrice e regista (con Jean-Benoît Levy) è stata dedicata una sezione, con opere tra gli anni venti e i cinquanta: il muto Peau de pêche (1929) conquista con la sua delicatezza, sebbene non esente da una convinta dose di retorica giocata sul binomio vita (in campagna) e morte (la prima guerra mondiale)
Si resta in Francia e si torna indietro, di molto: la sezione “1896. Cinema anno uno” è andata alle fondamenta della settima arte con la produzione di quell'anno dei fratelli Lumière, protagonisti anche di un cofanetto e di una mostra completa (prosegue fino a gennaio) che spazia dal pre-cinema alla loro attività industriale, toccando il lavoro degli operatori fatti viaggiare per il globo intero. Piccolo spazio anche per Méliès, con i pochi film sopravvissuti datati 1896 più due ritrovamenti, Une séance de prestidigitation e Bouquet d'illusions.
​Nell'omaggio a Jacques Becker, i suoi grandi classici (Casco d'oro, Il buco) e film più “piccoli” ma lo stesso riusciti come Edoardo e Carolina (1951), fresca e amara commedia di crisi di coppia e differenze sociali.
Non su un regista, come di consueto, ma su un produttore il focus sul cinema Usa tra muto e sonoro: Carl Laemmle jr, figlio del più noto patron della Universal, che la ereditò tra 1928 e 1936. Una selezione eterogenea con opere musicali, come King of Jazz, film-rivista per il gusto d'oggi stancante, ma con curiosità estetiche (a cominciare dal Technicolor a due colori, col trucco a gote rosse sugli attori di ambo i sessi) e narrative (perché tra un esibizione musicale e l'altra, hanno spazio alcuni momenti degni di un film-barzelletta), e film di James Whale, come Remember Last Night?, un giallo-rosa con alcuni personaggi molto gradevoli (la coppia di detective, uno burbero l'altro idiota, e il maggiordomo sdegnoso dei vacui signori tra cui lavora), dal dialogo talora sin troppo rapido e smart e un po' meno convincente verso la fine, quando si prende più sul serio. Bello A House Divided di William Wyler con Walter Huston, essenziale dramma con la sua poderosa interpretazione di un duro, ottuso e violento vedovo pescatore che si risposa con una giovane senza essere ricambiato e stimolando la reazione del figlio, molto diverso e considerato dal padre un inetto.
Immancabili le sezioni su Giappone – e il suo colore – e sul “cinema del disgelo” sovietico anni '50. Nella prima anche un Mizoguchi (New Tales of the Clan Taira) e una trasposizione da Mishima che non ci si aspetterebbe, Natsuko's Adventure in Hokkaido, da un romanzo giovanile, presentato come melodramma ma in realtà film ibrido e leggero, arduo da etichettare, tra umorismo e modesti brividi di avventura, in una copia mancante in vari punti dell'immagine e nel prefinale del sonoro.
Dal 1916 ancora Russia, ma quella zarista con drammi (Nelli Rainceva e A Life for a Life di Evgenij Bauer) e trasposizioni letterarie/teatrali (The Queen of Spades da Puskin), in copie perlopiù in bianco e nero, senza le colorazioni d'epoca.
Su “Technicolor & co.” il festival continua a tornare: il thailandese Santi-Vina (1954), primo lungometraggio a colori in 35mm della nazione, e, tra gli altri, una copia “dorata” di Riflessi in un occhio d'oro e Marnie.
Nei “Ritrovati e restaurati”, il bel cubano Memorias del subdesarrollo di Tomás-Gutiérrez Alea, che unisce il (molto) privato del protagonista, con le sue relazioni, al pubblico (esplicito) delle “parentesi” sul paese. Un film molto vivo, ottimamente recuperato da materiali malmessi. Poi, Il sorpasso, Io la conoscevo bene, Westfront di Pabst, oltre a qualche titolo decisamente più recente come La promesse dei Dardenne. Altri ritrovamenti da segnalare: i primissimi corti di Jacques Rivette.
Da citare infine, all'interno di un omaggio a Marlon Brando che ha incluso anche i soliti Ultimo tango a Parigi e Il padrino, Listen to me Marlon di Stevan Riley, emozionante doc che racconta l'attore e l'uomo dalla gioventù ai drammi legati ai figli.
Piccola novità di quest'anno la segnalazione sul programma delle proiezioni in pellicola; meno graditi i ripetuti “tutto esaurito” alle proiezioni dei film muti pomeridiani nella (non capientissima) sala Mastroianni, non solo per film noti come Destino di Fritz Lang, ma anche per A Woman of the World con Pola Negri.
Appuntamento all'anno prossimo, nel quale dovrebbe aggiungersi una sala in più, in attesa di riapertura da parte della Cineteca: il Modernissimo, in piazza Maggiore.

Alessio Vacchi

​Sezione di riferimento: Festival Report

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CINEMA MUTO 34 - Canoni e "novità"

14/10/2015

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Segnali contrastanti: questa l'impressione frequentando l'edizione numero 34 del festival friulano. Che a fronte di un programma soddisfacente, ha visto un calo generale di spettatori, compensato da alcune proiezioni sold-out: la serata di apertura con Maciste alpino, restaurato e reintegrato di alcuni minuti; quella di chiusura con Il fantasma dell'Opera; la comica con Laurel & Hardy da poco in coppia The Battle of the Century, a suon di torte in faccia, di cui è stato ritrovato il secondo rullo; ma anche il godibilissimo Il segno di Zorro con Douglas Fairbanks. Apprezzabile novità le presentazioni di libri, mentre ampio rilievo è stato dato alla notizia del cambio al vertice: dopo 19 edizioni, l'anno venturo David Robinson passerà la mano a Jay Weissberg, corrispondente a Roma di “Variety”.

Tentando un sunto del programma, si può partire con gli autori più noti. Come Lubitsch, di cui si sono visti Romeo und Julia im schnee (Romeo e Giulietta sulla neve), aggiornamento della storia senza finale tragico, e uno dei film migliori proposti da quest'edizione, La bambola di carne, traboccante malizia e humour (basti già l’inizio, col regista-demiurgo che dà l’avvio a tutto sistemando un modellino della scenografia). O come Eisenstein, con la potente sinfonia politica per immagini Ottobre. Il fluviale Les misérables (1925) ha segnato la giornata del 7: ricostruzione del capolavoro di Victor Hugo in quattro parti (dalle cinque del romanzo), diretta da Henri Fescourt, noto anche per cinéroman a episodi come questo.
Un po’ di alleggerimento con alcuni film di Victor Fleming, tra titoli noti e altri non risparmiati dal tempo. When the Clouds Roll by, ultima commedia per Fairbanks nei panni di un superstizioso cronico, satireggia la psichiatria: se il bizzarro passaggio del pasto pesante, in cui attori travestiti da cibi si scatenano nello stomaco del protagonista, si riallaccia al noto Dream of a Rarebit Fiend di Edwin S. Porter, la visualizzazione di un conflitto in atto nella sua mente è difficile non faccia pensare oggi a Inside Out. Ma vanno citati anche gli efficaci momenti onirici e il lieto fine che segue un’inondazione. Ancora Fairbanks in The Mollycoddle, dove il climax spettacolare è una frana, e siamo ancora nella commedia con il per certi versi più moderno Mantrap, con Clara Bow. To the Last Man ha per direttore della fotografia James Wong Howe (poi due volte premio Oscar), agli inizi; solo un frammento invece per The Way of All Flesh, primo film americano con Emil Jannings, nei panni di un impiegato di banca la cui vita va in rovina, amato da David Wark Griffith.
Fairbanks non è stato l'unico a sfoggiare energia sullo schermo del teatro Verdi: “Muscoli italiani in Germania” ha proposto alcuni film con due nostri attori, Luciano Albertini e Carlo Aldini, che ebbero grande fortuna anche e soprattutto in quel paese. Del primo, Mister Radio ha esaltato la sala nel segno del superamento della soglia di incredulità, con le sue vertiginose scene a testa in giù tra le rupi, mentre Il globo infuocato è un film più vivace come andamento e meno “a sensazione”, accompagnato in modo pimpante dalla Zerorchestra.

Nel “Canone rivisitato”, The Mysterious X di Benjamin Christensen, storia di spionaggio i cui valori e l'effettismo dell’ultima parte spingono oggi al riso, e il rigore e l’originalità formale de L’inhumaine, diretto da un Marcel L’Herbier alla guida di diversi esponenti dell’avanguardia parigina anni ’20, come Fernand Léger, che curarono i décor. Tra le “Riscoperte e restauri”, Drifting aka La perduta di Shanghai di Tod Browning e uno dei ritrovamenti più attesi: lo Sherlock Holmes del 1916, prodotto dalla Essenay e interpretato da William Gillette, attore cui si deve anche l’iconografia del personaggio. Der Tunnel, film tedesco del 1915, ipotizza un po’ goffamente la costruzione di una galleria per viaggiare tra Europa e Usa – e un sistema di trasmissione video a distanza – . Colpiscono le movimentate scene di massa e alcune belle inquadrature con la folla che guarda in su, verso la camera. Nel programma “Girls Will Be Boys”, una delle visioni più strampalate: la comica prodotta da Hal Roach What’s the World Coming to?, che ipotizza un futuro di uomini effeminati e delicatissimi e donne sicure di sé che li predano. Puntate slapstick a parte, è sicuramente terrorizzante per i seguaci del gender.
Secondo atto per “Risate russe”, con una selezione di commedie sovietiche, “genere indubbiamente rischioso, ma non proibito”. I film visti infatti cercano, con discreti risultati, di bilanciare umorismo e messaggi di propaganda, per un'iniziativa del regime nel caso di Can't You Just Leave Me Out? – lo spunto iniziale è la nascita di una catena di mense popolari, che il protagonista scopre meravigliose – , per l’educazione dei giovani nel caso di Wake Up Lenochka, con la 25enne Yanina Zheimo abbastanza credibile come ragazzina perennemente in ritardo a scuola. Primo atto invece per “Origini del western”, sugli anni di nascita e fermento di questo genere prettamente americano, anni in cui ogni possibilità tematica e narrativa fu “esplorata, vagliata e codificata”. Brevi film di case come la American Film Manufacturing Company e alcuni nomi noti tra i registi, come Allan Dwan, di cui The Vanishing Race colpisce per la tristezza nel mettere in immagini una vicenda di isolamento e vendette tra bianchi e indiani.

“Altre sinfonie delle città” ha mostrato una nutrita serie di lavori appartenenti a quel “genere”, praticato negli anni ‘20 e ’30 – quindi sconfinando nel sonoro – , che raccontava le città tra astrazione, documentarismo e un’ambivalenza nei confronti della modernità urbana. Titolo più noto l’esordio di De Oliveira Douro, faina fluvial, con protagonisti i lavoratori sulle sponde del relativo fiume. Poi immagini di Chicago, Praga, Liverpool, ma anche i focus più ristretti delle “Sinfoniette di quartiere” come Montparnasse di Eugéne Deslaw.
Dall’America latina segnalabili El tren fantasma di Gabriel Garcia Moreno, ispirato da The General di Keaton e quel che resta del serial El automóvil gris, basato sulle gesta di una vera banda criminale: in entrambi i casi si nota l’influenza del cinema Usa. L’attore, cantante, fondamentale esponente della comunità nera Bert Williams ha goduto di una sezione incentrata su di lui, comprensiva della ricostruzione dell’incompiuto Lime Kiln Club Field Day, datato 1913. Punto forte della sezione “Cinema delle origini” i film sopravvissuti di e con Leopoldo Fregoli, celeberrimo attore trasformista, presentati da Arturo Brachetti. L'artista torinese considera Fregoli come colui che iniziò la sua arte, anche se la rapidità delle sue gesta sul palco è lontanissima da quel che faceva a vista il pioniere (anche nell'utilizzo del cinema, a fine '800, per documentarsi) romano.
Nella sezione “Ritratti” il documentario su Gaston Méliès, fratello di Georges che girò film negli anni '10 in paesi lontani quali Polinesia e Cambogia. A riprova che nonostante la lunga stagione del muto sia chiusa – salvo estemporanei omaggi, come il nuovo mockumentary Amore tra le rovine di Massimo Alì Mohammad – , alle Giornate c'è davvero sempre qualcosa di “nuovo” da conoscere e vedere.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Report

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CINEMA MUTO 34 - Mantrap, di Victor Fleming

7/10/2015

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Ralph Prescott (P. Marmont) è un avvocato divorzista di Minneapolis che non ne può più delle donne, tanto che alle ennesime parole false di una cliente vede il suo viso moltiplicarsi e roteare davanti agli occhi. Joe (E. Torrence), invece, è un uomo grande e grosso ma con l'aria di un ragazzone lievemente tardo, che vive tra le foreste del Nord. Ciascuno ha modo di spostarsi nei luoghi dell'altro: Ralph, per staccare, va con un amico a trascorrere una maldestra vacanza di tranquilla temerarietà nella natura isolata, mentre il secondo si reca in città, stimolato dal ricordo delle emozioni provate, molto tempo prima, alla vista di una donna, anzi di una sua parte, una caviglia.
Joe torna dalla città con una moglie, Alverna (Clara Bow), tolta al suo impiego di manicure. Alverna è disinvolta, subito affettuosa con Ralph, vivace e insofferente verso il luogo e i suoi noiosissimi abitanti. Flirtando con Ralph, vince le sue resistenze a tradire la fiducia di Joe e lo persuade nell'improbabile avventura di tornare a piedi fino alla città. Joe, deluso, li cerca e sembra meditare vendetta, ma nessuno dei tre ha una ferrea determinazione; non è quindi certo che il dramma sia in agguato.
Se alle Giornate del cinema muto si ride molto, a volte capita per humour involontario, come può accadere con un effetto melodrammatico datato. Non è chiaramente stato il caso di Mantrap, proiettato all'interno dell'omaggio a Victor Fleming (di cui, in commedia, si è visto l'ancora più divertente, ma più “limpido”, When the Clouds Roll By). Si tratta di un film che parte col pedale felicemente premuto sullo humour: nella prima parte sembra di essere in quel territorio di commedie mute americane scritte con spirito. “Scritte” sia quanto a sceneggiatura (tratta da un romanzo) che quanto a didascalie dei dialoghi, che cercano spesso la battuta e utilizzano un gergo vicino al parlato del periodo. Va citata ad esempio, in tal senso,la sequenza, prettamente visiva, della riunione mondana a casa di Joe, con la camera che mostra i mestissimi e annoiati partecipanti, rappresentativi della fauna umana locale, prima che qualcuno se ne vada e possa tornare un po' di vita.
A un certo punto, quando il personaggio di Ralph fa comprendere a chiare lettere alla ragazza di non essere insensibile al suo fascino, il film sembra farsi più serio, con la neocoppia in fuga e Joe sulle loro tracce, e apparentemente sedersi. Sono passaggi che possono lasciare un po' delusi se confrontati con quel che il film ha dato fino a lì. Ma in realtà Mantrap è ancora in movimento, come i  personaggi. Di fatto, prima della fine le cose si riequilibrano e vanno più o meno come è “giusto” che vadano (Ralph torna al lavoro, Alverna torna all'ovile, la coppia ora è felicissima anche se la ragazza non sembra aver perso del tutto il gusto di flirtare, se ne ha l'occasione; la fedeltà amicale e coniugale tuttavia ha la meglio), ma la sequenza in cui i tre protagonisti si ritrovano è notevole nel lasciare la mano leggera su questo terzetto, con i personaggi che prendono (anche letteralmente) strade non scontate. Perché Mantrap rimane una commedia, non un dramma di tradimenti e passioni bensì un film con personaggi pronti a discutere le loro scelte, a chiedersi cosa è realmente meglio fare, mentre Alverna non è una femme fatale ma una simpatica opportunista, consapevole delle sue armi.
Il film si fa notare quindi per la scrittura: brillante non nel senso di script di ferro o di una brillantezza umoristica a ogni costo, ma perché matura, a costo di cambiamenti di tono e di dare l'impressione che sia quasi il film stesso a cercarsi, cosa che non ci si attende da una produzione di questo tipo. Tutto ciò non fa di Mantrap un assoluto gioiello, ma lascia la sensazione di aver visto una commedia poco convenzionale.
Clara Bow, divertente in un momento e seducente, in modo semplice o ammiccante, nell'altro, riteneva questo il suo film muto migliore. Da lì divenne particolarmente legata al regista; insieme girarono l'anno dopo Hula e sempre nel 1927 l'attrice interpretò It (da noi Cosetta), da cui nacque l'espressione “It Girl” per indicare un fascino non esattamente definibile. Henry Hathaway è accreditato come aiuto di Fleming.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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Scheda tecnica

Anno: 1926
Regia: Victor Fleming
Sceneggiatura: Adelaide Heibron, Ethel Doherty
Didascalie: George Marion
Fotografia: James Howe
Interpreti: Clara Bow, Ernest Torrence, Percy Marmont
Durata: 73'

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IL CINEMA RITROVATO 28 - Sotto il segno della Loren 

9/7/2014

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“Il cinema ritrovato” di quest'anno ha proposto un programma denso e variegato (forse fin troppo). L'omaggio a un regista hollywoodiano tra muto e sonoro è toccato stavolta a William A. Wellman: The Star Witness, trascurabile commedia-thrilling insistentemente morale, ma anche la commedia a colori (1937) Nothing Sacred che dona momenti di sbrigliato divertimento e Yellow Sky con Gregory Peck, bel western che si distingue per atmosfere, messinscena e storia: tra questo, il noto The Ox-Bow Incident e Westward the Women, il festival ha posto in rilievo l'apporto di Wellman al genere.
Venendo al muto, il focus sul cinema di un secolo fa, “Cento anni fa. Intorno al 1914”, si è strutturato in programmi tematici (pacifismo e guerra, dive, l'antichità...) e si è esteso agli anni vicini. Tra gli highlights il restauro della serie Fantômas di Louis Feuillade e Cabiria proiettato al teatro Comunale, con le sue tronfie didascalie dannunziane e orchestra e coro diretti da Timothy Brock.
Importante restauro muto Addio giovinezza di Augusto Genina, che avrebbe dovuto dirigere Nino Oxilia: il festival ha proposto diversi titoli di questo regista, dalle qualità di messinscena invidiabili nel cinema italiano d'epoca e con un'attenzione ai personaggi femminili, sofferenti, interpretati da star – qui e ne Il focolare domestico Maria Jacobini, in Fior di male (diretto con Carmine Gallone) Lyda Borelli – .
Si sono approcciate personalità misconosciute, come il regista tedesco Werner Hochbaum e Rosa Porten. Mostrati infatti pochi film muti sopravvissuti fra quelli diretti, sotto lo pseudonimo Dr. R. Portegg, dalla Porten (anche attrice) e da Franz Eckstein. Melò e commedie che ruotano intorno a temi sociali, divisioni di classe, amore e denaro, come Wanda's Trick, con la sua intelligente protagonista. Un'altra, più importante, regista omaggiata è Germaine Dulac, femminista che credeva nel cinema come sinfonia visiva e veicolo per idee di emancipazione, tra film più sentiti (La folie des vaillants) e più commerciali, come Antoinette Sabrier, di cui è pregevole la tesa parte finale.
Fra i “Ritrovati e restaurati”: Le jour se lève (con tagli censori d'epoca in coda), A Hard Day's Night introdotto da Richard Lester, Sayat Nova (Il colore del melograno) di Sergej Parajanov, i film con James Dean, Il gabinetto del dottor Caligari in un nuovo restauro dai negativi originali, quello dall'estetica meno “laccata” del solito (e va bene così) di Matrimonio all'italiana – ovazione del pubblico quando la Loren-Filumena Marturano rivela al neomarito di essere viva e vegeta – e quello discusso di Per un pugno di dollari. Dalla Cina il dramma Stage Sisters, godibile anche se nell'ultima parte gravato da un propagandismo smaccato. Ma anche cortometraggi: quelli di/con Jacques Tati, compreso il poco visto Gai dimanche, e tre con Peter Sellers, di cui alcuni scritti da Mordecai Richler.
Ancora cinema italiano con un omaggio a Riccardo Freda, da Aquila nera, con Rossano Brazzi bandito contro un Gino Cervi usurpatore, a L'orribile segreto del dr. Hichcock, e la prima parte della sezione “L'Italia in corto”, con episodi da film collettivi: scelta più originale il segmento di Riccardo Fellini dal film Storie sulla sabbia.
Ne “Il cinema in guerra contro Hitler” il documentario riscoperto Hitler's Reign of Terror che nel 1933 cercava di essere monito contro il führer, e The New Adventures of Schweick, farsa russa con protagonista uno sciocco soldato sballottato tra i tedeschi e i partigiani, con un Hitler ridicolizzato che spara ai suoi soldati. Peccato doverlo seguire con la traduzione in cuffia degli interpreti in cabina: possibile che per i film in sala Scorsese non si possa evitare?
Dopo i cechi dell'anno scorso, “La Nouvelle Vague polacca e il Cinemascope” ha proposto titoli noti, come l'incompiuto Paseżerka ma anche un musical, Adventures with a Song. Andando più lontano, classici indiani degli anni '50, tra cui il noto Mother India di Mehboob Khan, e “Il Giappone parla! I film della Shochiku” che ha permesso di vedere, per il terzo anno, film degli anni '30, anche inediti da noi, di registi come Mizoguchi e Ozu.
Prosegue l'attenzione della Cineteca verso Charlie Chaplin: tra le iniziative, la presentazione della seconda tranche di comiche della sua carriera, girate nel 1915 per la Essanay, che vedono una maturazione e definizione di Charlot – è un lavoro di restauro ancora in progress, anche se pare già di notare, come rilevato su alcuni forum per le altre comiche, alcuni missing bits, secondi che sembrano mancare e si notano perché indeboliscono alcune gag – .
Piazza Maggiore a parte, le serate più belle sono però state quelle in piazzetta Pasolini, con un vecchio proiettore a carbonella. Così si è visto Sangue bleu, film drammatico di Oxilia con Francesca Bertini che la Cineteca ha appena pubblicato in Dvd.
Da segnalare infine, nei documentari, Sperduti nel buio, sull'omonimo, leggendario film italiano perduto, con lo studioso Denis Lotti in viaggio a indagare sul tragitto delle pellicole del Centro Sperimentale trafugate dai nazisti.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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CINEMA MUTO 32 - Non solo Welles

16/10/2013

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A fronte di un aumento del costo dell'accredito per i pesanti tagli, le Giornate hanno proposto un programma “ricco di scoperte”.
Pienone per la prima mondiale del “film” di Orson Welles Too Much Johnson. Una serata di emozione cinefila, nel disvelamento di immagini mai proiettate prima e commentate da Paolo Cherchi Usai, per quello che, paradossalmente, non è un vero film ma doveva costituire l'introduzione ai tre atti di una pièce teatrale diretta dallo stesso Welles e di cui resta una copia lavoro. Welles sembra aver montato poco più delle prime due sequenze: l'introduzione di una coppia di personaggi di contorno, il protagonista Augustus Billings (che si spaccia per un certo Joseph Johnson ed è impersonato da Joseph Cotten) a letto con l'amante (con un editing notevole, creativo e rapido) e parte dell'inseguimento, anche sui tetti, tra il protagonista e il personaggio di Dathis, il marito cornificato, di cui vediamo tanto materiale, tra un assurdo nascondino fra pile di casse del mercato e l'apparizione di alcuni simil-Keystone cops, prima di infinite riprese e ciak ripetuti.
L'uso degli spazi può essere riconoscibile e già troviamo le tipiche inquadrature dal basso di Welles: alcune immagini sono di qualità e sebbene informe, la comica accelerata che il “film” doveva essere qualche volta suscita la risata. Il rullo più danneggiato contiene le divertenti inquadrature di Dathis che leva il cappello a una serie di uomini, per vedere se corrispondono alla foto della parte superiore del volto del protagonista, l'unica traccia che ha di lui. La seconda parte mostra una tumultuosa partenza in nave per Cuba, in cui si intrufolano pure Augustus e Dathis, che continua la sua ricerca (e la relativa gag). L'ultima parte contiene molto materiale sul duello fra Dathis e il vero Johnson, un proprietario terriero, più Augustus che qua e là si intromette, prima in cima a un dirupo poi in acqua. Il tutto contiene almeno un paio di fuori scena.
In “Labbra sigillate: gli anni dimenticati del cinema svedese 1925-1929”, si sono visti film successivi a quello considerato il periodo d'oro della cinematografia della nazione, dal gusto internazionale ed eterogenei. Come l'interessante Synd (Peccato) di Gustaf Molander, tratto da Strindberg, che inizia come una commedia e sfocia in dramma, con un mistero a base di flashbacks basati su testimonianze contradditorie.
All'interno di “Ucraina: il grande esperimento”, la sorpresa dell'anno, per chi scrive: Nichnyi Viznyk (Il vetturino notturno), mediometraggio di Heorhii Tasin, un dramma mozzafiato e allucinato su un uomo che compie una scelta sbagliata e conosce la violenza di stato in modo devastante, cooptato nel ruolo di accompagnatore alla morte prima di scegliere l'unica via d'uscita possibile. Venne contestato all'epoca perché psicologicamente introspettivo, ma andò peggio a Khlib (Pane) di Mykola Shpykovskyi, mediometraggio sulla collettivizzazione della terra che fu messo al bando: indubbiamente importante dal punto di vista visivo, è oggi francamente un po' stucchevole nel suo orizzonte ideologico e di cose concrete.
Tanti i brevi film della prima retrospettiva al mondo sull'animazione sovietica degli anni Venti: da citare almeno Pochta (Posta), viaggio di una lettera in giro per il mondo. “Anny Ondra, comedienne europea” ha mostrato parte della carriera dell'attrice (raffigurata nell'immagine ufficiale dell'edizione) che prima di recitare per Hitchcock (Blackmail in primis) fu la prima star del cinema cecoslovacco. Redivivus è una produzione per l'epoca ambiziosa, ingenua, bagnata di horror, con ampi flashbacks di ricostruzione storica.
Nella sezione “Gli «ultimi» di Gerhard Lamprecht”, film dalla parte dei loro personaggi sofferenti e con un occhio di riguardo verso i bambini. Die Verrufenen (Der fünfte stand), ovvero I malfamati (Il quinto stato), per esempio, ha per protagonista un uomo uscito dal carcere, che infine riesce a mostrare il suo valore, anche se perde un affetto. Lamprecht è regista corretto di film umani, morali, più che dignitosi.
Tra i film de “Il canone rivisitato”, l'americano Beggars of Life, con una coppia di vagabondi (lei è Louise Brooks) che si imbatte in una accolita di senza tetto poco raccomandabili. Nella sezione “Ritratti”, Musidora, la dixième muse, sulla poliedrica protagonista di Las vampires, da sex symbol amato dai surrealisti a collaboratrice di Henri Langlois.
Confermatesi appuntamento di alto valore, “Le giornate” hanno avuto però una programmazione non sempre agevole (il blocco di film delle origini dal vero messicani che sarebbe stato meglio spalmare su più giorni, come fatto per i cartoons con Felix e Ko Ko il clown, che aprivano e chiudevano ogni giornata). C'è poi la generale, annosa questione del passaggio al digitale: sempre più copie di film chiaramente girati in 35mm proiettate in DCP, formato standard del presente e forse del futuro, dalla resa però dubbia, quando non soggette a frequenti fermi immagine, come successo per i film di Lamprecht visti.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival

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IL CINEMA RITROVATO 2013 - Il paradiso dei cinefili

11/7/2013

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In sintesi, gli otto giorni bolognesi, iniziando dalla consueta sezione “Cento anni fa”: highlight, il restauro di Ma l'amor mio non muore!, melodramma con Lyda Borelli che ha dato inizio al diva-film tricolore. Poi le brevi commedie di Léonce Perret, intelligenti per il gioco di sospetti e menzogne tra marito e moglie; Ingeborg Holm di Victor Sjöstrom, dal linguaggio filmico ancora semplice ma “definitivo nel suo enunciato sociale” (Peter Van Bagh; del regista è stato proiettato altrove anche I proscritti restaurato).
Per gli amanti del primo cinema, “Il cinema ambulante ritrovato”: due serate all'aperto per una selezione di film proiettati con un vecchio apparecchio, alimentato a carboni, che ha suscitato interesse. I brevi film visti - comici, drammatici, colorati a pochoir - vengono dal fondo del teatro ambulante Morieux, ritrovato in Belgio: manifesti (alcuni, splendidi, sono visibili fino al 31 agosto in Sala Borsa), film Pathé e Gaumont delle origini in buone condizioni, proiettori e altro.
I film Mutual (1916-17) di Charlie Chaplin restaurati hanno aperto alcune proiezioni in piazza Maggiore, in cui la prima sera si è vista la godibilissima Carmen di Cecil B. DeMille con la partitura originale poderosamente eseguita dell'orchestra di Timothy Brock. È seguita la parodia Burlesque on Carmen, ricostruita (il film fu assemblato “alle spalle” dell'attore-regista), non tra i Chaplin migliori.
La sezione “La guerra è vicina: 1938-1939” ha presentato una serie di film che evocano paure del periodo, come Tutto finisce all'alba di Max Ophüls, dramma su una donna che finge di essere ciò che non è per un uomo (peccato la traduzione in oversound, per questo e altri film sonori).
È proseguita la sezione sul Cinemascope europeo, con tra gli altri il bellissimo I disperati di Sandor di Miklós Jancsó, intensa e ben studiata sinfonia, condotta con una camera fluida, di volti, menzogne e viltà tra vittime e carnefici, tra potere e popolo, tutto in un campo di prigionia e dintorni.
Nell'omaggio a Vittorio De Sica, il figlio Manuel ha presentato il noto La porta del cielo, che acusticamente porta i segni di una lavorazione difficile e con gli ultimi dieci minuti in chiesa troppo imbevuti di religiosità (sebbene “di comodo”, secondo Manuel De Sica: Zavattini era laico). Omaggio anche per Burt Lancaster, con Vera Cruz di Aldrich e l'appena restaurato Un uomo a nudo di Frank Perry, presentato dalla figlia Joanna che ha ricordato come il padre avesse dovuto prendere lezioni di nuoto (The Swimmer è il titolo originale) per impersonare il protagonista, che compie un percorso di piscine altrui per arrivare a casa. Il film colpisce per la progessione drammatica che gira il coltello nella solitudine e nel passato del protagonista, sebbene ecceda nel finale.
Per “Ritrovati e restaurati”, il documentario-omaggio a una città Études sur Paris di André Sauvage, Giorno di festa e il corto Soigne ton gauche di Jacques Tati, Il temerario di Nicholas Ray, Falstaff (questi ultimi tre in piazza), il restauro del bel Delitto in pieno sole di René Clément. Anouk Aimée, che avrebbe dovuto presentare L'amante perduta di Jacques Demy, ha dato forfait mentre Agnès Varda ha introdotto l'esordio La pointe courte (per “Cinemalibero”).
Se la proiezione della versione 3D di Delitto perfetto non è andata bene, Alfred Hitchcock è stato omaggiato con i suoi film muti, da The Pleasure Garden a Blackmail, restaurati dal British Film Institute e proiettati in pellicola, ribadendo l'importanza della sua sopravvivenza. Vi si riconosce un regista già maturo, capace di invenzioni e momenti non indegni dei suoi film più famosi.
L'ampio, tradizionale omaggio a un cineasta Usa è toccato ad Allan Dwan: dai muti al bel La campana ha suonato, western di denuncia del maccartismo (l'antagonista, che accusa arbitrariamente il protagonista, si chiama... McCarthy) e del conformismo, chiaro nel contenuto civile e sicuro come spettacolo, compreso un bel carrello che accompagna il protagonista in fuga.
Interessanti i film cechi della sezione “L'emulsione conta: Orwo e Nová Vlna (1963-1968)”, appartenenti a un periodo in cui nel paese si sperimentava con le pellicole. Perlopiù proiettati in copie d'epoca dignitose (a parte il notevole Un sacco di pulci, ambientato in un collegio femminile dal punto di vista di una delle ragazze, restaurato), si sono visti Le margheritine, che con stile esplosivo critica il consumismo, mettendo in scena due ragazze libere dedite a giocare con gli uomini e mangiare o sprecare cibo (al grido di “A chi importa?” e “Se il mondo è marcio, siamo marce anche noi!”), il favolistico Un giorno un gatto, che pare un film Disney più maturo, e il cult-western demenziale Lemonade Joe, con un pistolero che beve solo limonata.
Non è tutto, ma è impossibile essere esaustivi: “Il cinema ritrovato” si conferma sempre più un appuntamento irrinunciabile per ogni appassionato che voglia approfondire la storia del cinema, e vedere o rivedere classici sul grande schermo. Se ci vai, ci torni.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival

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