ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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BIOGRAFILM 13 - Io danzerò (La Danseuse), di Stéphanie Di Giusto

14/6/2017

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​La folla che domenica sera si è riversata davanti al cinema Europa era animata da un unico desiderio: vedere Lei, Soko, la danseuse che Stéphanie Di Giusto ha portato sullo schermo, e poter carpire i contorni dell’immagine vaporosa e leggiadra che campeggia sui manifesti di questa tredicesima edizione del Biografilm Festival. Pur essendo la quarta proiezione del film, premiato per i costumi agli ultimi César e in uscita nelle sale italiane con il titolo Io Danzerò, la coda all’ingresso ha riconfermato un interesse sfrenato verso questo lavoro.
​Tutti vogliono vedere la danzatrice, è la presenza evanescente che strizza l’occhio dal trailer del festival e dalle locandine: una protagonista silenziosa e tutta piena di mistero.

Mary - Louise Fuller, un nome che a molti non dirà nulla. Gli amanti della danza forse la conoscono, qualcuno ha digitato il suo nome su YouTube trovando qualche spezzone di filmato, ma è la regista, presente in sala, a fare chiarezza su questo punto: le ballerine filmate che sono arrivate a noi oggi, sono imitatrici. La verità è che la Fuller ha saputo dare una scossa al periodo storico in cui è vissuta, ma è scomparsa senza lasciare traccia. Quindi la Di Giusto ci prepara a una visione che assume i contorni di performance a tutto tondo: Soko, l’attrice che veste i panni della Fuller sullo schermo, è risalita alla sua particolare danza studiando il materiale reperibile. Come tale tutto ciò che stiamo per vedere è una finzione pericolosamente vicina alla realtà, una biografia postuma fatta di fiato, sudore e sforzo fisico.
Sin dalle prime scene veniamo aggrediti da un film che si annuncia intenso, feroce, polveroso e bestiale. La Fuller trascorre l’infanzia nel cuore di un bosco con il padre, ubriacone sempre pronto a capitare al centro di qualche rissa, unico vero amico per questa ragazza silenziosa e ruvida nei modi. Ha una cascata di capelli arruffati e un viso dalle espressioni schive, appare come un animale selvaggio e perennemente sulla difensiva. Si ha l’impressione di respirare la foschia del bosco, si annega nella miseria degli interni, ci si affeziona presto a questa ragazzina che legge versi a voce alta mentre là fuori suo padre viene crivellato dalle pallottole per un pareggiamento di conti. 
Una vita che parte in salita e porta Mary - Louise a rifugiarsi nella Brooklyn del 1892, armata solo di un borsone e del cappello consunto di papà: approda così controvoglia alla residenza della madre che non vede da anni, sede del Movimento della Temperanza. In quell’ambiente claustrofobico e bigotto, la ragazza privata della fluente chioma a colpi di forbice inizia a guardarsi attorno, sperando di ottenere una piccola parte in uno spettacolo. 
Pare che il suo destino sia segnato, ogni volta viene ingaggiata come comparsa ed è forse durante uno di quei mediocri spettacoli di vaudeville che ha inizio la vera favola della farfalla: viene costretta a indossare una gonna troppo ampia e, una volta sul palco, l’abito si affloscia scivolando ai suoi piedi e scatenando risa di scherno. Mary - Louise, con un guizzo imprevedibile di genialità, decide allora di sollevare quella lunga sottana e girare su se stessa. L’esperimento piace. I movimenti del tessuto distraggono il pubblico, un bambino seduto in sala esclama “è una farfalla!”.
È l’inizio di un mito che non troverà in America lo spazio che merita, ma darà uno scossone violento alla Parigi del primo Novecento. E occorre un nuove nome, Loïe.

Abbiamo dunque la possibilità di addentrarci fra i pensieri di una ballerina che non ha mai studiato danza, ma ha talento visionario e uno spiccato senso della pianificazione: Loïe traccia i suoi schizzi su un album da disegno e punta sicura all’Opéra di Parigi, soppesa i suoi veli di tessuto vibrante, crea una vera e propria macchina spettacolare sul proprio corpo. 
Aiutata da bacchette di bambù si assicura le suggestioni di un’autentica apertura alare, chiede ai teatri di provvederla di proiettori per essere attraversata da luce colorata mentre intrattiene le platee piroettando fra le spirali di stoffa bianca. Smette così di essere donna e si consacra a farfalla, dea dei fiori e della luce, uccello selvaggio. Le sue braccia diventano grosse e muscolose, il suo corpo esile, da bambina, viene plasmato da un sacrificio estremo e appassionato. I giornali iniziano a parlare di “poema animato di fiori” mentre Loïe stringe amicizia con Louis (Gaspard Ulliel), nobile decaduto avvezzo a fare uso di etere: resterà al suo fianco, sfiorerà con timore le sue ali di farfalla, nutrirà un sentimento non corrisposto e la seguirà in un’avventura deliziosa, tragica, folle.
In breve Loïe mette in piedi la sua scuola di danza. Magnifiche le sequenze girate nel parco della villa di Louis, dove un gruppo di danzatrici vestite di veli bianchi allenano il corpo a ritrovare contatto con la leggerezza e la natura, rompendo gli schemi ferrei della danza classica. A guidarle è proprio lei, la ballerina venuta dal nulla, il fenomeno iridescente che tutta la Francia acclama a gran voce, la musa di artisti come Tolouse – Lautrec, l’icona dell’Art Nouveau.
Ma se il successo bussa alla porta, con l’ambito interessamento da parte dell’Opéra di Parigi, la tragedia si avvicina a grandi passi. Ben presto questa divina incarnazione di leggerezza incassa i colpi della sua arte pericolosa: il fisico debilitato la costringe a immergere spesso le braccia nel ghiaccio e le retine vengono bruciate dalle forti luci dei proiettori. Sappiamo, da ricerche successive, che il radium utilizzato per luci colorate stava intossicando la ballerina che sarebbe morta a causa di un cancro, anni dopo.
Soko è trasfigurata, la vediamo sempre più pallida, costretta a indossare occhiali scuri, incurvata dal dolore. Frattanto, alla scuola di danza, arriva Isadora Duncan (Lily-Rose Depp, figlia di Johnny Depp e Vanessa Paradis), la cui fama ottenebrerà quella di Loïe sullo schermo come nella realtà storica dei fatti. Per Loïe, dichiaratamente lesbica, Isadora è il colpo di grazia: un amore non ricambiato appieno, un flirt mosso solo dalla sete di successo della giovane allieva. 
La Duncan viene dipinta come un’arrivista della peggior sorta: da sua affezionata studiosa non mi sono trovata pienamente d’accordo con questo affresco di lei, ma passa ugualmente in secondo piano davanti alla vicenda umana della Fuller. Perché per quanto sarà la Duncan a spiccare realmente il volo nel mondo della danza, alla donna – farfalla rimane il compito di raccontare un percorso umano ricco, doloroso, disperato. 
Tutta l’attenzione è per Loïe. Questo film invita quasi a fermarsi un istante nella stanza con lei, a guardarla, a comprendere il suo dramma. Si scende in una voragine fatta di velo impalpabile e colorato, di bacchette, pesi, corde, di sentimenti repressi e cuori spezzati, di talenti in declino.
“Senza il mio abito non sono niente” confessa Loïe a Louis addormentandosi sul suo petto. La danseuse è il film che ora può finalmente contraddirla.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia: Stéphanie Di Giusto
Sceneggiatura: Stéphanie Di Giusto, Thomas Bidegain, Sarah Thiebaud
Attori: Soko, Gaspard Ulliel, Mélanie Thierry, Lily-Rose Depp, François Damiens
Fotografia: Benoît Debie
Montaggio: Géraldine Mangenot
Anno: 2016
Durata: 108'
Uscita italiana: 15 giugno 2017

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BFM 34 - La Californie (In California), di Charles Redon

10/3/2016

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​Charles filma la sua fidanzata, Mathilde, ballerina di danza classica. All'inizio è solo un gioco, ma poi si trasforma in qualcosa d'altro. Una vera ossessione. Mathilde sogna di diventare prima ballerina all'Opéra di Parigi, ma ogni anno ai provini viene scartata, o perché troppo giovane o perché troppo magra. Soffre di disturbi alimentari sin da quando era ragazzina, cerca in tutti i modi di trovare la perfezione nel suo corpo e nel suo lavoro, si allena duramente per sfondare. Charles la spia, la pedina, la riprende in ogni momento della vita quotidiana: mentre mangia, mentre si esercita, mentre si cambia, mentre dorme, anche quando è nuda sotto la doccia.
​Charles ama Mathilde, è preoccupato per i suoi problemi con il cibo, ma soprattutto è irresistibilmente attratto dalla possibilità di filmare qualsiasi gesto e azione che la riguardi. Mathilde lo lascia fare, anche se in certi momenti inizia a essere stufa di questo occhio meccanico che la fissa in ogni istante. I due si trasferiscono in California, dove Mathilde trova un importante lavoro come prima ballerina; per lei finalmente arrivano il successo e una certa fama, cosa che accresce ulteriormente la “dipendenza” di Charles. Tra loro aumentano le incomprensioni e si acuisce un certo distacco; lei trova un amante e lascia momentaneamente Charles. Lui continua a spiarla anche da lontano. La fissazione scivola verso il masochismo.

Presentato nella sezione Visti da Vicino, riservata ai documentari, La Californie è senza dubbio uno dei titoli più originali e interessanti selezionati in questa edizione del Bergamo Film Meeting. A realizzarlo e interpretarlo Charles Redon, classe 1984, insieme alla fidanzata Mathilde Froustey, complice di un lavoro durante il quale finzione e realtà sanno trovare un felice punto di incontro. Se infatti nella parte iniziale sembra di assistere a un doc incentrato sul complesso rapporto affettivo tra due persone, nel corso nella narrazione l'opera cambia pelle, mutando in un vero e proprio film nel quale si racconta una storia, con tanto di svolte, colpi di scena e variazioni di prospettiva.
​L'ossessione di Charles nei confronti di Mathilde annulla i confini del pudore, infilandosi in un campo aperto dove nulla ci viene nascosto: il ragazzo riprende la compagna in ogni istante, sul lavoro e tra le pareti di casa, per le vie della città e in ospedale, ma anche nei momenti più intimi, mentre ne esplora il sesso con le dita, mentre la penetra, sfidando ogni eventuale interrogativo morale. In principio viene infatti da chiedersi se sia giusto filmare una persona con tale morbosità, e mostrarne pubblicamente pregi e difetti, problematiche e fragilità; il dubbio peraltro svanisce quando ci si rende conto che Mathilde ha dato il pieno assenso a inserire nel film ogni scena a cui abbiamo assistito, cosa infatti confermata dallo stesso Redon dopo la proiezione.
Eliminate dunque le eventuali perplessità di cui sopra, va dato atto a Redon di aver assemblato, tassello per tassello, un notevole disegno artistico in cui la struttura portante del documentario si fa altro da sé, percorrendo strade prima parallele e poi convergenti, lungo le quali si compie un viaggio che esplora le fisime di due persone che si spogliano di ogni maschera per scendere in profondità nei meandri di se stesse.
​Mathilde si scontra con il cibo e le frustrazioni del mestiere; Charles cerca a tutti i costi la qualità dell'immagine e la rappresentazione del corpo della compagna; tra i due l'amore muta in battaglia, ci si allontana e riavvicina, si prova affetto ma anche vivo disgusto, attrazione e odio, voglia di imporsi e desiderio di punirsi, in un saliscendi emotivo che tocca picchi inattesi (l'incontro di Charles con una Mistress) e finisce per appassionare come se si stesse assistendo a un film di pura invenzione, sino a giungere a un epilogo forse sorprendente, che non sveliamo nel caso in cui un distributore coraggioso decidesse di portare La Californie in Italia (cosa peraltro improbabile). 
Nell'incontro con il pubblico post-visione Redon, presente in sala e assai loquace, si è reso disponibile per soddisfare le curiosità degli spettatori. A un certo punto gli è stato chiesto “ma lei, in questo film, ci ha detto la verità o ci ha mentito dall'inizio alla fine?”. La risposta è stata molto significativa: “il film è tutta una bugia. O meglio, è una «sovrabugia», perché in tutto quello che avete visto c'è un insieme di realtà e finzione, vita vera e costruzione scenica, immediata sincerità e scelte di montaggio. Un qualcosa che va oltre alla bugia e che allo stesso tempo va oltre alla verità”. 
Proprio qui, in questa affascinante amalgama stilistica, risiede l'estremo interesse di un lavoro coraggioso e stimolante che mostra, ancora una volta, come il cinema possa travalicare qualsiasi definizione e limite.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia: Charles Redon
Anno: 2015
Durata: 78'
Montaggio: Suzana Pedro
Attori: Charles Redon, Mathilde Froustey

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BFM 33 - Il programma: profumi d'Europa

5/3/2015

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Si apre sabato 7 marzo l'edizione numero 33 del Bergamo Film Meeting, manifestazione che come ogni anno riesce a ritagliarsi un ruolo pregevole e a suo modo unico nell'affollato panorama festivaliero italiano, grazie alla sempre viva attenzione rivolta al cinema di qualità e al lancio di autori troppo poco conosciuti qui da noi.
Mai come quest'anno il BFM riconferma il suo orientamento rivolto al cinema europeo, da cui provengono la quasi totalità dei 120 film che saranno proiettati dal 7 al 15 marzo; una scelta coerente e decisa che sottolineiamo e condividiamo con assoluto piacere, scrollandoci di dosso ogni facile suggestione commerciale proveniente d'oltreoceano.
Il programma è come sempre ricchissimo; nove giorni di maratona cinefila in cui navigare dalle prime ore del mattino fino a tarda sera alla scoperta di tematiche articolate, storie per tutti i gusti e registi che in molti casi mai avevano trovato un simile spazio in Italia. 
Si inizia con il concorso lungometraggi, con sette film diretti da autori giovani, tutti in anteprima nazionale, incentrati su temi prettamente contemporanei, presentati all'Auditorium di Piazza Libertà e poi replicati al Cinema San Marco: Anderswo, dalla Germania; Why Can't I Be Tarkovsky?, dalla Turchia; Loreak, dalla Spagna; Modris, dalla Lettonia; Gente de Bien, ambientato in Colombia ma diretto da un autore di scuola francese; Amnesia, dalla Norvegia; Afterlife, dall'Ungheria.
Prosegue poi per il secondo anno Europa: femminile singolare, l'interessantissima sezione dedicata ad autrici europee di cui viene proposta la totalità delle opere. Quest'anno l'attenzione è concentrata sull'inglese Andrea Arnold (premio Oscar per il cortometraggio Wasp e premio speciale della giuria a Cannes sia per Red Road che per Fish Tank), sulla bosniaca Aida Begic, sull'ungherese Agnes Kocsis e sulla portoghese Teresa Villaverde. Se togliamo la Arnold, ormai apprezzata a livello mondiale, abbiamo tre autrici note agli addetti ai lavori ma pressoché sconosciute al pubblico; l'opportunità di scoprire la loro filmografia sarà dunque alquanto ghiotta.
Come sempre si riconferma la sezione Visti da vicino, con numerosi documentari indipendenti quasi tutti inediti in Italia, in molti casi seguiti da un dibattito in sala con i rispettivi autori. Non mancano poi proposte riservate ai bambini e ai ragazzi delle scuole, con proiezioni ad hoc tra le quali non possiamo non rimarcare la scelta di inserire in programma il bellissimo Bande de filles di Céline Sciamma.
Lodevoli le retrospettive di questa edizione, a partire da un'ampia rassegna dedicata al Polar francese, con circa 20 titoli realizzati tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Sessanta, pellicole esemplificative di un genere che ha saputo raccogliere gli elementi base del poliziesco provenienti dagli States per poi rimodellarli secondo la sensibilità transalpina, trovando una ricetta originale entrata a pieno diritto nella storia del cinema d'Oltralpe. Tra gli imperdibili titoli in programma, Quai des Orfèvres di Clouzot, Le trou di Becker, Classe tous risques di Sautet, Le doulos di Melville e Le desordre et la nuit di Grangier. 
Accanto al polar ci sarà inoltre una seconda retrospettiva intitolata Dopo la prova e composta da opere incentrate sul concetto stesso di messinscena, sui complessi meccanismi della rappresentazione e sulle commistioni tra cinema e teatro. Anche in questo caso in programma capolavori da non perdere come Stage Fright di Hitchcock, Deathtrap di Sidney Lumet, Dopo la prova di Bergman e L'esquive di Kechiche. 
Non è finita qua: a Bergamo ci saranno anche una personale dedicata a Pavel Koutsky, importante autore di cinema d'animazione ceco poco conosciuto in Italia; alcune anteprime di sicuro interesse (ad esempio Une nouvelle amie, il nuovo film di François Ozon); proiezioni speciali dedicate alla riapertura dell'Accademia Carrara (con l'anteprima nazionale di National Gallery di Wiseman e la riproposizione in quattro puntate di Belphégor, Il fantasma del Louvre, la miniserie Tv che nel 1965 inquietò profondamente gli spettatori francesi); la consueta fantamaratona, quest'anno neanche a farlo apposta di venerdì 13, con Christopher Lee in Theatre of Death di Samuel Gallu e un meraviglioso Vincent Price in Theatre of Blood di Douglas Hickox. Non mancheranno infine, come sempre, incontri con gli autori ed eventi collaterali.

Appuntamento dunque a Bergamo da sabato 7 a domenica 15 marzo, e qui sulle pagine di Orizzonti di Gloria per le recensioni in diretta dall'evento di alcuni tra i film più significativi in concorso. 

Il programma completo e le modalità d'ingresso sul sito ufficiale. Qui sotto il divertente trailer di presentazione del festival.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Report

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FRANCE ODEON - Marie Heurtin, di Jean-Pierre Améris

5/11/2014

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Dopo l’ottima accoglienza all’ultima edizione del Festival di Locarno, dove ha vinto il Variety Piazza Grande Award, Marie Heurtin approda in anteprima nazionale alla VI Edizione di France Odeon, la rassegna del cinema francese inserita come di consueto nel cartellone della 50 Giorni di Cinema Internazionale di Firenze.
Il nuovo film di Jean-Pierre Améris, ancora inedito in Francia dove uscirà il 12 novembre, è ispirato ad una storia vera avvenuta in Francia alla fine dell’Ottocento. Marie Heurtin, ragazza selvaggia incapace di comunicare con il mondo che la circonda essendo sorda e cieca dalla nascita, viene portata da suo padre all'Istituto Larnay, vicino a Poitiers, dove le monache si prendono cura di bambine e ragazze sorde. Suor Marguerite se ne prende subito a cuore e decide di votarsi alla causa, che i più ritengono persa in partenza, nonostante il forte scetticismo della madre superiora. 
La giovane, chiusa, ostile e diffidente nei confronti del mondo esterno a lei totalmente sconosciuto ed estraneo, non ha mai appreso le regole del vivere civile, non si fa lavare, vestire, pettinare e reagisce in modo violento quando le viene chiesto di fare qualcosa e di sforzarsi di apprendere cose nuove. Ogni tentativo da parte di suor Marguerite sembra cadere nel vuoto ma la sua incredibile tenacia e soprattutto il suo amore “materno” nei confronti della giovane riescono a poco a poco a produrre effetti positivi. Marie imparerà a vivere accanto agli altri, ad aprirsi al mondo esterno grazie alla lingua dei segni e a rendersi così autosufficiente. 
Impossibile durante la visione del film non pensare a titoli come Anna dei miracoli di Arthur Penn e Il ragazzo selvaggio di François Truffaut, opere imprescindibili che avevano già affrontato la stessa tematica con esiti superlativi. Améris, nel suo piccolo, realizza un’opera matura e di grande rigore formale, impeccabile e necessaria nella sua estrema semplicità e classicità, caratteristiche sempre più rare e preziose nel cinema odierno. Un film intenso e commovente nella miglior accezione del termine, mai ricattatorio, che evita sempre di scadere nel patetico e nello stucchevole. 
Quando si ha a che fare con una storia di questo tipo è sempre difficile tenersi alla larga dalle scorciatoie atte a suscitare una facile commozione ed un’immediata empatia nel pubblico. Il regista francese, qui al suo nono lungometraggio ma conosciuto in Italia esclusivamente per la commedia romantica Emotivi Anonimi, è riuscito a superare brillantemente questo ostacolo grazie ad uno script asciutto, lineare e rigoroso incentrato sulle due straordinarie figure femminili protagoniste della vicenda. Fondamentale l’apporto delle due attrici principali, la sorprendente Ariana Rivoire qui al suo esordio assoluto nella parte di Marie di cui condivide la sordità e Isabelle Carré – già diretta da Améris proprio in Emotivi Anonimi - nei panni di suor Marguerite. La stessa Rivoire, attrice non professionista di straordinaria bravura, a Locarno ha dichiarato di aver incontrato per caso il regista al self service dell’istituto dove stava facendo i provini per il casting a cui non si era iscritta e di essere stata convinta proprio da Améris a partecipare al film. 
Marie Heurtin ha la sua ragion d’essere proprio nell’incontro-scontro tra la giovane e la religiosa, nel loro intenso e continuo rapporto tattile, nel travagliato e difficoltoso percorso che le due donne compiono insieme, fatto di un reciproco scambio di fiducia ed amore, al termine del quale si scopriranno più forti e consapevoli. Sono loro il suo cuore pulsante di un film che, complice il passaggio a France Odeon, ci auguriamo di poter vedere distribuito quanto prima anche in Italia. Se così non fosse sarebbe solo l’ennesimo, piccolo, gioiello che la nostra distribuzione si lascia sfuggire.

Boris Schumacher 

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Titolo originale: Marie Heurtin
Anno: 2014
Regia: Jean-Pierre Améris
Sceneggiatura: Jean-Pierre Améris, Philippe Blasband
Fotografia: Virginie Saint-Martin
Musiche: Sonia Wieder Atherton
Durata: 95’
Interpreti principali: Ariana Rivoire, Isabelle Carré, Brigitte Catillon, Laure Duthilleul

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RENDEZ-VOUS - In viaggio nel cinema francese

2/4/2014

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Per tutti i cultori del cinema francese, o semplicemente per chi ama i film di qualità, la quarta edizione di Rendez-Vous si propone come un appuntamento di sicuro e ampio interesse. Parliamo di una sorta di festival itinerante, che dal 2 aprile al 10 maggio toccherà diverse città italiane, partendo da Roma per poi transitare a Napoli, Bologna, Palermo, Torino e Milano (queste ultime in modo purtroppo molto più limitato), proponendo in tutto una quarantina di titoli, tutti rigorosamente di produzione transalpina.
Come nelle annate precedenti il Rendez-Vous cercherà di toccare un po' tutti i generi in cui la cinematografia francese eccelle, in un affascinante viaggio che toccherà la commedia e il neopolar, l'animazione e la tragedia familiare, la satira sociale e l'intimismo, in una bella e coinvolgente alternanza di tematiche e stili, passando da autori più che conosciuti a recentissimi medio/piccoli lavori indipendenti diretti da registi giovani.
L'apertura vedrà a Roma la presenza del maestro Bertrand Tavernier, con il suo ultimo film, Quai d'Orsay (interpretato tra gli altri da Niels Arestrup e Anais Demoustier), già premiato in patria e distribuito negli States, ma inedito in Italia. La proiezione a inviti, dunque non aperta al pubblico, sarà peraltro riservata a pochi e selezionati eletti; una scelta piuttosto assurda.
Durante i quasi quaranta giorni di festival, sparsi nei luoghi sopracitati, troveranno posto mini-retrospettive dedicate a Michel Gondry e al talentuoso Guillaume Brac, un pregevole omaggio al compianto Alain Resnais, e tante opere da non perdere, alcune delle quali già viste sul territorio nazionale (gli ottimi La bataille de Solférino e 2 automnes 3 hivers, proiettati al Torino Film Festival così come lo straordinario L'Image Manquante, candidato all'Oscar). 
Molti però saranno i film da noi totalmente inediti: tra gli altri ci sentiamo di segnalare senza dubbio Aimer, Boire et Chanter, l'ultimo (capo)lavoro di Resnais premiato a Berlino, con Sabine Azéma, André Dussollier e Sandrine Kiberlain; L'amour est un crime parfait, sensuale e misterioso thriller chabroliano con Mathieu Amalric, Karin Viard e Sara Forestier; Mea culpa, cupo noir di Fred Cavayé, con Vincent Lindon (stessa accoppiata del notevole Pour Elle); Tip Top, bizzarra commedia a sfondo satirico con ancora Sandrine Kiberlain, insieme a François Damiens e Isabelle Huppert; Tonnerre, di Brac, premiato a Locarno 66; Une place sur la terre, delicata storia d'amore con un intrigante Benoît Poelvoorde in veste drammatica; Grand Central, di Rebecca Zlotowski, con Tahar Rahim e Léa Seydoux; Violette, di Martin Provost, biopic letterario con Emmanuelle Devos, Olivier Gourmet e (di nuovo) la Kiberlain, ormai voluta e amata da tutti come dimostra anche il premio César appena vinto. 
Insomma, leggendo i nomi presenti nelle varie pellicole appare chiaro che nelle prossime settimane si potrà davvero navigare nel meglio del cinema francese contemporaneo (il migliore al mondo, a giudizio di chi scrive, come ormai ben sapete). Un'occasione da non perdere, a maggior ragione considerando che con ogni probabilità quasi tutti i titoli appena elencati saranno ignorati dai lungimiranti distributori nostrani e quindi mai troveranno posto nelle sale. 
A completare il programma ci saranno incontri gli autori, alcune masterclass (ad esempio Gondry l'11 aprile), e una serie di cortometraggi in cui il mondo della fotografia e del cinema troveranno un'originale fusione di sguardi. 

Il programma completo della manifestazione è scaricabile a questo link.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival

Sezioni correlate: La vie en rose

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BFM 32 - La dune, di Yossi Aviram

13/3/2014

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In una città in Israele, Hanoch gestisce una piccola officina di riparazione biciclette; nelle pause di lavoro impegna il proprio tempo giocando a scacchi con un vecchio amico. La moglie è incinta, ma lui non si sente pronto per la paternità. La sua decisione causa la separazione dalla compagna. Nel frattempo a Parigi l'anziano ispettore Reuven Vardi non riesce a sventare il suicidio di uno scrittore. Stanco e deluso, Vardi chiede il pensionamento anticipato. 
Un giorno Hanoch compare a Parigi e inizia di nascosto a pedinare l'ispettore, per motivi che al momento non conosciamo. Poco tempo dopo una ragazza trova lo stesso Hanoch privo di sensi, senza documenti, in una spiaggia sulla costa. Portato in ospedale l'uomo si risveglia, ma pare aver perso la memoria e rimane chiuso in un inspiegabile mutismo, senza pronunciare nemmeno una parola. Il capo della polizia parigina assegna a Vardi il caso. Superata l'iniziale reticenza il vecchio ispettore si mette in viaggio per indagare e scoprire l'identità dell'uomo. I due, all'apparenza estranei, condividono in realtà un legame che sarà gradualmente svelato.
Presentato in concorso al Bergamo Film Meeting, in anteprima nazionale, La Dune è diretto da Yossi Aviram, classe 1971, documentarista qui al suo debutto nel lungometraggio per il cinema, con un film girato quasi interamente con troupe francese. L'autore israeliano, nato a Gerusalemme, prende spunto da una storia realmente accaduta in Inghilterra, e da un doc da lui realizzato qualche anno fa, per portare sullo schermo una narrazione che travalica i confini di genere, intrecciando un complesso mosaico strutturale che segue in montaggio parallelo gli accadimenti riguardanti due uomini tanto diversi per provenienza geografica quanto in realtà uniti da un vincolo di non immediata comprensione. Per precisa scelta, il regista lascia allo spettatore un concreto senso di incertezza, compensato poi solo parzialmente da una risoluzione che spiega a grandi linee le soluzioni della vicenda senza peraltro svelarne tutti gli aspetti; una decisione coraggiosa, sulla carta respingente ma in realtà appropriata, grazie alla qualità della messinscena e all'invidiabile padronanza con cui Aviram tesse le fila del racconto, attraverso una sceneggiatura impeccabile ed estremamente affascinante.
Di matrice israeliana, vista l'origine dell'autore, La dune è in realtà in tutto e per tutto un film francese, nella produzione così come nell'anima e nello stile; un classico esempio di un tipo di cinema che chi non ama la realtà transalpina potrebbe definirebbe noioso. Al contrario, è proprio la rarefazione dello sviluppo narrativo a donare alla pellicola un esaltante senso di mistero, condotto con magistrale cautela tra lunghi silenzi, sguardi lontani, azioni lente, pensieri trattenuti e tasselli mancanti.
Il lavoro di Aviram si pone come un'intelligente rappresentazione di tre solitudini che s'incrociano, a partire da Hanoch, in viaggio con la sua bicicletta verso una ricerca che possa fargli ritrovare il senso perduto della vita, per proseguire con l'ispettore Verdi, ormai stufo del suo lavoro, appesantito da un passato che lo ferisce e da un presente che non offre più emozioni; una quotidianità che scivola via (“dormo tutto il giorno e alla sera sono esausto”), addolcita solo dal rapporto con il compagno Paolo, con l'amato cane e con le indistruttibili abitudini (il caffè al solito bar). A loro si aggiunge poi Fabienne, la ragazza che trova Hanoch privo di sensi sulla spiaggia; non contenta di averlo salvato si affeziona a lui, nonostante egli non apra bocca, e continua ad andarlo a trovare in ospedale, raccontandogli la sua vita, in un dialogo a una sola voce utile per espiare il sentimento di abbandono di cui anche lei soffre.
Così, tra una mossa sulla scacchiera e una passeggiata con il cane, una via metropolitana e un baretto deserto in un paesino di provincia, il film si dipana, senza fretta, immergendoci in un'atmosfera tanto malinconica quanto ipnotizzante, grazie a un controllo registico saldissimo e ad attori di alto livello, a iniziare da Niels Arestrup, fresco vincitore del suo terzo premio César e ormai giunto a una maturità interpretativa eccezionale. Accanto a lui Lior Ashkenazi, già visto in Kalevet e Big Bad Wolves, bravo a lasciar parlare soltanto il volto durante le numerose scene prive di dialogo. Con loro il sempre puntuale Guy Marchand, la bella Emma de Caunes e, in un ruolo piccolo ma significativo, il grande Mathieu Amalric.
Suadente e ricchissimo di sfumature, La dune cela al suo interno un prezioso scrigno colmo di affetti perduti, disillusioni, istinti repressi, piccoli abbracci, nostalgie e speranze; un disegno da comporre poco a poco, con la giusta parsimonia, per giungere a testa alta all'ultima, bellissima inquadratura, proiettata verso un domani incerto, sì, ma con ogni probabilità migliore. Perché in fondo non è mai troppo tardi per rincominciare ad amare.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival


Scheda tecnica

Regia: Yossi Aviram
Sceneggiatura: Yossi Aviram
Anno: 2013
Durata: 87'
Fotografia: Antoine Héberlé
Attori: Niels Arestrup, Lior Ashkenazi, Guy Marchand, Emma de Caunes, Mathieu Amalric

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BFM 32 - Il programma: la forza delle idee

5/3/2014

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Si svolgerà dall'8 al 16 marzo, con sedi principali presso l'Auditorium di Piazza della Libertà e l'adiacente Cinema San Marco, la trentaduesima edizione del Bergamo Film Meeting. 
Nell'affollato panorama festivaliero italiano, quello della città lombarda è senza alcun dubbio uno degli eventi più belli, nonché uno dei pochi realmente indispensabili. Una manifestazione che negli anni ha saputo costruirsi una solidissima dignità, riuscendo a proporre sempre cinema di qualità, programmi di sicuro interesse e intuizioni di assoluto rilievo (ad esempio la splendida retrospettiva dedicata a Robert Guédiguian lo scorso anno), trovando una propria e radicata ragion d'essere, a differenza di altri festival più grandi e blasonati ma fondamentalmente inutili, per non dire dannosi.
Nonostante gli ormai consueti e immancabili tagli al budget, anche stavolta gli organizzatori sono riusciti a mettere in piedi un cartellone ampio, vario e ricco di spunti e idee brillanti. Innanzitutto il concorso ufficiale, con sette film europei tutti in prima visione italiana: il francese La dune (con Niels Arestrup, fresco vincitore del suo terzo César), il finlandese Silmatera, il belga Yam dam, il britannico Leave to Remain (con Toby Jones), il rumeno Roxanne, lo sloveno Zapelji me e l'olandese Wolf.
Ancora nel nome dell'Europa, e di un cinema capace di inventare il futuro, come recita uno degli slogan del festival, si pongono le intriganti retrospettive tutte al femminile dedicate ad autrici da scoprire o riscoprire: la napoletana Antonietta De Lillo, l'austriaca Jessica Hausner e l'islandese Sólveig Anspach, regista multiculturale che negli anni ha lavorato sul doppio binario documentario-fiction, viaggiando per il mondo per poi trovare da molti anni una definitiva sede di vita e lavoro in Francia. Così come per le altre autrici appena citate, tutte le opere della Anspach saranno proiettate a Bergamo: tra i titoli, non possiamo non citare l'intenso dramma Haut les coeurs!, del 1999, che fece vincere a Karin Viard il César come miglior attrice dell'anno, e il nuovo Lulu femme nue, appena uscito nei cinema transalpini con grande apprezzamento di pubblico e critica.
Al BFM non mancherà inoltre un'ulteriore retrospettiva dedicata al bravissimo animatore francese Pierre-Luc Granjon, e notevole spazio sarà riservato ai documentari (la consueta sezione "Visti da vicino"), tra i quali incuriosisce molto il bizzarro docu-fiction inglese The Imposter, transitato al Sundance. Ci saranno anche cortometraggi, proiezioni per le scuole, anteprime (La luna su Torino di Ferrario, Devil's Knot di Egoyan) e come ogni anno, per i cinefili più resistenti, una fantamaratona notturna (lo scorso anno terminò alle 3.47 del mattino!) con la proiezione del delizioso Per favore, non mordermi sul collo di Polanski seguito dal leggendario Carrie di De Palma.
Gli appuntamenti elencati già sarebbero sufficienti, ma il Bergamo Film Meeting è ogni volta un luogo in cui il passato torna a splendere. Anche quest'anno troverà dunque tantissimo spazio il glorioso cinema che fu, con una corposa retrospettiva (23 titoli) dedicata a Dirk Bogarde, durante la quale si rivedranno capolavori come The Servant di Losey, La caduta degli Dei di Visconti e Providence del compianto Alain Resnais, e un ulteriore percorso tematico intitolato “Ma papà ti manda sola?”, con una decina di pellicole che hanno saputo abbracciare ai massimi livelli i dettami della screwball comedy, dallo straordinario It happened one night di Capra a Bringing Up Baby di Hawks.
Insomma, chiunque transiterà dalle parti di Bergamo nei prossimi giorni non potrà non trovare molteplici ingredienti gustosi e diversificati con cui sfamare un'inesausta sete di cinema e ricerca, capace di abbattere qualsiasi confine culturale e temporale; il tutto nel caldo tepore di un festival che, come sempre e meglio di molti altri, sa abbracciare il passato, scavare nel presente e corteggiare l'avvenire. 

Alessio Gradogna

Il programma completo sul sito ufficiale

Sezione di riferimento: Festival

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BFM 31 - Guédiguian e il cinema di qualita'

6/4/2013

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Qualcuno tempo fa lo chiamò "il poeta dei sobborghi marsigliesi": una definizione forse limitativa, ma tutto sommato adeguata nel descrivere il cinema di Robert Guédiguian, protagonista dell'edizione 2013 del Bergamo Film Meeting, conclusa tra gli applausi del pubblico che per nove giorni ha affollato l'Auditorium di Piazza della Libertà, spesso esaurito in ogni ordine di posto, con gente addirittura accampata sugli scalini dei corridoi. 
L'idea di dedicare una retrospettiva integrale all'autore francese, purtroppo poco conosciuto in Italia, oltre a essere brillantissima sulla carta si è rivelata vincente anche al lato pratico: i 17 film di Guédiguian hanno appassionato gli spettatori, e sia lui che la compagna-attrice Ariane Ascaride, ospiti del festival, hanno ricevuto una meritata standing ovation quando sono apparsi sul palco, dimostrandosi poi persone umili, amabili, squisite, nei vari incontri in cui sono stati coinvolti nelle ore successive, intrattenendo la folla con aneddoti interessanti e spassosissimi 
Operai, disoccupati, giovani allo sbando, piccoli delinquenti. Gente povera ma piena di dignità. Storie di tutti di giorni, divise tra disillusioni e sconfitte, battaglie e vittorie, tenerezza e caparbietà. Trent'anni di cinema onesto, genuino, condotto con mano sicura, dall'esordio con Dernier Eté (1981) sino all'ultimo e bellissimo Le nevi del Kilimangiaro; tre decadi di lavoro appassionato, coerente, schierato dalla parte dei più deboli senza peraltro mai (s)cadere nel qualunquismo o nella mera lotta ideologica: Guédiguian, riportando le sue stesse parole, nella sua carriera ha voluto sempre "dare voce a chi non ce l'ha", e lo ha fatto con una purezza d'intenti libera da ogni sospetto. 
Il pubblico di Bergamo ha potuto così vivere un coinvolgente viaggio in un cinema di volta in volta dolente e divertito, straziante e risorgente, contrassegnato da tappe significative e in fondo tutte necessarie: la disperazione cocente di La ville est tranquille, forse il capolavoro di una vita; il sogno mai domo di A' la place du coeur; il laicismo tagliente del "quasi morettiano" L'argent fait le bonheur; lo scatenato divertissement metacinematografico di  A' l'attaque; tante storie per un unico cinema, sempre uguale a se stesso eppure sempre diverso, con un'intoccabile famiglia di attori ad accompagnare Guédiguian in ogni lavoro: la Ascaride, musa ispiratrice nella vita come nell'Arte; Jean-Pierre Darroussin, magnifico interprete che non ci si stancherebbe mai di guardar recitare; Gérard Meylan, impeccabile trasformista. Un po' come Kaurismaki, Guédiguian da trent'anni fa sempre lo stesso film, eppure ogni volta è capace di sorprenderci e rinnovarsi. Una virtù che appartiene solo ai grandi cineasti.
Il festival di Bergamo si è confermato ancora una volta uno degli appuntamenti più belli dell'intero panorama nazionale, e lo ha fatto attraverso un fattore tanto essenziale quanto (non) scontato: la qualità. Impossibile, tra gli ottanta e passa titoli presentati, trovare una pellicola di livello scadente. Numerosissime, invece, le suggestioni positive, sia nei film in concorso, sia nelle sezioni parallele, sia negli abbondanti omaggi rivolti al passato, in cui è stato possibile gustare, tra gli altri, F For Fake, testamento artistico del "ciarlatano" Orson Welles; Murder By Death, scatenata parodia del whodunit con clamorosa sfilata di star all british, da Peter Sellers ad Alec Guinness, da Maggie Smith a Peter Falk; House on Haunted Hill, leggendario horror di William Castle con il totemico Vincent Price; The Horse's Mouth, sottostimato lavoro del '58 con un Guinness pittore scapestrato più in forma che mai.
A conti fatti, quello di Bergamo resta un evento imprescindibile, per compiere un'immersione totale nel caldo abbraccio del cinema, senza limiti né confini.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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