ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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BIOGRAFILM 13 - Fame, di Angelo Milano e Giacomo Abbruzzese

20/6/2017

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​Ogni cosa deve avere una fine, anche quando si leva un mormorio circostante. Lieve disapprovazione, speranza di ricominciare, attesa.
Fame racconta di un progetto nato quasi per caso, quello dei primi passi per un Festival irriverente e rivoluzionario. È lo stesso Abbruzzese a parlarne nella sala del cinema Europa, con la rassegnata consapevolezza di chi ha vissuto Fame senza sottrarsi alla tempesta: quel momento elettrico di vernice, proteste e libertà di espressione è finito e non è destinato a tornare.
Ogni cosa deve avere una fine ma, se al suo posto rimane un segno indelebile, la missione può dirsi compiuta.

Muri bianchi, vicoli, un bar che sembra incastonato in un tempo immobile, la piazzetta polverosa del quartiere, qualche trattore che sfreccia per strada e le cassette di uva in vendita sotto gli occhi dei passanti. Un’aria d’oro, di luce calda, un quartiere polveroso che sembra sonnecchiare da secoli fra tetti e campanili, poi occhi scuri capaci di silenzi lunghissimi: il barbiere, il sindaco, l’artigiano, istantanee di umanità che ogni giorno respira quest’aria occupando un piccolo, solido spazio nel mondo. Sempre lo stesso.
È il quartiere della Ceramica di Grottaglie (Ta), cittadina dove Angelo Milano è cresciuto facendo i conti con la noia. Quella noia che un po’ uccide e un po’ condanna, talvolta protegge. La noia che gli ha lasciato poca, pochissima scelta: avrebbe potuto cullarsi in quei pomeriggi pigri e rassicuranti e invece ha deciso di metterli a ferro e fuoco, distruggerli, azzannarli, farli scintillare.
Boati, caos, scherzi estremi, imprese epiche: non c’è limite alla vibrante genialità di questo ragazzo, tenero e terribile domatore di leoni in un frammento di mondo che tutto avrebbe previsto tranne una rivoluzione. Angelo ha fame. E così i pianoforti volano giù dalle finestre per lanciare in aria il tonfo severo di una musica che musica non è, ma silenzio spezzato.
Sembra l’incipit di un romanzo punk rurale dove “le persone hanno tempi di reazione lunghissimi” e una sola cellula impazzita riesce a invertire le regole. A separare e unire. A indignare e rendere orgogliosi. A dispensare calci e carezze.
Lo fa con Fame, nell’arco di cinque splendidi e faticosi anni (dal 2008 al 2012) che Grottaglie non dimenticherà facilmente.
Dal porto sicuro del suo studio di serigrafia “alla cazzo” Angelo sogna muri parlanti per la città che dorme, avvia una collaborazione e un’amicizia con Ericailcane, crea una prima edizione del festival rigorosamente senza permessi. Invita artisti in numero via via crescente, writers nazionali e internazionali che amano quell’assenza di rigida organizzazione, quella voglia di montare ponteggi all’ultimo per cambiare faccia ai palazzi senza aver chiesto l’autorizzazione. Quando un gallo – simbolo del quartiere delle ceramiche – compare sulla facciata di un palazzo, il Comune interviene per farlo coprire.
Il pretesto giusto per dipingere un corteo di galline che piangono, sospirano, parlottano lungo il muro: è il funerale del gallo.
Fra i campi di grano dove si spalanca l’occhio di corvi dipinti e un vecchio monastero bisognoso di un cambio d’abito, ha inizio la vera avventura. Sono rincorse psichedeliche di disegni sui muri, evoluzioni, racconti visivi perfetti, accuse e desideri. Ed è tutto alla luce del sole, sotto gli occhi di una cittadina che non impiega molto a riconoscere il valore di quella operazione. Perché Grottaglie, poco alla volta, respira di nuovo e si innamora della ventata a colori. Perché ognuno merita un disegno sul proprio palazzo e lo chiede a gran voce. Perché quello non è vandalismo, è un dono bizzarro, è la novità.
Così il piccolo popolo dei personaggi di vernice fa amicizia con il piccolo popolo che fino a un attimo prima aspettava le sagre stagionali con moderato entusiasmo.
Sullo sfondo c’è un’amministrazione comunale – e un settore cultura – più interessato a quelle sagre, ai presepi, agli spettacoli di personaggi televisivi minori. Nessuno può aiutare Angelo a muovere montagne di creatività.
A parte Gilda, la mamma.
Con il grembiule, sorridente ed emozionata, ai fornelli per accogliere gli artisti che suo figlio convoca da ogni parte del mondo. E così felice nell’avere finalmente una possibilità: imparare l’inglese parlando con quei ragazzi, respirare la loro stessa fame, collaborare. Anche quando questo significa guidare un’auto che trasporta una curiosa statua sul tettuccio.
Così Fame vive le sue stagioni. Rivolta primitiva, arte estetica grezza e sensuale, arte pubblica scomoda. Diventa persino insulto obbrobrioso, rituale del disturbo. Ma anche quando il panico è tracciato dallo spray nero nella speranza di indignare, i grottagliesi non si indignano. Ormai hanno fame, vedono arte attorno, tengono stretto il loro strano fiore all’occhiello. Quando il Festival è pronto per spiccare il volo, la grande macchina della creatività si arresta.
Per Angelo, Fame muore prima di diventare un lavoro. In linea con il suo pensiero nobile, umile, squisitamente visionario, donchisciottesco.
Cala il sipario sull’avventura più multiforme e variopinta che un gruppo di ragazzi abbia mai saputo immaginare e restano interrogativi, inclusi quelli del pubblico in sala.
Tornerà in futuro?
Ci sarà una seconda volta?
È davvero finita così?
Chi lascia la sala, dopo la visione di questo breve film, avverte uno strano senso di speranza nel futuro.
E a chi conosce quei luoghi e li vive, resta il meraviglioso regalo di un ricordo a colori che le intemperie scalfiscono e il cuore trattiene.
Con rabbia.
Con fame.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica 

Regia: Giacomo Abbruzzese, Angelo Milano
Anno: 2017
Durata: 57'

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BIOGRAFILM 13 - Io danzerò (La Danseuse), di Stéphanie Di Giusto

14/6/2017

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​La folla che domenica sera si è riversata davanti al cinema Europa era animata da un unico desiderio: vedere Lei, Soko, la danseuse che Stéphanie Di Giusto ha portato sullo schermo, e poter carpire i contorni dell’immagine vaporosa e leggiadra che campeggia sui manifesti di questa tredicesima edizione del Biografilm Festival. Pur essendo la quarta proiezione del film, premiato per i costumi agli ultimi César e in uscita nelle sale italiane con il titolo Io Danzerò, la coda all’ingresso ha riconfermato un interesse sfrenato verso questo lavoro.
​Tutti vogliono vedere la danzatrice, è la presenza evanescente che strizza l’occhio dal trailer del festival e dalle locandine: una protagonista silenziosa e tutta piena di mistero.

Mary - Louise Fuller, un nome che a molti non dirà nulla. Gli amanti della danza forse la conoscono, qualcuno ha digitato il suo nome su YouTube trovando qualche spezzone di filmato, ma è la regista, presente in sala, a fare chiarezza su questo punto: le ballerine filmate che sono arrivate a noi oggi, sono imitatrici. La verità è che la Fuller ha saputo dare una scossa al periodo storico in cui è vissuta, ma è scomparsa senza lasciare traccia. Quindi la Di Giusto ci prepara a una visione che assume i contorni di performance a tutto tondo: Soko, l’attrice che veste i panni della Fuller sullo schermo, è risalita alla sua particolare danza studiando il materiale reperibile. Come tale tutto ciò che stiamo per vedere è una finzione pericolosamente vicina alla realtà, una biografia postuma fatta di fiato, sudore e sforzo fisico.
Sin dalle prime scene veniamo aggrediti da un film che si annuncia intenso, feroce, polveroso e bestiale. La Fuller trascorre l’infanzia nel cuore di un bosco con il padre, ubriacone sempre pronto a capitare al centro di qualche rissa, unico vero amico per questa ragazza silenziosa e ruvida nei modi. Ha una cascata di capelli arruffati e un viso dalle espressioni schive, appare come un animale selvaggio e perennemente sulla difensiva. Si ha l’impressione di respirare la foschia del bosco, si annega nella miseria degli interni, ci si affeziona presto a questa ragazzina che legge versi a voce alta mentre là fuori suo padre viene crivellato dalle pallottole per un pareggiamento di conti. 
Una vita che parte in salita e porta Mary - Louise a rifugiarsi nella Brooklyn del 1892, armata solo di un borsone e del cappello consunto di papà: approda così controvoglia alla residenza della madre che non vede da anni, sede del Movimento della Temperanza. In quell’ambiente claustrofobico e bigotto, la ragazza privata della fluente chioma a colpi di forbice inizia a guardarsi attorno, sperando di ottenere una piccola parte in uno spettacolo. 
Pare che il suo destino sia segnato, ogni volta viene ingaggiata come comparsa ed è forse durante uno di quei mediocri spettacoli di vaudeville che ha inizio la vera favola della farfalla: viene costretta a indossare una gonna troppo ampia e, una volta sul palco, l’abito si affloscia scivolando ai suoi piedi e scatenando risa di scherno. Mary - Louise, con un guizzo imprevedibile di genialità, decide allora di sollevare quella lunga sottana e girare su se stessa. L’esperimento piace. I movimenti del tessuto distraggono il pubblico, un bambino seduto in sala esclama “è una farfalla!”.
È l’inizio di un mito che non troverà in America lo spazio che merita, ma darà uno scossone violento alla Parigi del primo Novecento. E occorre un nuove nome, Loïe.

Abbiamo dunque la possibilità di addentrarci fra i pensieri di una ballerina che non ha mai studiato danza, ma ha talento visionario e uno spiccato senso della pianificazione: Loïe traccia i suoi schizzi su un album da disegno e punta sicura all’Opéra di Parigi, soppesa i suoi veli di tessuto vibrante, crea una vera e propria macchina spettacolare sul proprio corpo. 
Aiutata da bacchette di bambù si assicura le suggestioni di un’autentica apertura alare, chiede ai teatri di provvederla di proiettori per essere attraversata da luce colorata mentre intrattiene le platee piroettando fra le spirali di stoffa bianca. Smette così di essere donna e si consacra a farfalla, dea dei fiori e della luce, uccello selvaggio. Le sue braccia diventano grosse e muscolose, il suo corpo esile, da bambina, viene plasmato da un sacrificio estremo e appassionato. I giornali iniziano a parlare di “poema animato di fiori” mentre Loïe stringe amicizia con Louis (Gaspard Ulliel), nobile decaduto avvezzo a fare uso di etere: resterà al suo fianco, sfiorerà con timore le sue ali di farfalla, nutrirà un sentimento non corrisposto e la seguirà in un’avventura deliziosa, tragica, folle.
In breve Loïe mette in piedi la sua scuola di danza. Magnifiche le sequenze girate nel parco della villa di Louis, dove un gruppo di danzatrici vestite di veli bianchi allenano il corpo a ritrovare contatto con la leggerezza e la natura, rompendo gli schemi ferrei della danza classica. A guidarle è proprio lei, la ballerina venuta dal nulla, il fenomeno iridescente che tutta la Francia acclama a gran voce, la musa di artisti come Tolouse – Lautrec, l’icona dell’Art Nouveau.
Ma se il successo bussa alla porta, con l’ambito interessamento da parte dell’Opéra di Parigi, la tragedia si avvicina a grandi passi. Ben presto questa divina incarnazione di leggerezza incassa i colpi della sua arte pericolosa: il fisico debilitato la costringe a immergere spesso le braccia nel ghiaccio e le retine vengono bruciate dalle forti luci dei proiettori. Sappiamo, da ricerche successive, che il radium utilizzato per luci colorate stava intossicando la ballerina che sarebbe morta a causa di un cancro, anni dopo.
Soko è trasfigurata, la vediamo sempre più pallida, costretta a indossare occhiali scuri, incurvata dal dolore. Frattanto, alla scuola di danza, arriva Isadora Duncan (Lily-Rose Depp, figlia di Johnny Depp e Vanessa Paradis), la cui fama ottenebrerà quella di Loïe sullo schermo come nella realtà storica dei fatti. Per Loïe, dichiaratamente lesbica, Isadora è il colpo di grazia: un amore non ricambiato appieno, un flirt mosso solo dalla sete di successo della giovane allieva. 
La Duncan viene dipinta come un’arrivista della peggior sorta: da sua affezionata studiosa non mi sono trovata pienamente d’accordo con questo affresco di lei, ma passa ugualmente in secondo piano davanti alla vicenda umana della Fuller. Perché per quanto sarà la Duncan a spiccare realmente il volo nel mondo della danza, alla donna – farfalla rimane il compito di raccontare un percorso umano ricco, doloroso, disperato. 
Tutta l’attenzione è per Loïe. Questo film invita quasi a fermarsi un istante nella stanza con lei, a guardarla, a comprendere il suo dramma. Si scende in una voragine fatta di velo impalpabile e colorato, di bacchette, pesi, corde, di sentimenti repressi e cuori spezzati, di talenti in declino.
“Senza il mio abito non sono niente” confessa Loïe a Louis addormentandosi sul suo petto. La danseuse è il film che ora può finalmente contraddirla.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia: Stéphanie Di Giusto
Sceneggiatura: Stéphanie Di Giusto, Thomas Bidegain, Sarah Thiebaud
Attori: Soko, Gaspard Ulliel, Mélanie Thierry, Lily-Rose Depp, François Damiens
Fotografia: Benoît Debie
Montaggio: Géraldine Mangenot
Anno: 2016
Durata: 108'
Uscita italiana: 15 giugno 2017

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BIOGRAFILM 13 - Tokyo Idols, di Kyoko Miyake

13/6/2017

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Il Biografilm ha ospitato il 10 giugno l’anteprima italiana di Tokyo Idols di Kyoko Miyake per Rivoluzione Digitale - The Millennials, sezione che questa tredicesima edizione del Festival vuole dedicare ai fenomeni di larga diffusione fra i giovanissimi in rapporto alla rete.
Si ripete l’incantesimo delle precedenti edizioni, quando film quali Love Hotel o Inside the Chinese Closet hanno risvegliato in platea uno stupore di taglio tutto occidentale. Quella “pericolosa meraviglia” con l’amaro sul fondo: l’inevitabile distanza fra culture, un diverso approccio morale e l’immancabile quesito. “Un fenomeno di questa portata potrebbe mai verificarsi qui da noi?”.

In Giappone ci sono ormai diecimila adolescenti – tutte corrispondenti al canone di giovane bellezza orientale – concentrate sul lavoro nonostante la tenera età. Un lavoro che si fa su scarpette dal tacco vertiginoso, strizzate in abitini scenografici, truccate come dive in miniatura e scatenate come cartoni animati in carne e ossa. Sono le idols e non è possibile definirle cosplayer perché il loro obiettivo è differente: sono piccoli monumenti alla purezza, alla verginità, alla freschezza acerba. Fatine con gli occhi a mandorla, cantanti pop in erba, voce acuta e sorriso plastico, gridolini, saltelli, coreografie studiate nelle proprie camerette e poi regalate al grande pubblico. Canzoni che diventano consolatorie diffondendo messaggi di libertà, amicizia, allegria, in un clima di magia e leggerezza più adatto a un videogioco che alla vita vera.
Se questo fenomeno prendesse piede in Italia – e l’associazione mentale sorge spontanea – probabilmente il pubblico si comporrebbe di adolescenti come le stesse idols. Non troveremmo niente di sbagliato nell’accompagnare nostro figlio di undici o dodici anni al concerto di una di queste nipponiche star che mandano baci dal palco atteggiandosi come anime. Complice questo ragionamento, la rivelazione di quello che è il pubblico giapponese delle girl band in questione suscita un certo scalpore.
Sono uomini adulti, in alcuni casi addirittura anziani. Persone che hanno perso tutto e vivono ormai ai margini della società: dopo amori falliti e delusioni quotidiane, hanno rinunciato a lavori stipendiati per seguire queste bamboline perfette concerto dopo concerto. Per sostenerle nelle loro acerbe carriere, hanno deciso di fare donazioni in denaro che in molti casi li hanno portati pressoché sul lastrico. Progressivamente sono stati allontanati dalle famiglie e per i più ossessivi fra loro è stato coniato il termine Otaku. 
Un Otaku è un uomo che vive in solitudine nel santuario dei memorabilia delle idols, spendendo tutto il suo tempo nella ricerca di nuove informazioni o fotografie della sua preferita e seguendola senza tregua durante la tournée: noi lo definiremmo stalker, ma in Giappone è solo un fan scatenato e anche quando qualcuno storce il naso di fronte a tale dinamica, subito le idols provvedono a confortare i loro Otaku con le canzoni. Inni all’amicizia sfrenata, cori incitanti da tifoseria e il messaggio “Viva gli Otaku perché non sono persone noiose”, una sorta di ricompensa morale per i discussi fans. Ai nostri occhi, purtroppo, il confine fra ossessione e pedofilia appare labile.
È così che un movimento musicale giovanile diventa a tutti gli effetti una studiata manovra di marketing e una fabbrica dell’autostima maschile: se compri un cd, potrai scattarti una foto con la tua preferita. Se scrivi alla tua idol, lei ti manderà un biglietto con parole gentili. Lei è tua amica e tu la stai aiutando a realizzare il suo sogno musicale, proprio tu che non hai realizzato alcun sogno finora. E poi ci sono i momenti dedicati alla stretta di mano, forse i più eccitanti dell’intera avventura Tokyo Idols.
Come spiega una sociologa, la stretta di mano è una conquista storica recente nella cultura giapponese ed è percepito come un gesto dai profondi significati sessuali. Le idols permettono ai loro fan di toccarle solo in base a determinate regole. Vengono organizzati eventi per la stretta di mano dove il codazzo di ammiratori è convogliato al cospetto delle piccole divinità ed è possibile stringere le mani delle baby cantanti per pochi (cronometrati) secondi. Una piccolezza, ai nostri occhi, che ha un impatto devastante sulla psicologia di un popolo cresciuto nella repressione delle effusioni pubbliche: sullo schermo infatti compaiono uomini più o meno giovani incapaci di staccarsi dalla manina del loro idolo, allontanati con la forza, in stato di evidente turbamento sessuale. E le idols?
Sorridono generose davanti alla schiera di benefattori, dicono di non essere infastidite dalle attenzioni di uomini adulti - definiti “carini e gentili” - e lavorano con ritmi serrati fra concerti, concorsi e video su YouTube prima di giungere alla fine della carriera. Fissata, solitamente, fra i 17 e i 22 anni.
​
“Le idols hanno una data di scadenza”, è questa la terribile frase che fa da sfondo a un lavoro documentario sgargiante, rumoroso, esagerato eppure pieno di ombre, pause e silenzi. E così affiorano le piccole vite di Amu, Rio, Ryoko, Yuka e le altre. Hanno dai 14 ai 22 anni, le loro famiglie si sono abituate all’idea di avere una idol in casa. Queste ragazzine sorridono, incassano, pianificano un futuro diverso, più serio e professionale, vorrebbero doppiare film e diventare cantanti famose. Nel frattempo inforcano la bici per raggiungere i paesi limitrofi e farsi conoscere, da piccole manager di se stesse, firmando autografi e concedendo scatti.
“Con il tasso di natalità che abbiamo le idols andrebbero proibite” ironizza un antropologo, mentre la fabbrica delle bamboline continua a crescere e – secondo alcuni – emerge la figura di una donna umiliata. “I giapponesi non hanno autostima” viene spiegato. Dopo il boom economico degli anni novanta e il successivo crollo, hanno dovuto ricostruirsi. Il mondo del lavoro li ha fagocitati, i rigidi formalismi sono diventati sempre più soffocanti e ben presto alcuni uomini hanno imparato a vivere una quotidiana depressione. Chi è rimasto indietro – chi non ha formato una famiglia o trovato un buon posto di lavoro – è diventato sgradito agli occhi della società. 
Come tale, le idols offrono a uomini adulti la possibilità di coltivare un amore casto e platonico con una donna che donna non è. Questi uomini non potrebbero mai pensare di avere a che fare con una donna vera, loro coetanea, nel mondo che li circonda: specie in una realtà popolata da donne determinate, il cui ruolo anche negli ambienti di lavoro è diventato sempre più fondamentale. Ecco allora che le idols rispolverano l’ideale perfetto di donna giapponese: casta, pura, innocente e quindi percepita come arrendevole, dolce e innocua. Una donna che ti consola e sorride, che si approccia a te con parole semplici e cerimoniose, che mai cercherà di dominarti ma si metterà al servizio della tua serenità.
Una donna che non a caso “donna” non è affatto.
Ma bambina, vestita in modo provocante, mentre le banconote fioccano nella cassetta delle donazioni.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Anno: 2017
Regia: Kyoko Miyake
Durata: 88'
Sceneggiatura:    Kyoko Miyake
Fotografia: Van Royko
Montaggio: Anna Price
Musiche: David Drury

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BIOGRAFILM 13 - Bagnini e bagnanti, di Fabio Paleari

11/6/2017

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​Questo primo film in concorso per Biografilm Italia nasce sotto una buona stella: quella spiritosa e fuori dalle righe del suo regista Fabio Paleari, pronto a raccontare al pubblico l’avventura vissuta assieme al produttore Luca Legnani. In un momento di depressione lavorativa – “e tutti e due senza la fidanzata in previsione dell’estate” - la coppia di amici decide di girare l’Italia su una Punto nera a gas, armati di una sola macchina da presa. 
L’obiettivo è partire dalla Liguria per visitare le spiagge di Romagna, Toscana e Lazio facendo una precisa richiesta al popolo della spiaggia: “Vogliamo parlare con i bagnini, quelli veri, quelli di una volta, quelli che hanno avuto più donne in assoluto”. È esattamente ciò che fanno, sicuri di aver immortalato una carrellata di fenomeni da riscoprire. In realtà ciò che restituiscono è uno spaccato antropologico accurato, decisamente forte, molto lontano dalle loro previsioni iniziali.

Spesso sono orgogliosi spettri di una bellezza appassita, ancora gonfi di una virilità che a stento resiste ai morsi del tempo. Fanno pensare ai Vitelloni, alle cartoline sbiadite, al cocco fresco e ai tormentoni estivi che facevano vibrare la pancia delle radioline. Sono i bagnini italiani.
Come afferma Ugo Amato, psichiatra e voce narrante del film, “bagnino” ha quasi un suono dispregiativo rispetto a “bagno”. La stessa figura del bagnino nostrano è lontana anni luce dalle mitizzazioni americane alla Baywatch; quel Salvataggio scritto sulle canottiere fa pensare soltanto a qualche tuffo d’emergenza. Perché il bagnino, in Italia, è l’uomo con i muscoli ben in vista e la pelle color carbone che strizza l’occhio alle turiste: così risponde l’immaginario collettivo quando di “bagnino” si parla.
È una conferma per molti, specie per i turisti fissi che ogni anno tornano all’arenile e trovano un vecchio amico, un padrone di casa che ricorda di averti già visto e si accerta che tu possa passare le vacanze in tutta comodità. Ma per tanti – o forse è il caso di dire tante – il bagnino incarna  quell’ideale di “uomo da spiaggia” energico e cerimonioso, capace di grandi passioni consumate fra cabine e notti stellate, generoso di lusinghe. Per una settimana, almeno.
Sono proprio loro a raccontarsi, giovani e meno giovani, dalla Liguria al Lazio, custodi della spiaggia e di tanti segreti pruriginosi: l’uomo che emerge da questo ironico e dissacrante affresco di umanità è un “super maschio” sicuro della propria avvenenza (anche quando il tempo non è stato affatto clemente) eppure eternamente irrisolto in quello stile di vita così distante dalla banale routine. 
Fra tedesche, svedesi, norvegesi e austriache – tutte doverosamente collocate nella scala di valutazione da questi irriducibili cacciatori stagionali – le italiane si rivelano le conquiste più difficili. “Si portano dietro mamma e papà, hanno il coprifuoco e sono meno indipendenti. E poi vogliono le relazioni serie”. Sono definizioni semplici (e piuttosto datate) per uomini ancora più semplici e ci riportano al passato balneare che rivive ancora in qualche vecchia fotografia o negli spezzoni di filmati anni 70 – 80 che talvolta appaiono sullo schermo. 
Non si riesce a sentirsi realmente offese da certe valutazioni – per quanto offensive potrebbero sembrare –, si finisce per sorridere davanti a questi uomini nostalgici e un po’ anacronistici, di certo strampalati, che nella maggioranza dei casi hanno passato estati da leoni collezionando prede. Restando tuttavia vittime di dubbi sull’amore e le scelte importanti, congelati in quell’istantanea di baldoria e leggerezza che è propria della spiaggia e dell’estate, della gioventù. Una condizione pericolosamente deperibile.
Eppure nulla sembra deteriorare il ruggente spirito di questi uomini di mare che mettono in mostra le piume ogni anno per dare alla donna “ciò che non trova altrove” (o ciò che il marito non le procura), dedicandole attenzioni rare o arrivando dritti al punto, sempre sghignazzando all’idea di quel treno del venerdì. Il leggendario treno che porta i mariti alla spiaggia, meglio conosciuto nell’ambiente come “il treno dei cornuti”.
Eccessivo, ridanciano, spietato, a volte imprevedibilmente tenero, Bagnini e Bagnanti può addirittura sembrare “una curiosa ode alla donna” che nel suo essere perennemente cercata, conquistata e soddisfatta sessualmente diventa vero fulcro della vita di questi uomini dai muscoli non più così tonici. La donna come meta, come obiettivo, come priorità assoluta. Per qualche giorno, s’intende. Per regalare l’illusione di un amore che amore non sarà mai o almeno il ricordo di un’estate divertente.
Forse l’indignazione femminile riemerge quando alcuni di loro, alla domanda “Cosa vi hanno insegnato tutte queste donne?”, rispondono senza troppi indugi “Niente”.
Probabilmente un giudizio un po’ duro per la platea femminile presente in sala, ma alla fine è la comicità quasi involontaria di questi personaggi a pareggiare i conti, in un film che ha assicurato una cascata di risate scroscianti per tutta la sua durata, divertendo anche le signore presenti alla proiezione nonostante il demone del maschilismo, sempre lì nell’angolo, a sghignazzare.
D’altronde sono bagnini.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia: Fabio Paleari
Sceneggiatura: Luca Legnani, Fabio Paleari
Montaggio: Maria Fantastica Valmori
Anno: 2017
Durata: 75'

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BIOGRAFILM 13 - All this panic, di Jenny Gage

10/6/2017

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La tredicesima edizione del Biografilm Festival apre i battenti e fra le proposte del 9 giugno c’è anche un lavoro toccante, lieve e al contempo profondo, riguardante il mondo degli adolescenti. Stupore davanti alla risposta del pubblico che “nonostante sia venerdì pomeriggio” e “nonostante il tema trattato possa sembrare spinoso” si presenta in sala per una partenza puntuale, introdotta dalle parole di Maria Chiara Risoldi, psicanalista e presidentessa della Casa delle Donne. 
La Risoldi definisce questo lavoro di Jenny Gage “affettuoso, curioso e rispettoso”, fotografa questa “epoca delle passioni tristi” (citando il testo di Benasayag e Schmidt) e regala al pubblico un pensiero di Pennac: “I bambini sono dei poeti, gli adolescenti sono dei moralisti e gli adulti sono dei contabili”. Con l’eco tenero di queste parole nelle orecchie, le luci si spengono lasciando spazio a All this panic, alle sue figlie vivaci, ai suoi genitori quasi invisibili.

Una festa alla quale siamo stati invitati.
A organizzarla sono alcune ragazze di Brooklyn, adolescenti imprigionate in corpi un po’ bambini, che compaiono riluttanti sul trampolino della vita eppure stanno per tuffarsi. La macchina da presa le segue per tre anni, fra spiagge deserte e metropolitane, piccoli giardini condominiali, taxi, scuole e concerti all’aperto.
Impareremo a conoscerle in 79 minuti che diventano diario di una transizione. Tecnica ed estetica sono quelle del documentario, ma la regista rivela un tocco magico nel selezionare i giusti momenti di un percorso che le ha fornito un’ingente quantità di materiale.
Conosceremo Lena, con il suo apparecchio dentale, l’aspetto mascolino e un fascino segreto che il tempo plasmerà con calma e cura. Ginger, spregiudicata e smarrita, con i capelli che cambiano spesso colore e il sogno di diventare attrice che stenta a decollare fra un party e l’altro. Sua sorella minore Dusty, florida bellezza americana, timida e riservata. Sage, afroamericana con una cascata di treccine e lo sguardo sfuggente di chi sta crescendo troppo in fretta. Delia, con le lentiggini e la bocca sempre pronta a snocciolare qualche pettegolezzo della scuola. Olivia, che non è sicura di essere innamorata del ragazzo che frequenta. Ivy, esagerata e ingorda di esperienze da adulta.
Ognuna di queste ragazze dovrà prendere una decisione, nel corso di tre anni condensati in 79 minuti: presentarsi al mondo a testa alta scegliendo la propria identità di donna, lasciare che l’adolescenza così ferocemente difesa - “Invecchiare è la cosa più spaventosa del mondo” afferma Ginger mentre si trucca allo specchio – scivoli via di dosso quasi impercettibilmente per lasciare spazio a orizzonti più vasti e problemi di colpo molto più gravi.
Leader narrante di questo gruppo diventa inevitabilmente Lena, piovuta quasi per errore in una famiglia troppo fragile per darle sostegno: la mamma in continua ricerca di casa e occupazione, il papà sull’orlo del suicidio, il fratello Nathan autolesionista e affetto da disturbi psichiatrici. 
“Molte cose in questa casa non funzionano” dice Lena durante una visita presso il padre, quando una porta a vetri si smonta all’improvviso fra le sue mani. Sullo sfondo c’è il Servizio di Tutela dei Minori americano, presenza impalpabile che giudica i genitori “negligenti” spingendoli a una guerra di colpevolizzazioni reciproche. Eppure Lena, fra i turni “da papà – da mamma” e le tragiche notizie ospedaliere del fratello Nathan, vuole organizzare una festa e baciare il ragazzo sul quale ha messo gli occhi da un po’: “Ho pensato che se io mi ubriaco e lui si ubriaca, posso dirgli che mi piace”. E sono festicciole semplici, quelle del piccolo gruppo di amiche, con l’alcol che scorre senza permesso e qualche droga da provare per poi ritrovarsi al mattino, come pulcini dalle piume arruffate, a guardare in camera dicendo “Alla fine ho baciato un altro ragazzo. Non so, doveva essere diverso, doveva essere l’altro. Il bacio è una di quelle cose che immagini perfette e alla fine non lo sono”. 
L’amore, come il sesso, sono le implacabili correnti alle quali i corpi di queste ragazze americane si ritrovano esposti all’improvviso in un risveglio di sensi e pensieri imprevisto, di difficile gestione: “detesto perdere la verginità perché incasina tutto”, “ho capito di essere lesbica e con questa cosa farò i conti per il resto della mia vita. Forse un giorno mi renderà felice”, “io vorrei essere madre perché mi piace l’idea di fare persone”. Sono come pagine di diario scartabellate da un vento impetuoso, confessioni che affiorano nelle magnifiche immagini dei pomeriggi fra amiche, qualche bisticcio, le passeggiate, le boccacce e le corse sulle sabbia, i corpi che non si arrendono al tempo e vorrebbero restare un po’ bambini, il mondo che detta nuove regole, i capelli che crescono e gli occhi che diventano di colpo più quieti, più seri.
La scelta dell’università pone tutte di fronte ai propri spettri personali. “Non vedo l’ora che la vita ti dia un bel treno sui denti!” dice l’autoritaria mamma single di Sage gesticolando in salotto. “Mia mamma è così perché è black, è diversa” spiega quella figlia che non ha il permesso di stare fuori dopo la mezzanotte. E poi, con tutta la sua delicatezza, racconta la morte del papà mentre strappa le erbacce dal giardino che lui amava tanto e indica l’albero di corniolo rosso piantato da lui, albero che è cresciuto a dismisura dopo quel lutto. Cresciuto come una figlia afroamericana determinata a combattere per i diritti delle donne, pronta a scegliersi il proprio futuro e a frequentare un’università che permetta a un’afroamericana “di tirare il fiato dopo tanto tempo passato a trattenerlo”. 
Lena decide a sua volta di frequentare l’Università per costruire qualcosa di solido in una famiglia ormai vaporizzata, e così facendo perde di vista Ivy e Ginger. Quest’ultima è forse la principessa più triste di tutte: educata sentimentalmente secondo la regola “passa da una persona all’altra o sarai in trappola”, Ginger fa i conti con due genitori sfocati sullo schermo come nella vita, avvezzi a ripeterle “fa qualcosa per renderti interessante”. Anche la sorella minore Dusty, sempre chiusa nel suo piccolo guscio, appare più interessante di lei. Così è tempo di frenetici tagli di capelli, ciocche rosa per coprire un viso impaurito, giornate di noia saltando da una festa all’altra sotto la guida di Ivy, scatenata e dominante. Ci sono ragazzi da baciare, droghe da sperimentare e un futuro lasciato nell’angolo nel timore di affrontarlo. “Ho paura che tutti i miei amici vadano avanti e io resti un’amica delle superiori” confessa Ginger mentre gli occhi si fanno umidi.
La promessa del film è che ognuna di queste crisalidi potrà infine spiccare il volo: chi per necessità, in fuga da un ambiente domestico sbagliato, chi per scelta consapevole, chi quasi per errore ma con tutto il coraggio che occorre. Per alcune ci sarà un percorso di studio, per altre il banco di prova del lavoro e per tutte rimarrà quell’incertezza agrodolce a gravitare sul fondo: “Non ho ancora trovato un nome per questo periodo”, dirà Lena in aeroporto, alla vigilia di un viaggio importante; “diciamo che sono al punto di lancio e sto costruendo il razzo che esploderà”.
All this panic riesce a toccare la ragazza rabbiosa, intimorita e disperata che dorme dentro di noi. Parla di amori che sembravano più belli visti da lontano e problemi che sembravano più piccoli fino al giorno prima, di corpi da accettare e pulsioni da tenere per mano, di solitudini perfette che sembrano compagnia.
Di donne che, senza saperlo e senza potergli dare un nome, costruiscono qualcosa che in futuro esploderà.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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Scheda tecnica

Anno: 2016
Durata: 80'
Regia: Jenny Gage
Montaggio: Connor Kalista
Fotografia: Tom Betterton
Musiche: Joe Wong, Didier Leplae

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BIOGRAFILM 12 - Strike a Pose, di Ester Gould e Reijer Zwaan

18/6/2016

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​Kevin Stea è presente alla proiezione di Strike a Pose durante la dodicesima edizione del Biografilm Festival bolognese, che pare aggiudicarsi con questo titolo un altro grande successo. Giulia Sodano del Comitato Pride di Bologna introduce la visione con alcune parole di solidarietà ricollegandosi ai fatti di Orlando recentemente avvenuti. Anche Kevin commenta questo film, che ai nostri occhi apparirà come un intimo e appassionato diario dell’avventura che consacrò sei ragazzi qualsiasi – o forse no – alla celebrità. Celebrità pagata a caro prezzo e finalmente raccontata al pubblico dopo venticinque anni di silenzio, con luci e inevitabili ombre.

A parlare sono i corpi danzanti e i volti di sei ballerini che nel 1990 dicono addio per un istante alla normalità e vivono un picco di successo. Rispondono a un annuncio, fanno un provino, vengono notati e, contro ogni previsione, vengono ricontattati da Madonna in persona: ha scelto loro per il suo tour Blonde Ambition, che segnerà un punto di svolta nel mondo della musica. Sono anni di brividi e scossoni, l’irriverente personaggio di Madonna si impone sullo scenario musicale creando scompiglio, per quei sei ragazzi di diversa etnia lavorare con lei è una vera benedizione. Si mostrano dunque davanti all’obiettivo per ciò che sono oggi, uomini consapevoli. Ciascuno di loro avrà una piccola grande confessione da fare.
Per comprendere a fondo l’esperienza di questi ragazzi può essere importante recuperare Truth or Dare, una visione propedeutica: si tratta di un documentario diffuso nel 1991, in cui la telecamera segue Madonna attraverso il backstage del tour Blond Ambition, fra iniziative eccentriche e sfrenata provocazione, scandagliando i silenzi della vita di una diva giovane. Strike a Pose attinge a molti spezzoni di quel documentario, ogni concerto è una scommessa con quarantamila fan da non deludere, Madonna è molto esigente con il suo corpo di ballo e diventa un’eroina che grida al mondo “Express yourself”. I ballerini si esibiscono con orecchini, eyeliner e appariscenti copricapi, non più indici di debolezza ma punti di forza in una nuova era che prende forma.
Oliver viene dal mondo dell’hip hop e quando arriva alla crew si dichiara apertamente omofobo: è l’unico eterosessuale del gruppo e lui stesso dice “prima dell’esperienza di Blonde Ambition ero il tipo che avrebbe potuto picchiare i ragazzi gay; mai ci avrei lavorato a contatto”. A sgretolare le sue antiche convinzioni è la nuova famiglia viaggiante che Madonna gli ha appena regalato: un gruppo di amici, fratelli, vite nell’acquario. “Noi qui e il mondo fuori”, diranno i ragazzi stessi e faticheranno ad abituarsi alla burrasca di grida e applausi che accompagnerà i concerti. Fra questi giovani c’è anche Gabriel Trupin, presenza pacifica e brillante, definito dai compagni “il cocco di Madonna”. Lui non è più qui a raccontare la sua esperienza, l’HIV l’ha spento prematuramente.
Scopriamo, con Strike a Pose, che il vero obiettivo del film non è ammorbarci con i lustrini di una vita edulcorata, bensì mostrarci la cruda realtà di una malattia che nel 1990 cominciava a essere motivo di manifestazioni e cortei. La comunità gay sfila esibendo cartelli con scritto “Abbiamo bisogno di ricerca, non di isteria”, ci troviamo di fronte al quadro allarmante di una malattia “nuova” che esplode diffondendo il panico fra i giovani. In questi anni difficilissimi la funzione del Blond Ambition Tour si rivela duplice: da un lato Madonna non fa mistero del suo sostegno nei confronti della comunità gay e vuole che i suoi ballerini sollevino un polverone praticando liberamente la filosofia ”Express Yourself”. Dall’altro incita alla prevenzione dell’AIDS, porta sul palco i preservativi, si batte per la causa ricordando l’amico scomparso Keith Haring.
Nel documentario Truth or Dare la sessualità dei ballerini è ampiamente svelata al pubblico. Madonna si comporta come un’amorevole figura materna, gioca e ironizza, punzecchia i ragazzi e li mette alla prova. A tratti sembra una grande amica affidabile, a volte è quasi una marionettista, ma non sta a noi giudicare. Possiamo solo osservare come quel documentario diventi importantissimo per molti ragazzi gay: per la prima volta viene mostrato un bacio appassionato fra i ballerini nel corso del gioco Truth or Dare (obbligo o verità), un forte segnale nel 1991, una grande presa di posizione che sarà da esempio a molti per uscire dall’ombra, in ogni parte del mondo. Quel bacio esplode, poi i riflettori si spengono e il tour si conclude. Per i ballerini, ora uniti da un’amicizia profonda, è tempo di cercare un futuro di carriera ed è solo a quel punto che la grande macchina della celebrità comincia a cigolare.
Giovani, speranzosi e sedotti da Madonna, ciascuno di loro si ritrova sbalzato nella nuova, caotica realtà: improvvisamente ricchi, famosi, desiderati da tutti e non più sorretti da quella diva che li ha creati. Mai giudicati “bravi ballerini”, sempre giudicati “i ballerini di Madonna”. 
Così perdono velocemente il controllo. Alcolismo, eroina, depressione, incapacità di stabilire rapporti durevoli. Salim e Carlton, due delle colonne portanti della crew, vorranno affidare a Strike a Pose un messaggio sinora taciuto: all’epoca del Blond Ambition tour entrambi scoprirono di essere positivi all’HIV e nonostante l’imperativo “Express yourself” non lo ammisero mai pubblicamente. Mentre i sei ragazzi assaggiano il declino si ha l’impressione che Madonna si faccia da parte gradualmente: “Devi farti curare” suggerisce a Luis, uno dei ballerini, quando scorge in lui i sintomi di una dipendenza da eroina. Dopo quelle parole i rapporti fra i due si interrompono. 
Per tre dei ragazzi inizia persino una battaglia legale dovuta proprio alle immagini diffuse con Truth or Dare: i ballerini sostengono di essere stati filmati in atteggiamenti compromettenti dietro promessa di un compenso mai corrisposto. Subentra anche l’ipotesi di un danno morale, “Mio figlio Gabriel non voleva che il mondo sapesse della sua omosessualità” dice la madre, ricordando il bacio gay del figlio sullo schermo. Emerge dunque un’esigenza di ostentazione propria di Madonna e non dei ragazzi. Pare dunque che fosse lei a volerli spingere alla spettacolarizzazione del proprio orientamento sessuale, loro volevano solo ballare.
Si crea attorno a quel documentario quello che a tutti gli effetti è percepito come un mistero: in che misura i ragazzi volevano che la loro immagine venisse sfruttata? Quali accordi c’erano fra loro e Madonna? Non bastava essere eccellenti nella danza per essere ricordati?
Sono quesiti ai quali Strike a Pose non risponde, ma ci lascia l’emozione di una scena finale con l’incontro dei ballerini 25 anni dopo. Abbracci, pianti e sollevanti confessioni, l’occasione per raccontare le loro vite scivolate sul fondo e poi tornate a galla, alla normalità. Oliver (colpito dalla sindrome di Bell) insegna hip hop ai bambini e durante il giorno fa il cameriere; Luis è faticosamente uscito dal tunnel della droga; Jose vive a casa con la madre, e dopo una lunga depressione ora insegna danza e portamento; Salim insegna danza e convive con l’HIV. Anche per Carlton la battaglia con la malattia è all’ordine del giorno, ma ciò non gli impedisce di tenere corsi all’aperto. Kevin Stea, presente a Bologna, ha lavorato con Lady Gaga, Beyonce, Micheal e Janet Jackson, Prince, Bowie e molti ancora. Ognuno di questi ballerini è uscito dall’ambizione bionda e infine è riuscito a costruirsi una serenità quotidiana, dopo crolli e smarrimento.
“Se ora Madonna ci vedesse penserebbe che siamo dei falliti”, dice uno di loro, “ma non importa, perché noi siamo diventati una famiglia e ci vogliamo bene”.
Infine quei ragazzi si sono espressi – express yourself – assieme. Decisamente più oggi che nel 1990.
Kevin Stea saluta il pubblico bolognese in un italiano quasi perfetto e lascia intendere che prossimamente l’antico gruppo di ballo si ricomporrà per nuovi spettacoli. Aggiunge che Madonna ha ricevuto il filmato e sorride: chissà se un giorno si ritroveranno e faranno pace, la diva e i ragazzi che rese famosi.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Report

Speciale Biografilm 2016:    See You in Texas         Porno e Libertà          Inside the Chinese Closet
                                                         Ma Ma - Tutto andrà bene                 Yo Yo Ma and the Silk Road Ensemble

Scheda tecnica

Titolo originale: Strike a Pose
Regia: Ester Gould, Reijer Zwaan
Musiche: Bart Westerlaken
Montaggio: Dorith Vinken
Con: Luis Camacho, Oliver Crumes, Salim Gauwloos, Jose Xtravaganza, Kevin Alexander Stea. 
Durata: 90'
Anno: 2016

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BIOGRAFILM 12 - See You in Texas, di Vito Palmieri

14/6/2016

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​A introdurre la visione di questo quinto film in concorso nella sezione Biografilm Italia è il direttore della fotografia Michele D’Attanasio, portavoce del regista Vito Palmieri. Una bella notizia va a motivare l’assenza di Palmieri: il film è stato selezionato come unico titolo italiano per il Festival di Shangai; il regista fa dunque avere al pubblico bolognese un contributo video dove ringrazia e saluta a distanza. Questo titolo promette Texas e ci porta in Trentino, sullo sfondo c’è un sogno immenso, i ritmi della vita in una fattoria e l’amore incredibilmente solido di due giovanissimi di fronte al sogno americano, fra finzione e documentario.

Si chiamano Silvia Beltramolli e Andrea Bazzoli, una coppia che vive in un angolo poco turistico del Trentino. La loro vita è fatta di latte, fumo, paglia, fango e ruota tutta attorno a una fattoria che i ragazzi governano da soli. Pur essendo giovanissimi dimostrano la tempra di esperti fattori, la loro quotidianità è fatta di alzatacce, sono circondati da un grande e faticoso popolo di animali. 
All’alba Andrea è impegnato a maneggiare formaggi nel vapore di uno stanzone, mentre a Silvia spetta il compito di sfamare i maiali con un secchio. Li sentiamo mormorare imprecazioni in un dialetto strascicato, li sentiamo vicini e sotto sforzo, determinati, abituati al lavoro schiacciante. I due si rivolgono poche parole e molti sguardi, si scambiano un bacio fuori dalla stalla, viaggiano su sentieri scoscesi a bordo della stessa auto, si affaccendano con il forcone in una distesa di paglia e conoscono bene gli sbalzi d’umore del cielo e i comportamenti degli animali.
Osservare Silvia così da vicino stupisce, è una ragazza gracile ma piena di nervo, di energia, diversa dalle sue coetanee: si misura con le mansioni più ardue senza battere ciglio, unita ad Andrea da una sorta di silenzioso patto, quello che porta due ragazzi giovani più vicini al lavoro della terra che alla discoteca, contando l’uno sull’altra e offrendo al pubblico un limpido esempio di dedizione rurale e talento per la sopravvivenza. 
Il paesaggio circostante appare aspro e roccioso, non è un Trentino da cartolina, le montagne gigantesche soffiano venti freddi sulla fattoria e la neve attecchisce al suolo fangoso ricoprendo ogni cosa. È un amore che germoglia a temperature bassissime e che ogni tanto si concede una coccola, un bicchiere di grappa o un attimo di svago al Caval Negher, birreria locale, per una birra e due chiacchiere con gli amici, a volte qualche speranza buttata in una slot machine. Poi di corsa a casa per le poche ore di sonno che precedono un’altra giornata di fatiche.

A sparpagliare le carte in tavola è il desiderio irrefrenabile di Silvia di specializzarsi nel Reining, disciplina di equitazione americana che prevede il controllo del cavallo basandosi sull’uso delle redini. Il suo ingombrante sogno sgomita per trovare spazio nella vita della fattoria e Silvia ritaglia a fatica le occasioni per esercitarsi con il suo cavallo Patou, in un boccone di terra sassosa inadatta allo scopo. Sorgono dunque nella coppia alcune brevi discussioni che spesso scivolano via senza giungere a idee risolutive: la ragazza si dice stanca di fare esercizio su un terreno inadeguato e vorrebbe ampliare i propri orizzonti. “Quella è la terra che abbiamo” risponde Andrea. Fine del discorso.
Ecco allora che la rete tentatrice porta agli occhi di Silvia un’opzione alternativa: c’è una prestigiosa scuola del Texas che in soli sei mesi le garantirebbe notevoli competenze di equitazione. Le basterebbero sei mesi per tornare in Trentino preparata a vincere diversi concorsi. Così si propone come allieva, viene ritenuta idonea e riceve una mail di congratulazioni che si conclude con un incoraggiante “See you in Texas”. Non rimane che parlarne con Andrea.
La scuola texana rappresenta una vera e propria spaccatura fra questi due ragazzi che sino a un attimo prima sono bastati a loro stessi lavorando a testa bassa nelle stalle; l’America è una prospettiva irriverente in quello scenario sempre uguale fatto di ritmi ferrei e di silenzi insistenti. Mentre Andrea riflette e cerca di accettare la novità, Silvia si rinchiude in un magico mondo virtuale che la rende disinteressata alla vita di sempre e proiettata in un futuro di successi. 
Starà ad Andrea deglutire l’amaro boccone dell’assenza: accontenterà la sua compagna restando solo nella fattoria impegnativa che ha immaginato per due persone. Il recinto sembrerà di colpo vuoto, i cavalli di Silvia si guarderanno attorno come cercandola e lei partirà nel giorno esatto in cui la scrofa darà alla luce i suoi piccolini, a lungo aspettati e immaginati dai ragazzi.
In questa attesa - assenza ritroviamo i rapporti sentimentali del mondo. Sacrificarsi e rinunciare a qualcosa per amore dell’altro è un duro banco di prova per molti di noi, ci si chiede se Andrea ne sarà capace e si giunge a un personale e silenzioso esame di coscienza. Lasciamo all’altro la libertà che merita per potersi esprimere appieno? Potremmo sopportare un distacco necessario per il bene delle nostre coppie?
Il lavoro di Palmieri, nato quasi per caso da un’idea di D’Attanasio a seguito dell’incontro con i due ragazzi al Caval Negher, riporta in noi dapprima la calma dei tempi che la montagna impone e poi la scossa elettrica della prospettiva americana, che potrebbe segnare un punto di svolta. O di rottura.
In questo lavoro semplice che mette in primo piano i giovanissimi e il coraggio delle loro scelte troviamo spunto per riflessioni personali, veniamo a contatto con gli ostacoli della convivenza, forse addirittura della “coesistenza” come persone innamorate l’una dell’altra eppure divise dagli obiettivi personali diversi. Silenziosa e rincuorante è l’idea che l’amore, infine, sappia attendere e preparare il terreno sul quale un giorno si erigeranno i nostri sogni.
Silvia e Andrea, ospiti di Biografilm, sono presenti in sala e uniti come sullo schermo. Ammettono con timidezza ai microfoni: “abbiamo rinunciato al pernottamento offerto dal Festival, ci rimettiamo subito in auto per tornare a casa”.
Gli animali li aspettano; è la vita che hanno scelto.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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Speciale Biografilm 2016:     Porno e Libertà                         Ma Ma - Tutto andrà bene    
                                                         Inside the Chinese Closet       Yo Yo Ma and the Silk Road Ensemble
    
Scheda tecnica


Anno: 2016 
Durata: 80' 
Regia: Vito Palmieri
Sceneggiatura: Vito Palmieri, Vanessa Picciarelli, Francesco Niccolai
Fotografia: Michele D'Attanasio
Montaggio: Paolo Marzoni Paolo, Corrado Iuvara

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BIOGRAFILM 12 - Porno e libertà (Porn to be free), di Carmine Amoroso

14/6/2016

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​Dopo la cena riservata alla stampa nella superba cornice del Sympò una folla di spettatori si accalca davanti al cinema Lumiére per una delle più attese proiezioni di questa dodicesima edizione del Biografilm. Porno e libertà esplode come una bomba al festival e lo fa con una colorata girandola di personaggi ironici e dissacranti. Presenti in sala il regista Carmine Amoroso, Danastable, Helena Velena e Giuliana Gamba; in un’atmosfera rivoluzionaria e senza peli sulla lingua ha inizio la visione di questo interessante mosaico che si propone di raccontare, del porno, l’aspetto ideologico e politico, il grande impatto che ha avuto sui tempi. Film distribuito in Italia da I Wonder Pictures, è già stato comprato in molti paesi del mondo comprovando quanta curiosità abbia suscitato anche all’estero la nostra storia di erotismo all’italiana.

Nessuna volgarità. Il porno attraversa questo film come un’onda spumeggiante, solletica e travolge, è la grande scoperta che lancia i primi vagiti fra gli anni 50 e 60 per poi conoscere un trionfo negli anni 70. Ogni singola scena sarà perfettamente in armonia con un discorso più ampio, discorso che va ben oltre la sola pornografia. La zona d’ombra risiede nel pensiero secondo il quale a “porno” corrisponda “brutto” o “sporco” o “scadente”. È Lasse Braun (regista scomparso nel 2015) a guidarci inizialmente in questo viaggio, parlando di quei primi tentativi di portare nel paese un genere irriverente da tutti condannato. Perché impedire al porno di arrivare in Italia e fare rivoluzione? Non è forse vera cultura quella che lascia lo spettatore stupefatto? E quale genere meglio del porno sa creare turbamento nel pubblico?
Secondo Giampiero Mughini, l’Italia si è trovata a lungo ostaggio di una duplice gabbia: la religione cattolica e un comunismo ammantato di puritanesimo. Anche Giuliana Gamba spiega quanto il porno si sia dimostrato necessario per rompere gli schemi e ammette i suoi primi film, dei quali mai aveva parlato pubblicamente. 
L’anima che percorre il film, strizzando l’occhio dal silenzio, è il visionario intellettuale e businessman Riccardo Schicchi. Il suo obiettivo imprigiona ogni paese attraverso qualche potente immagine femminile: di Goa ricorda una ragazza che si lavava in una cascata, dell’Afghanistan una donna che allattava. Notato da Buttafava e Dario Baldi (Epoca e Panorama) avvicina l’obiettivo all’erotismo e quando la rivista Man viene sequestrata lui si presenta in via Bissolati 54 e parla con il direttore. Nasce così un’amicizia, ed ecco le fondamenta di questa rivoluzione che spingerà gli occhi davanti alle forme femminili, i corpi, e vorrà scavalcare il concetto di modella e arrivare a quello di donna, conosciuta intimamente attraverso l’immagine. Sarà la Ford Agency di New York a lanciare Schicchi nel mondo della fotografia erotica.
Lasse Braun continua a sbalordire gli italiani con i cartoni di Sinè e con alcuni filmati 35 mm a luci rosse spediti a Cannes e proiettati per tre notti presso l’Olimpia, un cinema da 800 posti. A lui spetta il compito di portare in questo paese grandi quantità di quella merce bollente che indigna i benpensanti. La segretaria di Playmen racconta l’incantevole incontro con una bionda ragazza ungherese arrivata in redazione assieme ai suoi fratelli, affamati e in disperata ricerca di impiego. Quella ragazza povera, nelle parole di Schicchi, è descritta come “un’irragionevole, spontanea e selvaggia creatura” e sarà lui stesso a svelarle il mondo fatto di foreste in cui passeggiare e bagni notturni in mare. Le creerà quindi attorno una leggenda, rendendola icona, rendendola Cicciolina.
Radio Luna è la prima emittente che diffonde la voce di Cicciolina; nelle radio italiane si impone a tarda notte quel suono flautato che invita al piacere. Il porno scende in campo distruggendo argini, facendo discutere. Anche fra le pagine di Playmen arrivano i primi scatti audaci, quei “peli pubici” sono il segnale di un massiccio passo in avanti nel campo della libertà di espressione. I linguaggi si fanno espliciti, Lidia Ravera racconta i porci con le ali, Porpora Marcasciano ci accompagna nel 1977 con il Living Theatre di Judith Malina che parla a sua volta sullo schermo.
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Degli anni 70 si mostrano anche i limiti, quelli della rivoluzione imperativa: se prima si promuoveva l’immagine della ragazza di rigidi costumi, negli anni 70 l’ondata di liberazione sessuale è talmente violenta che quasi ci si sente “diverse” nell’evitare la promiscuità. Spezzoni di documentario danno a voce a ragazze in rivolta, perché “se non vai a letto con tutti ti etichettano come borghese”. È una ribellione al centro di una ribellione più grande. 
Il poeta Antonio Veneziani torna con la memoria al Festival di Castelporziano mentre il critico cinematografico Marco Giusti ricorda quei cinema a luci rosse che in breve tempo scalzarono il cinema tradizionale, registrando affluenze incredibili. Si ha la fortuna di seguire Vincenzo Sparagna all’interno del MAM (Museo dell’Arte Malvista), bizzarro archivio di tesori segreti, dove troneggiano anche alcune opere di Pazienza. C’è Achille Bonito Oliva pronto a definire l’arte come “indecisa a tutto e pertanto capace di utilizzare tutto”.
Dopo questa lunga chiacchierata con coloro che hanno visto la nascita del porno e le vere ragioni della sua esistenza, si comprende la capacità sovversiva del genere. Si torna a un’epoca in cui la visione di quei film era innovativo traguardo reso accessibile a tutti, intellettuali compresi. C’è una bellezza incredibile in questi assaggi di filmati che inquadrano Cicciolina e molte altre: l’attenzione per il colore, i volti stupendi, i corpi naturali, i veli, le coroncine di fiori. Anche Marco Pannella dice la sua, è impressionante vederlo sullo schermo a poco tempo dalla sua morte e, così come per Schicchi, Braun e la Malina, si ha la sensazione che questi eroi non siano mai morti ma si trovino da qualche parte, a condurre altre battaglie.
Scivolare in questo film di lustrini, bolle di sapone, ragionamenti e invettive è un’esperienza affascinante, che porta a contatto con la grande forza pulsante che ha unito le persone. Quasi rimpiangiamo quegli anni di nudità nei prati, schiavi oggigiorno di un porno “comunemente tollerabile”, incanalato, classificato, controllato e condizionato, che nel 2016 non fa più scalpore.
Oggi si compie l’errore di non riconoscere alla pornografia il peso e l’importanza che ha avuto per le generazioni. A monte ci sono anni di lotte, ammirazione per il corpo umano, voglia di libertà e ingiustizie subite, tecnica e studio sul set, fra denunce, censura, sequestri e carcere.
Il porno è storia, per quanto molti non siano pronti ad ammetterlo.
Il porno, grazie a questo film, è libertà.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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                                                                                              Inside the Chinese Closet
​                                                                                              Ma Ma - Tutto andrà bene

Scheda tecnica

Anno: 2015
Regia: Carmine Amoroso
Musiche: Fabrizio Fornaci
Sceneggiatura: Carmine Amoroso
Durata: 78'
Uscita al cinema: 24 giugno 2016
Con: Riccardo Schicchi, Lasse Braun, Giuliana Gamba, Giampiero Mughini, Marco Pannella, Ilona Staller.

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BIOGRAFILM 12 - Inside the Chinese Closet, di Sophie Luvara

12/6/2016

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​Il film di Sophie Luvara arriva in questa dodicesima edizione del Biografilm Festival introdotto dalle parole di Vincenzo Branà, presidente del Cassero. Branà invita il pubblico a fare un esperimento a pochi minuti dall’inizio del film: tenere ben presente quel closet (armadio) che stiamo per vedere sullo schermo e cercare di portare questa esperienza nella nostra quotidianità e in questa città. 
Bologna è fatta anche di ragazzi cinesi che spesso vengono scacciati da casa a diciotto anni e cercano di esprimere la propria identità sessuale in un altro paese. Le famigerate chat, quali Grinder, offrono possibilità di incontro anche a quei ragazzi; peccato che spesso siano proprio gli italiani a dare indicazioni circa il loro compagno ideale specificando “no asian”. C’è un razzismo nel razzismo e Inside the Chinese Closet va a sbirciare proprio nella difficile situazione cinese, fatta di ragazzi ai quali spesso, noi italiani stessi, voltiamo le spalle.

Il doc si apre con le immagini di una felicità costruita: è quella delle coppie di sposini che si fanno immortalare al ciglio di strade trafficate in quella Cina lontanissima da noi. Pose alquanto studiate e sorrisi surreali, incredibili matrimoni attorno ai quali la regista compirà una serie di riflessioni. 
A guidarci attraverso il paese “dell’amor proibito” sono Andy e Zhouyang. Lui è gay, lei è lesbica. Se Zhouyang ha già abbracciato l’idea di un matrimonio di copertura continuando tuttavia ad avere le proprie relazioni omosessuali, Andy è in procinto di fare il grande passo. Anche per lui sarebbe consigliabile – stando a quanto suo padre gli intima ripetutamente al telefono – procurarsi una moglie che lo aiuti a difendere quella rispettabilità di facciata del tutto necessaria nella cultura cinese. 
Siamo di fronte a un’evoluzione spaventosa di una rigida mentalità perbenista. Se da un lato non ci stupisce pensare che in passato le famiglie imponessero ai figli gay di sposarsi e spacciarsi per eterosessuali, la Cina scavalca questa ingiustizia e arriva a un increscioso peggioramento: i capifamiglia possono ammettere che un figlio gay abbia relazioni con uomini, a patto che si procacci una sposa, la metta incinta e possa esibire dei figli di fronte alla sete di conferme degli altri. Il consiglio è dunque “fallo, ma in segreto”. 
Questa Cina ha mille occhi; sono gli occhi di coloro che scrutano nel matrimonio del vicino di casa e di fronte all’assenza di figli danno il via a un fiume di pettegolezzi in piena. Non importa con chi ci si corichi, l’importante è che l’immagine austera della famiglia tradizionale cinese venga tutelata. Ed ecco spiegato perché questo fenomeno ha preso piede in Cina in modo sconvolgente: ragazzi gay a caccia di mogli lesbiche, per stringere silenziosi patti coniugali dando in pasto un falso amore ai curiosi. 
La grande fabbrica dei matrimoni cinesi contempla largamente l’idea di questa ricerca. Per Andy significa affrontare una serie di questioni: è fondamentale che ci sia affetto con la futura moglie, laddove arrivino figli ci saranno problemi da porsi e sarà bene riflettere in anticipo sulle interferenze da parte delle rispettive famiglie. “Quando i miei genitori saranno anziani tu dovrai occupartene e io farò lo stesso per la tua famiglia” dice Andy a un’aspirante moglie, durante un appuntamento. È questa la genesi di un matrimonio con obblighi e doveri, con diritti silenziosamente accordati in privata sede. Sullo sfondo c’è l’alternativa: psicologi che affermano di poter curare “la patologia”.
L’eventualità dei figli pone di fronte a un limite prevedibile, il concepimento. Come tale subentra un altro oscuro settore di questa incredibile fabbrica: si ricorre così alla fecondazione assistita, alle madri surrogate in Thailandia e al traffico di bambini.
Per Zhouyang, sorridente e mascolina ragazza dal nome che significa “ciliegia”, la maternità è una croce imposta dal contesto famigliare. La seguiamo increduli attraverso una porzione di Cina assai povera, un piccolo mondo di pescatori, una casa misera dove i pasti si consumano animati soltanto dal suono delle bacchette che raccolgono riso nelle ciotole. I suoi genitori non si accontentano di saperla sposata e sollecitano l’arrivo di quel figlio che darebbe loro una rinnovata rispettabilità. Madre e figlia pianificano persino l’acquisto di uno dei tanti neonati che vengono abbandonati all’ospedale. 
Ecco che il figlio diventa articolo, oggetto, valore aggiunto, obbligatorio indicatore di serenità coniugale, scelta strategica: di lui si parla come soppesandolo, “preferirei che fosse maschio anche se costa di più”, “dobbiamo essere certe che ce ne diano uno sano”. Nell’ombra della stanza c’è sempre quel padre che nega il dialogo alla figlia, e che in passato ha sedato le turbolenze con sberle e voce grossa. Zhouyang è stata espulsa dalla scuola per un primo grande amore che racconterà a bassa voce sulla veranda di casa, un amore osteggiato dalla famiglia e dalla scuola, punito con la violenza e tuttavia talmente prezioso da resistere e portarla a scavalcare un muro alle due del mattino per un solo, breve e liberatorio bacio a quella ragazza che l’aveva fatta innamorare.
L’armadio cinese, l’armadio dei segreti, è quella condizione che impedisce ai ragazzi omosessuali di uscire allo scoperto. Ciò che questi ragazzi hanno compreso è che una volta usciti dalle loro prigioni e trovato il coraggio per dire ai genitori “sono omosessuale”, sono stati i genitori stessi a rifugiarsi nell’armadio. Ora sono loro a vivere nell’ombra del segreto scottante, a non saper sostenere il peso della realtà, a nascondersi tenendo ben chiuse le ante di quel luogo segreto perché nessuno venga a sapere.
“Dobbiamo proteggerli dalla verità” dicono i ragazzi. Così si sposano dopo lunghe ricerche, messaggi in chat, fotografie, descrizioni virtuali di coloro che potrebbero essere le compagne o i compagni di vita. Senza amore ma al solo fine di tranquillizzare le famiglie.
Si esce dalla sala riflettendo sugli armadi del nostro paese, di altri paesi. C’è la triste consapevolezza di fondo legata all’idea di quei luoghi segreti dove qualcuno da qualche parte del mondo, anche adesso, è costretto a nascondersi.
C’è l’amore che vorremmo uguale per tutti, e il desiderio irrealizzabile di armadi spalancati.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Titolo originale: Inside the Chinese Closet
Regia: Sophie Luvara
Anno: 2015
Durata: 72'

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BIOGRAFILM 12 - Ma Ma - Tutto andrà bene, di Julio Médem

10/6/2016

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​Non è facile scrivere di Ma Ma e, a conti fatti, nemmeno restare nella sala buia per 111 minuti con gli occhi incollati a quella storia dolcissima e amara. Il film non è semplice e pone il bersaglio sul cuore di ciascuno prima di scoccare le frecce al suo arco: nel commento musicale spesso cupo e nella delicata ricerca del dettaglio presente in alcune scene, l’animo dello spettatore subisce a tutti gli effetti ciò che potremmo definire un fenomeno tellurico di grande impatto.
Seno. Ma Ma è il termine spagnolo che si utilizza per dire “mammella”, due suoni brevissimi molto vicini alla parola “mamma”. L'opera di Julio Médem si apre con un gelido scenario siberiano e una splendida bambina russa dai lunghi capelli biondi; sarà una sorta di aggraziato traghettatore nel susseguirsi delle scene, e poco alla volta ci sarà svelato il mistero che la riguarda.
La storia comincia proprio da un seno, quello di Magda: è sdraiata sul lettino del ginecologo e sta subendo una palpazione. Médem ci scaraventa con immediatezza in quel bianco vortice che poco alla volta risucchierà la protagonista. Da quel semplice controllo in ambulatorio avranno inizio accertamenti in ospedali asettici e immacolati, dove le ombre vagano senza consolazione, lanciandosi sguardi di intesa. A capo di un paio di scene verrà rivelata la verità a Magda, e al pubblico.
Due grossi noduli, maligni e in espansione, vivono in uno dei seni di Magda; è così che si sprofonda in un baratro imprevisto, tenendo stretta la mano di questa giovane insegnante spagnola che in un periodo di crisi economica – da poco ha perso il lavoro e il marito – diviene destinataria di un lugubre annuncio. Ha un tumore al seno al terzo stadio, contro il quale potrà fare unicamente alcuni tentativi. Per quanto i medici si mostrino fiduciosi, il mondo della donna si sgretola di colpo e la sua mente corre al figlioletto Dani, dieci anni e una passione per il calcio, non soltanto figlio ma grande complice e migliore amico. Bisogna pensare a Dani e resistere ai morsi ingiusti di questa malattia che Magda non aveva previsto.
Il volto mai arreso di questa donna è quello di Penelope Cruz: attrice intensa, riesce a imprimere al film uno stile personale e ben riconoscibile, fa sua la parte e vi si immerge senza sconti. Ricorda un precedente ruolo interpretato, quello di Italia in Non ti muovere. La sfortunata, piccola, grande donna che dà filo da torcere alla sventura. 
La forza di Magda risiede nell’allegria, nell’essere combattiva, una madre solare e coraggiosa che non intende ricadere con il peso della propria malattia sul figlio. Per qualche misterioso disegno del destino, a poche ore dall’annuncio del tumore, Magda troverà sul proprio cammino un uomo di nome Arturo: è un talent scout del Real Madrid e sembra interessato alle potenzialità calcistiche del piccolo Dani. 
​
Se questo film parlasse soltanto d’amore, a questo punto ci aspetteremmo una storia ai fiori d’arancio, una fiaba fra la combattiva Magda e Arturo, l’uomo che incarna i sogni inarrivabili. Ma lo schermo non sarà così clemente. Arturo è un uomo segnato da una terribile tragedia, ha perso la moglie e la figlia in un incidente stradale e troverà in Magda un sostegno nonostante quest’ultima sia a sua volta impegnata a combattere in prima linea. Non è certamente la coppia che ci aspettiamo, un uomo disperato e una donna in guerra, eppure fra i due nascerà un amore quasi da favola. Dapprima casto e calibrato, giocato su sguardi infiniti e piccole accortezze, un amore timido che quasi non osa essere amore per timore che il fato avverso se ne accorga.
In una spirale sconvolgente, Medem mostra con atroce realismo tutti gli indizi di una malattia tanto diffusa quanto poco ricorrente nei nostri discorsi. Nessuno ama affrontare l’argomento; potremmo definire il cancro uno dei grandi tabù di oggigiorno, come se pronunciando soltanto quella parola ci ritrovassimo in balia di un senso di malessere. 
Il film supera la naturale avversione per la malattia implacabile che segna la fine della vita per molti e la fotografa fedelmente con la perdita dei capelli e di peso, le occhiaie, la spossatezza della chemioterapia, la nausea, l’insonnia. La Cruz, a cranio rasato, sfida l’obiettivo mostrando tutte le sfumature del dolore e della determinazione. Quando crede di aver ricevuto una seconda possibilità per vivere con un seno in meno e una famiglia intera, il cancro si ripresenta. Nei mesi successivi, Magda potrà intraprendere un’esperienza emotivamente ancora più ingombrante della malattia. Si accorgerà di essere incinta e supplicherà il suo corpo di rimediare tutte le forze necessarie per condurla al nono mese.
Il pathos più volte sfiora le stelle nel lavoro di Médem, proposto in anteprima dal Biografilm Festival e in uscita nei cinema il 16 giugno. Potremmo definire alcuni passaggi quasi surreali, eppure a questo film non si può cambiare una virgola: ogni modifica lo renderebbe infedele nei confronti della filosofia di Magda per come ci è stata raccontata. C’è un ginecologo che si improvvisa cantante e che stringe con Magda una sincera amicizia, ci sono ripetute apparizioni della bambina bionda che sembra farsi portatrice del segreto della vita, ci sono figure maschili strette in un coro amoroso attorno alla donna coraggio che lotta sino all’ultimo per concludere una vita inaugurandone una nuova. Qua e là notiamo fessure nella trama, qualcosa che ci induce a pensare che “sia tutto troppo irreale”. Eppure è in noi la tacita paura che in quel film sia invece immortalata una realtà sconosciuta ai più e tuttavia esistente, quella delle donne che affrontano il cancro e abbracciano la maternità in una mastodontica e impensabile prova di coraggio. La dedica finale del regista – “a loro” – sembra accorciare il passo fra noi e quelle donne.
Molta la commozione in sala e i sorrisi davanti a quella Spagna raccontata anche attraverso il gioco del calcio, la vittoria dei Mondiali, esultanze che sono costate care all’Italia e che oggi ci riportano indietro. La Spagna di Magda, dove senza un uomo e senza lavoro, afflitte da un male ingiusto e incurabile, si può ancora sognare dal riquadro di un piccolo giardino in fiore con le piante in vaso, respirare a fondo, e decidere di essere madre.

Maria Silvia Avanzato

Sezioni di riferimento: Festival Reportage, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Ma ma
Anno: 2015
Durata: 111'
Regia: Julio Médem
Sceneggiatura: Julio Médem
Fotografia: Kiko de la Rica
Musiche: Alberto Iglesias, Eduardo Cruz
Attori: Penélope Cruz, Luis Tosar, Asier Etxeandía, Teo Planell, Silvia Abascal
Uscita italiana: 16 giugno 2016

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