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BENNY'S VIDEO - Occhi senza corpo

24/1/2014

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Immagine
Benny (Arno Frisch) è un ragazzo proprio fortunato. Ha tutto ciò che un adolescente può chiedere alla propria condizione anagrafica, famigliare e sociale. Unico rampollo maschio di una famiglia dell’alta borghesia austriaca, abita in una bella casa, con una camera tutta per sé, dotata delle più moderne apparecchiature tecnologiche, ed è in grado di soddisfare tutti i capricci o i desideri che gli illuminino la mente. I genitori, spesso assenti, sia fisicamente, in quanto impegnati entrambi col proprio lavoro, sia affettivamente, a causa di una scarsa capacità comunicativa e di un sostanziale disinteresse, cercano di colmare tale vuoto con tutti i surrogati materiali che il ragazzo possa volere e la loro tasca comprare. Egli, quindi, gode di ampi mezzi e libertà, nonché di scarso controllo: il sogno di ogni adolescente.
Benny è anche un assassino. Niente di truculento o efferato, nessuna patologia clinica evidente, disturbo della personalità, delirio di onnipotenza, deviazione sessuale; o forse tutti questi elementi insieme, ma sottotraccia. Michael Haneke, secondo il suo stile, che all’epoca di questo suo secondo lungometraggio risulta già maturo e consolidato (dopo gli esiti già notevoli del suo precedente lavoro Il settimo continente), non tenta vani psicologismi, trite dietrologie sociopolitiche o moralismi fuorvianti, ma lascia scorrere le immagini e gli eventi, il cui senso spesso si cela dietro piccoli segni, gesti, comportamenti, sguardi, parole.
Il film si apre con la ripresa sgranata di un video amatoriale, che raffigura l’uccisione di un maiale in un mattatoio. Dopo lo sparo e il crollo dell’animale, una mano invisibile riavvia il video e lo mostra al rallentatore. Tale sequenza è emblematica per almeno tre motivi: nonostante la sua veridicità da snuff movie, manifesta appieno quanto la riproduzione audiovisuale della realtà possa essere manipolabile; indica uno dei due codici semiotici al lavoro nel film, vale a dire quello della ripresa amatoriale e soggettiva (il cui autore diegetico è quasi sempre Benny), in quanto contrapposto a quello dell’oggettiva del racconto filmico; infine si inserisce nel contesto della narrazione, spiegando come il protagonista (sua è la mano invisibile che riavvia il video, nonché quella che l’ha girato, ma lo si scoprirà solo successivamente) sia attratto dalle immagini estreme.
Lo spazio in cui Benny si muove, il suo regno, è la sua stanza, dotata di uno schermo televisivo, di un monitor, di un videoregistratore, di una videocamera portatile e di uno stereo. I due schermi assolvono due funzioni differenti, ancorché contigue. Quello televisivo, oltre al suo utilizzo tradizionale, viene adoperato anche per visionare i filmati da lui realizzati e le videocassette che egli quasi giornalmente noleggia. Il monitor, invece, è collegato sia a una videocamera fissa, collocata all’esterno dell’abitazione e puntata sulla strada per sorvegliare l’esterno, sia alla videocamera portatile puntata verso la stanza.
L’ossessione di controllo sull’ambiente interno, così come sul mondo esterno, ma anche sulla realtà e sulla sua rappresentazione, diviene per Benny l’illusione di essere in grado di estendere il potere del proprio sguardo di sorvolo sulle cose senza contaminarsi o mischiarsi con esse, mantenendo la distanza di sicurezza garantita dagli apparati di cui si circonda. Senza alcuna reversibilità. Puro occhio indagatore, guardante che non ama essere guardato/guardabile, il suo scopo ultimo diviene quello di inverare la realtà, riproducendola audio-visualmente per poterla così possedere, archiviare e rivedere fino allo sfinimento. Una realtà seconda, costituita da immagini in movimento e suoni, che, differentemente da quella fisica, non deperisce e in cui persino chi muore può rinascere, per poi morire di nuovo. Per sempre.
Haneke rielabora il mito della caverna platonico, capovolgendone magistralmente gli esiti. Benny si pasce di ombre, di fantasmi, al sicuro nella propria camera-antro, un non-luogo dove il tempo è bandito, semplicemente perché ne sono esclusi gli effetti e dove la realtà e la finzione si mescolano fino a diventare indiscernibili. Le immagini però non gli bastano più ed egli decide di uscire dal suo rifugio, per cercare una cavia per il suo esperimento decisivo: scoprire com’è la morte, la zona d’ombra del reale e della vita. Conosce una coetanea, che bazzica la videoteca da lui assiduamente frequentata, la invita a casa propria, mentre i genitori sono assenti, le offre da mangiare e le parla. Poi le mostra il video dell’esecuzione dell’animale e, dopo aver acceso la videocamera per riprendere la scena, la uccide, usando la pistola da macello che si vede nel video dell’uccisione del suino. 
L’incontro con la realtà fisica, però, anche nei suoi esiti più estremi, anziché costituire un’esperienza autentica, traumatica, piacevole, sublime, terribile, finisce col diventare un noioso episodio di routine – degno di essere rivisto e rivissuto, magari con calma, in seguito – da concludere al più presto, nascondendone le tracce, per tornare alle proprie occupazioni e soprattutto alla propria camera oscura e impenetrabile.
Inoltre va notato come, nella sua robotica smania di controllo sulle cose, il protagonista rifugga da tutto ciò che trascende il proprio ordine mentale. La morte del maiale, nel video che apre il film, si svolge secondo un copione, un ordine prestabilito, e Benny, puro voyeur, la filma, senza incontrare ostacoli, per rivedersela all’infinito nel proprio confortevole spazio organizzato. Più frequentemente, però, la morte è caotica, disarmonica, incontrollabile ed è questo che lo infastidisce (più che spaventare). Dopo aver sparato il primo colpo alla ragazza, lei non muore, anzi si lamenta e cade, uscendo dall’inquadratura della videocamera. La morte avviene fuoricampo, con Benny costretto a sparare ancora, mentre la videocamera riprende stolidamente un ambiente svuotato dei suoi personaggi, ma non delle sonorità che ne indicano la presenza/assenza. L’imponderabile ha tracimato, invadendo l’esistenza del protagonista, sotto forma di vita morente e refrattaria ai codici della ripresa. Un duplice sberleffo hanekiano al suo poco amato protagonista e allo spettatore, abituato ormai all’iper-visibilità televisiva e cinematografica (1). 

1) Uno dei film che Benny noleggia è The Toxic Avenger (Michael Herz e Lloyd Kaufman, 1984), un vero inno all’oscenità splatter, ancorché stemperato dall’ironia.

L’ossessione per l’ordine e per l’equilibrio che ne deriva non affligge solo il protagonista, ma anche i suoi genitori. Una volta scoperto il crimine del figlio, anziché provare sgomento per il gesto e pietà per la vittima, si preoccupano di quanto turbamento esso arrecherà alla tranquillità e all’ordine delle loro vite. Il loro unico scopo diviene allora quello di coprire le nefandezze di Benny, affinché la loro rispettabilità e il futuro del loro rampollo non vengano messi a repentaglio. Il padre, Georg (Ulrich Mühe), si assume il compito di fare a pezzi (“dovranno essere molto piccoli”, comunica alla moglie in un eccesso di efficientismo) il cadavere e di farlo sparire, oltre a distruggere il nastro dell’omicidio, mentre la madre, Anna (Angela Winkler), dovrà cercare di far ritrovare la pace interiore (mai compromessa, in realtà) al figlio, attraverso un viaggio in Egitto.
È proprio il viaggio, altrove veicolo di salvezza (2), a costituire invece il principio della fine per la famiglia, nonché lo svelamento di alcuni ulteriori frammenti di verità circa la personalità del protagonista. Anziché assaporare tale esperienza come una sana uscita da sé, come la possibilità di educare finalmente il proprio sguardo a posarsi in modo diverso su un mondo nuovo e sconosciuto, Benny la vive come una noia mortale. Fuori dalla sua tana, il piccolo mostro è inerme, se non fosse per la videocamera che ha portato con sé: un’arma di offesa (perché tenta di carpire il mistero delle cose, senza riuscirci, evidentemente) e di difesa (perché funge da filtro fra l’occhio e il mondo). Non a caso, tutte le immagini raffiguranti gli esterni in Egitto sono delle soggettive di Benny e della sua videocamera; gli interni nell’albergo sono invece girati come delle oggettive con macchina da presa professionale. 

2) Nel Vangelo di Matteo, Maria, Giuseppe e Gesù neonato fuggono in Egitto per evitare l’ira di Erode, una minaccia letale per il primogenito della Sacra Famiglia. Ironia hanekiana?

C’è un’unica cosa che preoccupa Benny: il fatto che il suo crimine sia noto solo ai suoi genitori, che la verità del suo atto sia invisibile al mondo. Una volta tornato in Austria, si autodenuncia alla polizia, portando con sé l’unica prova rimasta: una registrazione audiovisuale, da lui effettuata, del dialogo in cui i genitori pianificano, fuoricampo, ma con le loro voci perfettamente udibili, la loro complicità col figlio e le loro intenzioni per coprirne i misfatti. Una volta finita la deposizione, ingenuamente, Benny chiede: “posso andare, ora?”, quasi si trattasse di una birichinata, di una marachella infantile. 
Il fatto è che Benny non ha niente da nascondere, in cuor suo, perché niente è accaduto, nessuna esperienza, nessun mutamento palese (dopo l’omicidio si fa radere i capelli a zero, quasi avesse bisogno di percepire fisicamente un cambiamento che la sua mente e il suo cuore, ottusamente, rifiutano), nessuna maturazione o salto qualitativo nella comprensione della realtà. Alla fine del film, lo si vede uscire dalla sala degli interrogatori, inquadrato sul monitor di una telecamera di sorveglianza, mentre i genitori aspettano di entrare per essere a loro volta interrogati: da puro sguardo è divenuto puro oggetto visibile; da controllore, controllato. E non se n’è accorto.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Extra

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Scheda tecnica

Anno: 1992
Durata: 105’
Regia, soggetto e sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Christian Berger
Montaggio: Marie Homolkova
Interpreti principali: Arno Frisch, Ulrich Mühe, Angela Winkler, Ingrid Stassner, Stephanie Brehme

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