ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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FENG AI ('Til Madness Do Us Apart) - Follia e amore

7/1/2014

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L’ultimo film di Wang Bing è un’opera di fronte alla quale molti dei tradizionali schemi con cui si è soliti approcciare criticamente un film necessitano di esseri messi in stand-by, sindacati, sostituiti da una predisposizione diversa. Ben lontana dalla serialità di una certa analisi di superficie, che fa ricorso a griglie collaudate adagiandole di volta in volta su un prodotto piuttosto che su un altro, stando attenta esclusivamente a restituirne l’oscillazione degli equilibri interni, la funzionalità di questo o quel parametro.
Feng Ai no. Non è classificabile, merita di stare provvidenzialmente fuori gara, oltre che di stravincere ogni top di fine anno. Da un certo punto di vista, oltre a essere un film magnifico e una delle esperienze più dolorose in cui possa capitare di incappare in un’intera vita di spettatori, è anche un non - film: non è riscritto e ripensato al montaggio, è paurosamente vicino all’immediatezza con cui è stato girato.
Il regista cinese ci porta dentro un manicomio dello Yunnan, regione della Cina situata nell’estremo sud-ovest della nazione. Una struttura che ospita cinquanta uomini dei quali ben pochi sono dei matti autentici: la maggior parte di loro si trova lì per altre ragioni, per la pericolosità politica e sociale che gli è stata attribuita come un marchio meritevole delle peggiori purghe inumane, perfino per la riluttanza da parte delle rispettive famiglie a occuparsi di quanti sono poi finiti in questo luogo di privazioni e coercizioni lancinanti. Uno spazio di follia (tanta, urlata, ghignante, mostruosa, mortificante) e amore (ben poco, lasciato filtrare dalle sbarre, in modo fugace, come il più indecoroso dei bisognini consumati in segreto).
Per 227 minuti siamo lì, senza possibilità di venirne fuori, costretti a tenere gli occhi fissi sull’orrore, senza catarsi alcuna. Attraverso lo schermo siamo catapultati in una spirale di tenerezza negata, di consunzione della carne e morte dello spirito, di sporcizia e giallume proprio dell’incuria commovente e un po’ bambina (a dire il vero, quasi neonatale) che contraddistingue gli insani. Tanto più scandalosa e ripugnante se molti di questi ammattiti, con ogni probabilità, folli lo son diventati lì dentro e prima non lo erano, lontani anni luce dal doversi accucciare in un lettino malconcio accanto a un loro disgraziato consorte per sentirsi meno soli, lerci e rinnegati di quanto già non fossero. E poi quel ballatoio maledetto, confine liminale in cui tutto è negato; molto viene tenuto fuori campo, e la mano registica ragiona per profondità di campo, per sottrazione, per contenimento di una pulsione scopica che in altre mani sarebbe stata di sicuro ben più lesiva e deleteria.
Gli indesiderabili di Wang Bing i parenti li ricevono anche, ma ottengono da loro risposte vaghe, svicolanti, che annientano sottilmente ogni speranza in loro e in noi che guardiamo (il calvario proseguirà, forse mutando forma, ma avrà un seguito). E poi, cantano. Come usignoli striduli e stonati, come piccini in una culla piena di ombre addensate che affollano la testa creando incubi impossibili da dipanare e da estinguere.
L'autore sembra non tagliare mai, non voler sforbiciare un bel niente. È coraggioso, come sempre, ma in questo caso anche più del solito. La sua messa in scena è senza scorciatoie, ellissi, punti (e vie) di fuga. Supportato come sempre dall’uso della camera a mano, il suo sguardo ruvido è anti-igienico, impudico, volutamente infimo nella qualità delle riprese. Quello che ha davanti dopotutto è un edificio del regime, e per rendere al meglio la portata della disumanizzazione che al suo interno si consuma ci vogliono regole altrettanto ferree, ugualmente brutali.
Bing è dunque eccessivo (per durata, ambizione, afflato volontaristico) ma allo stesso tempo ha le mani legate dall’incapacità di spostare di un millimetro ciò che ha di fronte. Lo si può immaginare acquattato dietro la macchina, come una statua di sale, percepito nitidamente dall’ambiente impregnato di morte che prende vita dinanzi ai suoi occhi ma allo stesso impossibilitato a interloquire con esso, a essere concretamente un metteur en scène e non solo un ricettore di immagini sconvolte e annichilenti.
Quella di Wang Bing è un’operazione umana (ancor prima che artistica) incommensurabile. Che ambisce ad essere, al di là del tema trattato e della valenza politica in comune, ciò che Titicut follies di Frederick Wiseman fu per l’America: un documento sconvolgente e maledetto, osteggiato dai poteri forti per oltre un ventennio nel tentativo di impedire ai più una visione che sapesse di atto sociale rivoluzionario. Proprio per questo, alla stregua del capolavoro di Wiseman, Feng Ai è un film che va recuperato costi quel che costi, lottando con le unghie e con i denti per vederlo. È un dovere. Un ordine morale. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo
     

Scheda tecnica

Titolo originale: Feng Ai
Anno: 2013
Durata: 227’
Regia: Wang Bing

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SAD VACATION - Legami covalenti

4/1/2014

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Il giapponese Shinji Aoyama è regista, sceneggiatore, critico nonché scrittore. Il suo primo film, Helpless, risale al 1996. Nel 2011 è stato premiato con il Pardo d'oro al 64° Festival del film di Locarno, riconoscimento attribuitogli per l'opera Tokyo Park e come omaggio alla carriera. Quest'anno, sempre a Locarno, ha proposto Backwater (Tomogui), il suo ultimo lavoro. In qualità di critico ha collaborato con riviste del calibro dei Cahiers du Cinéma Japon. Inoltre è docente presso l'Art University di Tama.
Sad Vacation, presentato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia nel 2007, è l'adattamento dell'omonimo romanzo, scritto dallo stesso Aoyama, il cui titolo si ispira al brano di Johnny Thunders, composto per commemorare la morte di Sid Vicious (lo si può sentire all'inizio del film). Sad Vacation, con Helpless ed Eureka (insignito del Premio FIPRESCI al Festival di Cannes del 2010), fa parte della cosiddetta saga di Kitakyushu, città dove il regista è nato e cresciuto.
Kenji (il sempre ottimo Tadanobu Asano) convive con il peso di un passato segnato dalla violenza e dall’abbandono. La madre se n’è andata quand’era ancora un bambino, il padre si è suicidato e l’amico Yasuo è morto. Come un fantasma, Kenji si muove a tentoni sopravvivendo ai margini della società. Sembra un vagabondo alla ricerca del nulla. Eppure così non è, poiché si prende cura di Yuri, sorella dell’amico Yasuo, e di un bambino cinese clandestino. Durante un turno di lavoro notturno (Kenji sbarca il lunario facendo l’autista), salgono a bordo della sua auto un uomo e una donna: Mamiya (Katsuo Nakamura), proprietario di una ditta di trasporti che impiega persone emarginate e problematiche, e Chiyoko (Eri Ishida), sua moglie. Kenji riconosce in lei la madre che l’ha abbandonato e inizia così a frequentare la casa dei due con lo scopo di vendicarsi e poter finalmente dare un senso a un’esistenza costruita sulla sofferenza. Non riuscirà però a portare a termine il suo intento. Forse perché il legame di sangue è il più potente dei vincoli?
Il film gira attorno a questo dilemma. Che cosa significa famiglia? Si tratta di un nucleo assegnato dal codice genetico? O famiglia sono tutti coloro che, nel corso della vita di ogni essere umano, si prodigano per il suo benessere? La trama del film non suggerisce soluzioni, ma contribuisce ad aprire nuovi e innumerevoli interrogativi.
Nel corso di un’intervista, Aoyama ha espresso il desiderio di comprendere se l’uomo sia davvero in grado di vivere in solitudine. L’incertezza, l’insicurezza sono l’altra faccia della medaglia di chi vive in una condizione (forzata o meno) di indipendenza. La voglia di libertà si scontra necessariamente con la necessità atavica di relazionarsi con gli altri. Anche per questo una componente fondamentale di Sad Vacation sono i paesaggi surreali in cui si muovono i personaggi. Come detto, il film fa parte della saga di Kitakyushu, città natale del regista, che ha voluto ambientare la storia di Kenji in un luogo a lui caro, dove gli sfondi sono carichi di ricordi della sua infanzia.
Un film profondo e commovente, che riesce tuttavia ad affrontare i dilemmi della condizione umana con ironia e lucidità.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Saddo Vakeishon
Anno: 2007
Regia: Shinji Aoyama
Sceneggiatura: Shinji Aoyama
Fotografia: Masaki Tamura
Colonna sonora: Hiroyuki Nagashima
Durata: 110'
Interpreti principali: Tadanobu Asano, Eri Ishida, Aoi Miyazaki, Yuka Itaya, Katsuo Nakamura, Kengo Kora

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IN ANOTHER COUNTRY - Tre variazioni sul tema

5/12/2013

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Lo scorso agosto è uscito nelle sale italiane In Another Country, primo film ad approdare nel nostro paese del regista coreano Hong Sang-soo, che altrove è invece da anni amato e seguito, come dimostra il riconoscimento al suo U ri Sunhi, vincitore del Pardo per la miglior regia all'ultimo Festival di Locarno. Distribuito dalla Tucker Film, che ha già fatto conoscere in Italia capolavori come Departures, In Another Country è stato incredibilmente presentato anche in lingua originale con i sottotitoli.
Inserito dai Cahiers du Cinéma nella cinquina dei migliori titoli del 2012, il film racconta dell'arrivo in Corea del Sud di una donna francese (un'ispiratissima Isabelle Huppert) nella sciatta località balneare di Mohang, proponendo tre variazioni sul tema. La stessa  attrice ha rivelato che il regista ha costruito l'intera vicenda narrativa attorno alla sua persona: le tre storie che compongono In Another Country si riuniscono in realtà in un'unica storia, focalizzata appunto su Anne, il personaggio interpretato dalla Huppert, creatura malinconica e sola in terra straniera. 
Anne è dunque dapprima una regista francese ospite di un collega del posto. L'uomo, innamorato di lei, si concede qualche avance di troppo, scatenando così la gelosia della moglie incinta. Nel secondo episodio Anne è invece una donna sposata che si reca a Mohang per incontrare l'amante, un regista coreano. Infine la Huppert veste la parte della moglie abbandonata, che il marito ha tradito con una collega di lavoro. Molto bravi anche gli altri attori del cast (tutti coreani), altrettanto abili nel districarsi nel gioco a incastro che caratterizza l'opera di Hong Sang-soo. 
Gli avvenimenti e i dialoghi vengono riproposti utilizzando ogni volta diversi protagonisti. Il ripetersi di situazioni girate con uno stile pressoché identico e la narrazione di accadimenti banali e del tutto privi di nota sono lo strumento di cui si avvale il regista per avvicinarci alla percezione di una cadenzata routine quotidiana. Dove un semplice gesto non deve nascondere necessariamente significati più profondi, ma può valere in quanto tale, per la poesia che esso stesso reca in sé.  
Un realismo che omaggia Rohmer e che regala altresì delle spassose sequenze, frutto dei malintesi che si vengono a creare a causa dello stentato inglese dei locali, che mal comprendono le richieste della francese Anne. In particolar modo divertente è lo scambio di battute tra la Huppert (che cerca un faro) e il bagnino della spiaggia. Il bagnino, figura presente in tutte e tre le parti di cui si compone il film, è una gustosa caricatura del maschio coreano, convinto a torto di possedere impareggiabili doti seduttive. Bellissima inoltre la scena finale, che inquadra Anne mentre si sta allontanando a piedi da Mohang e si sofferma a recuperare l'ombrello nascosto in un anfratto nell'episodio precedente. 
Inutile dire che In Another Country andrebbe visto solo in lingua originale con i sottotitoli. Inqualificabile è infatti il doppiaggio italiano, che traduce nella nostra lingua i dialoghi di un'attrice francese che conversa in inglese con donne e uomini coreani.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Da-reun na-ra-e-suh
Anno: 2012
Regia: Hong Sang-soo
Sceneggiatura: Hong Sang-soo
Fotografia: Park Hong-yeol, Jee Yune-jeong.
Colonna sonora: Jeong Yong-jin
Durata: 88'
Uscita in Italia: 22 agosto 2013
Interpreti principali: Isabelle Huppert, Yu Jun-sang, Jung Yu-mi, Kwon Hye-hyo, Moon So-ri.

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SOMERSAULT - Amore e perdono

20/9/2013

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Heidi (Abbie Cornish, Bright star, E.W.) ha sedici anni ed è in fuga. Ha baciato il fidanzato di sua madre e, vittima del senso di colpa, è scappata di casa senza sapere esattamente dove andare, né con chi, né come farcela. Heidi ha imparato a sopravvivere usando il corpo come merce di scambio. Questo è ciò che ritiene di saper fare: punire se stessa come se non stesse vivendo la propria vita, ma maltrattando una bambola, oggetto distaccato da lei e quindi privo di valore.
Heidi è un’adolescente confusa, eppure sa perfettamente ciò che vuole. Solo che ritiene di non meritarlo. Eccola allora vagare affranta in cerca di un riparo, così ingenua eppure determinata a fare ciò che serve per sopravvivere, fosse anche una sola notte. Eccola spostarsi da un ragazzo all’altro, sperando di trovare qualcuno che sia disposto a prenderla con sé, a portarla via, non importa dove. Sarà poi l’incontro con Irene (Lynette Curran) a darle una casa, e quello con Joe (Sam Worthington, Avatar) a regalarle il primo battito del cuore, il sentimento autentico che ti dice che il sesso non è moneta, ma il contatto più intimo e privato nella stretta curva del voler bene. Solo perdonando se stessi è possibile crescere, solo nella catarsi emozionale si sciolgono i nodi e si può ritrovare la strada interrotta, i legami familiari, la fedeltà, l’amore.
Questo è un film sul perdono, afferma la regista Cate Shortland. Un film abitato di creature segnate, sole e imperfette, che cercano di venire a patti con gli errori, il passato, il dolore, la colpa. Anime introverse che devono imparare a perdonare se stesse per poter guardare avanti senza paura, armate di speranza. Non solo Heidi, cui in ogni caso gira intorno l’intera storia, ma tutti i personaggi sembrano avere un sentimento irrisolto e una pena che grava come un sasso nel determinare - nel passato e nel presente- comportamenti, stili di vita e scelte.
C’è un misto di poesia e malinconia nel racconto d’ambiente, una realtà al contempo gelida (d’inverno) e calda (dei sentimenti rinati). Heidi, “una cappuccetto rosso del ventunesimo secolo”, come la definisce Skye Sherwin nel The Guardian. Una bambina persa che utilizza i pochi spiccioli che ha per comprarsi un paio di guanti rossi con cui vagare nel rigido paesaggio, per metà rurale e per metà urbano. Heidi che colora il bosco di movimenti, suoni, filastrocche infantili. Anche la città ha bisogno di lei, dopotutto. Ma qual è il suo posto? Qual è il luogo di tutti noi? Il posto cui apparteniamo? Forse è solo nella dimensione affettiva che possiamo ritrovarci e riscoprire la ragione di esistere. Dobbiamo tutti dare un senso alle nostre azioni, dobbiamo fermarci e capire come guadagnarci il rispetto di noi stessi, riappropriandoci della nostra dignità.
Somersault è un toccante e profondo ritratto di giovani divisi tra sogni irrealizzabili, aspettative represse, l’inconfessabile desiderio d’amore e la paura di ottenere quel po’ di felicità che, con sfrontatezza e audacia, solo i ragazzi sanno chiedere. È un racconto di formazione, un coming-of-age che segue, con semplicità e delicatezza, il coraggioso atto di diventare grandi.
L’accettazione di sé e dell’amore come forza risanatrice è più importante della sessualità, anche se indubbiamente Cate Shortland parte dall’epidermide, per così dire, per giungere poi nella profondità, del contesto e dei personaggi. Abbie Cornish e Sam Worthington sono i volti perfetti di questo minimale racconto di formazione: giovanissimi, ingenui e puliti, privi di sovrastruttura, capaci di recitare in silenzio, col corpo, con la poetica dei piccoli gesti che la regista sa e vuole cogliere: così, anche una banale colazione a letto diventa l’intimo gesto di nutrirsi e donarsi. L’attrazione muta in scoperta, i baci in corpi che si uniscono e sbocciano, il sesso in amore. In cura di sé, in devozione per l’altro. Nella più importante scelta che si possa fare: lasciarsi liberi di andare, liberi di tornare.
Somersault, il salto mortale che compiamo quando scappiamo, o quando ci abbandoniamo alla fiducia, agli affetti, alla speranza.
Con la sua opera prima Cate Shortland ha sbancato nel 2004 l’Australian Film Institute Award, vincendo 13 premi su 13 candidature. Un successo che è ancora un record, meritatissimo, per un film che offre un delicato ma sferzante scorcio sull’indefinita età adolescente. Un film che esalta anche le qualità, spesso dimenticate, del cinema indipendente: budget minimo, una sceneggiatura curata e originale, un gruppo di attori sconosciuti e straordinari, una regia che usa la macchina da presa per catturare, più che per dimostrare. 

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Somersault
Regia: Cate Shortland
Sceneggiatura: Cate Shortland
Interpreti: Abbie Cornish, Sam Worthington, Lynette Curran
Fotografia: Robert Humphreys
Musiche: Decoder Ring
Durata: 104 min.
Anno: 2004

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WISH YOU WERE HERE - Il cerchio interrotto

29/8/2013

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Presentato al Sundance Film Festival nel 2012 ma distribuito negli Stati Uniti solo nel 2013, Wish you were here è il primo, ottimo lungometraggio di Kieran Darcy-Smith (già interprete di Animal kingdom), che insieme all’attrice Felicity Price ne ha curato anche la sceneggiatura.
Costruito sull’alternanza di due tempi, presente e passato, Wish you were here racconta il cerchio interrotto attorno alla scomparsa dell’australiano Jeremy (Anthony Starr) durante un viaggio in Cambogia; il resto è il dramma dei tre amici che si trovavano con lui, il loro ritorno a casa come persone totalmente cambiate, inquiete, avvolte da una nube di dolore e incertezza difficile da dissipare.
“Vorrei che fossi qui”, recita il titolo del film. Ma Jeremy non c’è, e la sua è la presenza-assenza più rumorosa. Sua è l’ombra invisibile che si annida nelle vite di Alice (Felicity Price), del marito Dave (Joel Edgerton) e della sorella Steph (Teresa Palmer), che di Jeremy è la fidanzata. Loro agiscono come i sopravvissuti a una tragedia inspiegabile, creature perse dentro il proprio vuoto, combattuti tra il desiderio di indagare sulla scomparsa dell’amico e la necessità di elaborarne la perdita per guardare avanti. Jeremy ha lasciato un buco nel quale nessuno ha il coraggio di guardare, forse per la paura di trovare la verità nel malcelato senso di colpa. 
Wish you were here è un percorso compiuto verso la consapevolezza degli eventi del passato, un mystery che ricostruisce la frammentata trama gialla procedendo per flashback e che finisce poi con il diventare un dramma romantico sul tradimento, l’ambiguità delle relazioni amorose e la responsabilità delle scelte individuali.
Incerto se seguire una strada o l’altra, il film forse si perde un po’ quando arriva il momento di prendere una decisione. Non ci sono colpi di scena né eventi inaspettati; al contrario uno spettatore minimamente attento può subito captare che le svolte della trama, legate a verità che i personaggi tengono nascoste, siano snodi narrativi necessari ad accompagnarci verso un finale drammatico e pacificatore. Ciascuno dei protagonisti possiede un pezzo del puzzle, per arrivare all’alba della scomparsa di Jeremy, alla soluzione dell’enigma, all’espiazione del peccato e a una dolorosa catarsi.
Interessante il taglio voluto dal regista, con i continui flashback della Cambogia dalla doppia faccia, una cartolina turistica le cui vedute nascondono in realtà scorci assai poco idilliaci. La Cambogia non è il Vietnam de Il cacciatore, ma certe atmosfere estreme sembrano - pur involontariamente - richiamare il film di Michael Cimino. Ambienti soffocanti, crudi e clandestini che trasudano sangue e guai, con i colori splendidamente fotografati da Jules O'Loughlin; luoghi appartati e omertosi dove si compie l’indicibile. Nulla che non sia preannunciato, nulla che non ci si aspetti, ma il pur inevitabile svelamento della verità è descritto con la giusta tensione drammatica.
Uno degli aspetti più riusciti risiede nella costante contrapposizione tra l’idea di casa e il ricordo della parentesi cambogiana, tra la vita ordinaria che cerca stentatamente di riprendere il suo corso e quel frammento di follia appassionata ed esotica, accaduto nel passato e così ostinatamente arpionato nel presente. La distanza non è solo temporale, tra momenti e spazi così diversi; sembra quasi che le vite dei personaggi siano scollate, tra un prima e un dopo la scomparsa di Jeremy. Vite prive di continuità e legate solo dal vuoto. Ecco l’importanza di scelte scenografiche suggestive e contrastanti, e di una fotografia che alterna i colori naturali dell’Australia a quelli caldi della Cambogia.
Più di tutto, tuttavia, risalta la performance del quartetto di attori. Non si tratta di una sciarada né di un testo teatrale, eppure Wish you were here conta sull’alchimia e sulla capacità del cast di creare coralmente, quasi come attorno a un fuoco, la figura del personaggio assente e le ombre e i misteri incandescenti che brillano attorno a quella sagoma.
Combattute e introspettive le performance di Joel Edgerton e Teresa Palmer, che si dipanano su registri interpretativi simili, mentre più toccante ed emotiva è la prova di Felicity Price. Ad Anthony Starr la missione (compiuta) di far risultare indimenticabile il suo Jeremy anche solo con una manciata di scene all’attivo.
Da sottolineare lo sforzo produttivo compiuto per un film interessante e piccolo come questo. Si tratta di un’opera autenticamente indipendente, prodotta dalla Blue-Tongue Films, società di Joel Edgerton che lavora come un vero e proprio collettivo, con attori e registi legati gli uni agli altri da rapporti professionali di valore (a loro si deve anche il sopracitato e bellissimo Animal Kingdom). 
Wish you were here conferma il fermento creativo del cinema australiano, capace non solo di esportare attori, ma di intuire, investire e rischiare. La libertà dell’indie.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Wish you were here
Regista: Kieran Darcy-Smith
Sceneggiatura: Kieran Darcy-Smith, Felicity Price
Attori: Joel Edgerton, Teresa Palmer, Felicity Price, Anthony Starr
Fotografia: Jules O’ Laughlin
Scenografia: Alex Holmes
Montaggio: Jason Ballantine
Durata: 89'
Anno: 2012

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MASQUERADE - Un buffone regna in Corea

28/6/2013

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Corea, 17° secolo: Gwanghae, quindicesimo sovrano della dinastia Joseon, è convinto che a corte sia in atto un complotto per detronizzarlo. Temendo per la sua vita, ordina a Heo-gyung, fido consigliere, il compito di trovare un sosia che lo possa rimpiazzare. Ha-seon, un attore comico che lavora in uno squallido bordello, accetta di sostituire il monarca in cambio di una ricompensa. Quando però Gwanghae viene effettivamente avvelenato e rischia di morire, il consigliere Heo-gyun e il capo degli eunuchi decidono di nasconderlo in un luogo sicuro per curarlo; nel frattempo Ha-seon dovrà assumere l’identità del re e sottoporsi a un'adeguata preparazione al fine di apprendere le consuetudini e le usanze in vigore a palazzo. 
Dai malintesi iniziali nascono le scene più esilaranti di Masquerade: Ha-seon fatica ad abituarsi alla rigida etichetta di corte, che esige un preciso protocollo per ogni azione del sovrano, come la defecazione mattutina al cospetto di uno stuolo di serve prostrate ai suoi piedi. Ha-seon è un uomo umile, ma dotato di una profonda sensibilità che lo contraddistingue dal freddo e paranoico Gwanghae: quando comprende che gli avanzi dei pasti regali vanno alla servitù, tralascia appositamente le migliori pietanze. Si oppone quindi ai membri più potenti del regno, approva leggi più giuste per il popolo, fa rilasciare un uomo condannato senza un valido motivo. Anche se novità tanto audaci fanno nascere dubbi sulla sua identità, Ha-seon continua a comportarsi come un vero re e si mette in gioco, pronto a morire per difendere i principi di giustizia nei quali crede. L’umanità del finto monarca conquista consiglieri, servi e la stessa regina. Gwanghae, una volta tornato al proprio posto, non potrà prescindere dalla lezione sul potere impartitagli dal suo sostituto. 
Dramma storico in costume campione d’incassi in patria, Masquerade propone temi classici, più volte affrontati sia in ambito cinematografico che letterario, quali lo scambio di persona, gli intrighi di palazzo e le eterne contrapposizioni tra ricchezza e povertà, tra crudeltà e sensibilità. Tuttavia, la storia di Ha-seon appassiona ed emoziona grazie alla pregevole sceneggiatura, scritta dal regista Choo Chang-min (Late Blossom, Mapado) in coppia con Hwang Jo-yoon, già sceneggiatore di Old Boy. La scelta delle inquadrature, la cura del particolare, la bellissima fotografia di Lee Tae-yoon, i costumi di Kwon Yoo-jin e la colonna sonora completano il quadro di un’opera tecnicamente vicina alla perfezione. Masquerade deve comunque gran parte del suo successo anche all’interpretazione della star coreana Lee Byung-hun (A Bittersweet Life), vincitore del premio come miglior attore protagonista ai Daejong Film Awards, che si sdoppia nel ruolo dell'arido Gwanghae e dello spumeggiante e generoso Ha-seon. Lo accompagnano nel corso della vicenda due attori di vecchia data nei panni del consigliere Heo-gyun (Ryu Seung-ryong)  e del capo degli eunuchi di corte (Jang Gwang). 
Girato prevalentemente all’interno del palazzo reale, il film si contraddistingue inoltre per la minuziosa ricostruzione storica. La vicenda si ispira a un episodio marginale del passato coreano: un lasso di tempo di quindici giorni andato perduto negli annali della dinastia Joseon, proprio durante il regno di Gwanghae, artefice di riforme coraggiose e innovative. 
Kolossal epico che sfrutta con sapienza l'elevato budget a disposizione, presentato in anteprima in Italia all’undicesima edizione del Florence Korea Film Fest e in seguito alla quindicesima edizione del Far East, Masquerade è contemporaneamente dramma e commedia: commuove e fa sorridere per merito di dialoghi brillanti e di un'intelligente alternanza dei registri narrativi.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Gwanghae, Wangyidoen Namja
Anno: 2012
Regia: Choo Chang-min 
Sceneggiatura: Hwang Jo-yoon, Choo Chang-min 
Fotografia: Lee Tae-yoon 
Musiche: Kim Jun-seong, Mowg
Durata: 131'
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Lee Byung-hun, Ryu Seung-ryong, Jang Gwang, Kim In-kwon, Han Hyo-joo.

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THE SNOWTOWN MURDERS - Genesi di un killer

11/6/2013

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Dentro la mente di John Justin Bunting, il serial killer più famoso (o famigerato) d’Australia. Undici efferati delitti commessi nel South Australia negli anni ’90 ma sui quali si indagò solo nel ’99, quando i corpi furono ritrovati proprio a Snowtown.
The Snowtown Murders (2011), primo lungometraggio di Justin Kurzel, non entra però nella psicologia dell’assassino, come aveva fatto Herzog con il bellissimo My son, my son, what have ye done?, e affronta solo marginalmente il tema dell’influenza genitoriale nella (dis)educazione del giovane killer, cosa trattata con grande efficacia da We Need to Talk About Kevin (E ora parliamo di Kevin).
Il film offre un ritratto inquietante di vite oltre il limite della normalità, ma soprattutto racconta e costruisce la più inquietante delle storie vere, radicandola alla società in cui si compie, legandola in modo indissolubile al contesto familiare, relazionale e ambientale in cui avviene. Ed è tutto quasi come la naturale, inevitabile conseguenza di situazioni, manipolazioni e fatti. Il giovane Jamie (Lucas Pittaway) sopravvive, silenzioso e isolato, in una realtà fatta di disperazione e abusi reiterati. Per sottrarsi all’abitudine di violenze costanti e ripetute, il ragazzo scappa e trova rifugio nella casa di John Bunting (Daniel Henshall), in una famiglia che sembra quella di Charles Manson, tanto aperta ad accogliere il reietto quanto stretta nel manipolarne la fragile mente, il corpo, i pensieri e le azioni, fino a portarlo non solo ad accettare la violenza più atroce, ma a perpetrarla egli stesso.
Il cattivo maestro trova un allievo disperato dal desiderio di stabilire rapporti piuttosto che di farsi escludere; gioca con le sue debolezze, le mancanze, i desideri, gli mostra solo pochi brandelli di normalità, e insinuandosi tra la maglie larghe delle sue emozioni lo attira a sé, spingendosi e spingendolo a sorpassare la linea invisibile che separa la debolezza dalla brutalità, la rabbia dalla violenza. La vita dalla morte.
The Snowtown Murders è un film tutto al maschile in cui la componente sessuale, per quanto non sottolineata, è una delle variabili che determina sia i comportamenti che le dinamiche psicologiche dei personaggi. Il ritratto della comunità assassina è un quadro d’insieme che si compone e i cui colori tendono a mutare a seconda della prospettiva offerta allo spettatore. La storia di abusi, di sessualità più o meno implicita, lo schema di attrazione/repulsione verso il carismatico leader terrorizzante e subdolo si snoda sul piano dell’ambiguità; eppure il regista – pur senza mai giudicare - non si confonde e non ci confonde.
La scelta di Jamie di non rimanere spettatore degli omicidi, ma di fare quel salto, di diventare assassino a propria volta, è personale, non determinata tanto dalla società, quanto dalle persone. Il fascino del male e la decisione di farsi prendere nella spirale è forse solo un clic, tambureggiante e impercettibile, che scatta all’improvviso nella mente, annulla le emozioni, raggela le resistenze, la percezione del bene, e fredda perfino gli istinti.
La regia di Justin Kurzel si mostra distaccata, quasi realistica nel narrare il percorso mentale verso quel ‘clic’. È un crudele gioco delle parti tra i personaggi principali, Jamie e John, elaborato in immagini attraverso contrapposizioni e contrasti. Il film cattura da subito ma inizia veramente a funzionare, a crescere, a coinvolgere suo malgrado lo spettatore nel turbine di efferatezze proprio quando abbandona la strada del realismo per imboccarne una più personale, fatta di tagli netti, montaggio, dettagli, cura del particolare. L’inquietudine, la disturbante sensazione di orrore si crea attraverso lunghe scene di dialogo, complesse e sottili, alternate alla barbarie degli omicidi. E se Kurzel non si autocompiace nel mostrare, e di certo non risparmia nulla all’immaginazione, tuttavia sono quelli i momenti più riusciti nel film. Merito anche della splendida prova di Daniel Henshell, la cui figura impera anche quando non c’è, nelle inquadrature ottimamente composte dal regista - in cui l’inquietante pater familias (per dirla con una felice intuizione del critico Peter Bradshaw del The Guardian) si mostra defilato, sfocato, invisibile. E onnipresente.
La tensione, l’attesa, la sensazione della violenza che aleggia in ogni singola inquadratura, in ogni scena, quella percezione di destino che sta per compiersi, si trascina verso di noi, impotenti spettatori della morte inutile, dell’abbandono, della lucida follia, della fragilità dell’adolescenza rubata. Noi spettatori degli avvenimenti in una città che pare inesistente, inconsistente, addirittura vuota. John è il nostro dirimpettaio, il sinistro vicino di casa di là dal muro, il padre di famiglia, padrino e padrone delle esistenze che attorno a lui girano; burattini, prede e predatori nell’apocalisse che esplode tra le mura, mentre fuori il mondo racconta un’altra storia. Forse.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: The Snowtown Murders, a.k.a. Snowtown
Produzione: Australia
Regia: Justin Kurzel
Attori: Daniel Henshall, Lucas Pittaway, Louise Harris
Sceneggiatura: Shaun Grant
Fotografia: Adam Arkapaw
Musiche: Jed Kurzel
Durata: 119'
Anno: 2011

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KOTOKO - Tsukamoto tra lacrime e nuove carni

27/5/2013

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Ci sono film che nel percorso poetico e identitario di un grosso autore possono fungere da palingenesi rigenerante, da apripista per nuovi sorprendenti inizi. È il caso di Kotoko, premio Orizzonti a Venezia 2011, che del cinema di Shinya Tsukamoto riscopre la forza materica e la portata destabilizzante, risintonizzandosi nel solco del bellissimo Vital (2004) dopo il buono ma non eccezionale Tetsuo: The Bullet Man e i due episodi della serie Nightmare Detective. 
Non è che la vena di Tsukamoto si fosse pericolosamente assottigliata verso la meccanica riproposizione di sé, ma è parimenti vero che si sentiva il bisogno di un uragano che rifacesse piazza pulita, spazzando via la tendenza ad appoggiarsi a un passato residuale, a cose già fatte, a sentieri già battuti e consolidati. Tsukamoto necessitava di una rinascita non per sfuggire da sé e dal proprio immaginario, ma per poterlo rilanciare con una rinnovata focosità e un’assenza di sconti che facesse nuovamente gridare al capolavoro e al miracolo rivelato.
Ecco allora che Kotoko sopraggiunge come la risposta più generosa a tutte queste bisognose speranze; un film unico e pregiato, che solo una mente come quella di Tsukamoto avrebbe potuto concepire facendo leva su una così estrema connivenza di atrocità e poesia. Nell’ultimo film del regista di A Snake of June e Tokyo Fist la macellazione della carne - intesa come autolesionismo, ferita accecante, negazione di sé attraverso un dolore inflitto e calcato - coincide infatti con una spiritualità di sorprendente grazia. I due elementi danzano sul baratro della contraddizione inseguendosi di continuo, con ognuna delle due parti che in maniera incessante rincorre il suo opposto e si riversa in esso. Una natura ossimorica che innesta nel film una profonda elegia del contrasto, un nuovo anno zero e un ritrovato cuore pulsante della propria arte e del proprio cinema. 
In più, Kotoko è un abbagliante racconto di sensibilità femminile: il malessere di una giovane madre affetta da un morbo straniante e inspiegato a causa del quale è costretta a vedere la gente dissociata in due parti, una buona e una cattiva, due unità scisse che si ricompongono soltanto quando la protagonista lenisce il dramma della sua percezione frammentata con l’esercizio del canto. Un atto che coincide anche con l’unico momento privo di paura per una mater dolorosissima che, accusata di maltrattamenti e sevizie ai danni del piccolo, viene separata dal figlio che ama alla follia, ma che rischia di essere messo in costante pericolo per via delle pulsioni dissociate e perfino infanticide che albergano nella donna.
Innovando con potenza disturbante il più vecchio degli spunti strappalacrime - quello di una madre forse non all’altezza del suo ruolo ma che non vuole vedersi strappata la sua adorata creatura - Tsukamoto si mette anche fisicamente in scena nei panni di un celebre scrittore del quale la protagonista Kotoko si innamora, sfociando peraltro in un vortice di percosse, a partire da un tentato suicidio di lei per arrivare a un reciproco perseguitarsi e rincorrersi, come in un tango della disperazione e della prostrazione, resa ancor più viva da un uso sensazionale del digitale.
I fremiti dei corpi traballanti vengono a coincidere con la paura del terremoto che nel 2012 ha disossato gli animi del popolo nipponico, facendo coincidere la depressione col corrispettivo e tellurico moto del corpo. Cocco, cantautrice giapponese molto nota in patria e anche autrice del soggetto di questo film e in passato della colonna sonora di Vital, si avvinghia al suo personaggio con un’adesione spaventosa e autobiografica (ha infatti lei stessa perso un figlio): un’interpretazione mirabile, con le braccia ora mutilate in ferite a cielo aperto ora tendenti verso l’alto, impegnate nell’analgesico rimedio canterino al timore ancestrale di una catastrofe incombente; una novella, straziata Pina Bausch con gli occhi a mandorla. 
Cocco è la testa contro il muro, la lingua che lecca la ferita insanguinata del suo amato con delle forti bracciate, la segmentazione polare dei rumori che vivono nella sua testa. Il personaggio di Tsukamoto provvede ad assecondare l’essenza (cronenberghiana) del doppio della sua protagonista e da lei si lascia seviziare nel corpo, mettendosi a nudo in prima persona in una sorta di impetuoso afflato militante e abbandonandosi così a un’immersione abnegata e affascinante dentro al suo stesso film. Le ferite, non a caso, si rimarginano man mano che l’amore si fa largo e i cuori si sciolgono per davvero, non sperperando più il sangue ma lasciandolo scorrere a fiotti nelle proprie vene.
La forza visiva e metaforica è proprio quella dei Gemini inseparabili del David regista canadese che di Tsukamoto è esso stesso anima gemella, ma gli scarti della macchina da presa sono qui ben più violenti e imprevedibili, fedelmente a un’idea di cinema abrasiva e priva di sconti, incentrata sulla perversione masochistica e simbiotica. Tra allucinazione e lampi piangenti, tra radicale impeto corporale e inserto onirico, Kotoko è un film indimenticabile, da brivido, da vivere con gli occhi spalancati sull’abisso dello spirito e della carne, pervasi e illuminati dallo strazio urlante di un concerto audiovisivo irripetibile e di mortale bellezza.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Kotoko
Anno: 2011
Regia: Shinya Tsukamoto
Sceneggiatura: Shinya Tsukamoto, Cocco (soggetto originale)
Fotografia: Satoshi Hayashi, Shinya Tsukamoto
Musiche: Cocco
Durata: 90’
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Cocco, Shinya Tsukamoto

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33 POSTCARDS - Vivere senza confini

1/5/2013

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33 Postcards, o 33 messaggi che riassumono il legame costruito, nel corso degli anni, tra Mei Mei (Zhu Lin) e Dean Randall (Guy Pearce). Mei Mei è un’orfana cinese, ha appena sedici anni e ha potuto crescere e avere un’educazione grazie alle donazioni di Dean Randall, misterioso benefattore che vive in Australia. L’unico filo che li tiene insieme è una fitta, costante corrispondenza: Dean scrive dello splendore della sua vita familiare, del sole e delle passeggiate in spiaggia, disegnando per Mei Mei un vero e proprio sogno di felicità, lucente, tondo e perfetto. Quando l’istituto presso il quale Mei Mei risiede organizza un viaggio a Sydney per partecipare a una manifestazione canora, la ragazza decide di scappare e tentare, con il cuore pieno, di incontrare Dean. Di toccare finalmente quel sogno, raggiungere l’isola felice. Che non c’è. 
Dean è un detenuto, e l’intero mondo con cui Mei Mei ha cullato la propria giovane vita non è altro che la fantasia di un uomo solo, generoso ma anche bugiardo. Eppure c’è una verità profonda, al di là delle menzogne raccontate per ingannare se stessi o per fuggire dalla realtà troppo angusta da sopportare. La verità è che Dean e la ragazza cercano la medesima cosa: una famiglia, una figlia o un padre, qualcuno da amare e di cui prendersi cura, qualcuno per cui valga la pena sperare, o anche solo iniziare a vivere.
Film della pacificazione e film-simbolo della raggiunta integrazione tra Cina e Australia, 33 Postcards è il frutto della co-produzione tra i due paesi e in particolare la prima pellicola a contare sulla collaborazione tra Cina e New South Wales. La regista Pauline Chan, anche sceneggiatrice, cresciuta in Vietnam ma da trent’anni residente in Australia, conosce bene entrambe le realtà e gli stili di vita, le conflittualità, le diversità culturali, che qui traduce in un racconto di formazione toccante e poetico, delicato e sincero. Pur non addentrandosi nella complessità strutturale di una storia dai molteplici risvolti ma forse eccessivamente semplificata, la regista si giustifica affidando la propria prospettiva allo sguardo ingenuo ed entusiasta di Mei Mei, una Alice nel paese delle meraviglie che combatte con straordinaria caparbietà per realizzare se stessa e il suo irrinunciabile desiderio di appartenenza all’altro, come estensione della propria vita in procinto di sbocciare.
Se non sfugge alla retorica il racconto di questo percorso di adattamento che Mei Mei compie nella realtà australiana - così diversa e spiazzante, addirittura alienante rispetto al ridotto e claustrofobico ambiente dell’orfanotrofio cinese – è decisamente efficace, e coinvolgente, la descrizione del cambiamento interiore compiuto dai personaggi. L’ingresso della sedicenne nella vita di Dean Randall, condotta dentro e fuori la legalità, porta una nuova luce e insieme il risveglio della coscienza, di un senso di moralità e di riscatto.
L’intero universo di valori viene ridiscusso da entrambe le culture, orientale e occidentale, tra preservazione della purezza, compimento della maturità e accettazione del diritto-dovere che, come esseri umani, abbiamo di provvedere a noi stessi e all’altro, consapevoli della responsabilità che comporta amare qualcuno, fidarsi e affidarsi all’altro e ricambiare questa fiducia.
Impreziosito dall’interpretazione fresca di Zhu Lin e da quella sofferta e complessa di Guy Pearce (che dà forma e corpo allo spirito di un uomo appesantito dalla colpa eppure disperato di risorgere dalla propria ombra), 33 Postcards ha forse nelle scelte visive e di ambiente il punto di forza. Grazie alla bellissima fotografia di Toby Oliver (sospesa tra toni naturali, colori caldi, suggestioni emozionali e crudezza d’ambiente), il racconto per immagini che viene fatto di Sydney si muove da un livello più immediato - la skyline, la metropoli caotica – a uno meno scontato, più autentico, tutto composto di luci e ombre, commistioni architettoniche e paesaggi naturali, in un imperfetto quadro di contaminata postmodernità. La realtà del vivere senza confini, come si auspica la stessa Pauline Chan: un universo senza barriere culturali. Un sogno. Perché ogni film è una cartolina che viaggia ai confini del mondo, portando il messaggio con sé.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: 33 Postcards
Regia: Pauline Chan
Anno: 2011
Attori: Zhu Lin, Guy Pearce, Claudia Karvan, Lincoln Lewis, Kain O'Keeffe
Durata: 97 min.
Fotografia: Toby Oliver
Sceneggiatura: Martin Edmond, Philip Dalkin, Pauline Chan
Musica: Anthony Parthos

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THE SAPPHIRES - Australia, Motown, Vietnam

28/4/2013

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Solo a prima vista, e ciò vuol dire a un’occhiata superficiale, The Sapphires è la versione australiana di Dreamgirls. In realtà, le sole cose che il film di Wayne Blair e quello di Bill Condon hanno in comune sono l’ambientazione anni ’60, una matrice teatrale e il fatto di raccontare la storia di un gruppo musicale al femminile. Detto questo, le somiglianze iniziano e terminano con i primi cinque minuti di The Sapphires.
Australia, 1968: Gail (Deborah Mailman), Julie (Jessica Mauboy), and Cynthia (Miranda Tapsell), tre sorelle aborigene nella terra australiana arretrata e razzista, sono sconfitte a una gara locale di canto. Propongono un genere, la motown music, che mal si adatta alle tradizioni del posto e che viene guardato con un misto di noia e sospetto dall’intera comunità. La stessa presenza degli aborigeni è appena sopportata, in una fase storica molto ben descritta dal film, che sottolinea anche il drammatico destino dei “bambini rubati”, piccoli aborigeni che - dai primi del Novecento fino al 1969 - venivano sottratti alla propria famiglia e alle proprie radici per essere cresciuti dai bianchi.
La gara di canto è un evento insignificante ma in qualche modo fondamentale, perché permette alle ragazze di incontrare Dave Lovelace (Chris O’Dowd), un talent scout irlandese tanto capace di fiutare talenti come di autodistruggersi con l’alcool. Anche lui ha bisogno di una sfida, dopotutto. Ed ecco l’idea: partire per un tour per le truppe di stanza in Vietnam. Il coinvolgimento di Kay (Shari Sebbens), una cugina cresciuta come una “bambina rubata”, porta scompiglio ma anche la perfetta armonia tra le voci: le Sapphires possono partire.
In questa straordinaria avventura umana, che metterà l’intero gruppo di fronte a importanti scelte di vita, la coinvolgente musica soul fa da sfondo e cornice a una toccante storia di amore, sorellanza, razzismo e integrazione, in cui ciascuno lotta contro i propri demoni – della debolezza o della tentazione – per mantenere il rispetto di sé ed emanciparsi, affermare il diritto di esistere.
Il viaggio delle Sapphires alla ricerca di una identità di gruppo si fonde con il desiderio individuale di felicità e con un contesto storico e culturale di estrema complessità, che lega paesi e popoli veramente divisi solo nella cartina geografica: si combatte per il riconoscimento e la dignità delle proprie origini, ci si affranca dagli stereotipi e dai pregiudizi di etnia e di genere, si ostenta una tenace speranza di fronte alle insensate conseguenze di una guerra senza nemici visibili. Il canto – non importa se l’americanissimo soul di James Brown o quello aborigeno tradizionale – è la musica universale che interrompe gli orrori dei conflitti, concilia con le note delle emozioni, avvicina a un grande messaggio di vita e di pace.
Perfetta la scelta degli attori, volti popolari nella televisione e nel cinema australiano, con una menzione speciale per Deborah Mailman (già performer del testo in teatro, nel 2004), e Chris O’Dowd, che qualcuno ricorderà come il poliziotto imbranato de Le amiche della sposa, qui impegnato in un ruolo che valorizza il suo talento brillante e le potenzialità drammatiche. 
Il regista Wayne Blair segna gli spazi liberi degli interpreti e a loro si dedica. Non compie lo sforzo di rendere realistico il Vietnam, e non si addentra certo nella storia contemporanea americana: la sua descrizione d’ambiente rimane statica – benché funzionale – ed esclusivamente legata al ciclo di vita, per così dire, delle Sapphires in terra straniera: tutto è filtrato dai loro occhi e dalle loro voci. Il film è interamente costruito sulla dinamica delle relazioni, quindi gli accadimenti, i bombardamenti, la polemica politica, compaiono solo in quanto si riflettono nei comportamenti, nelle parole delle protagoniste; la natura teatrale del testo, in questo caso, conferma che un film possa e debba essere trattato in modo diverso da un’opera da palcoscenico. Lacunoso in alcuni snodi narrativi, in cui accarezza i temi dove sarebbe stato preferibile graffiare, il film non ha altra ambizione che quella di rendere pubblico questo piccolo spaccato di vita realmente accaduto.
Dietro la storia delle Sapphires, infatti, c’è il racconto biografico della madre e della zia di Tony Briggs (autore della pièce e sceneggiatore del film insieme a Keith Thompson), che quell’esperienza di cantanti itineranti per le truppe in Vietnam la fecero davvero. Il film diventa quindi non solo un momento di intrattenimento e recupero della storia, ma anche un prezioso documento per fissare nell’immortalità della pellicola il ricordo, la memoria. Le atmosfere, le scelte fotografiche e scenografiche sono chiuse in una dimensione quasi irreale e nostalgica, sino al finale, con le immagini dei volti veri che hanno ispirato The Sapphires. Fuori dalla ridotta prospettiva della macchina da presa, e dopo l’happy ending, si compie la realtà.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: The Sapphires
Regia: Wayne Blair 
Sceneggiatura: Tony Briggs, Keith Thompson
Attori: Deborah Mailman, Chris O’Dowd, Jessica Mauboy, Miranda Tapsell, Shari Sebbens.
Anno: 2012
Durata: 103'
Fotografia: Warwick Thornton
Musica: Cezary Skubiszewski
Uscita in Italia: inedito

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