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KOTOKO - Tsukamoto tra lacrime e nuove carni

27/5/2013

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Ci sono film che nel percorso poetico e identitario di un grosso autore possono fungere da palingenesi rigenerante, da apripista per nuovi sorprendenti inizi. È il caso di Kotoko, premio Orizzonti a Venezia 2011, che del cinema di Shinya Tsukamoto riscopre la forza materica e la portata destabilizzante, risintonizzandosi nel solco del bellissimo Vital (2004) dopo il buono ma non eccezionale Tetsuo: The Bullet Man e i due episodi della serie Nightmare Detective. 
Non è che la vena di Tsukamoto si fosse pericolosamente assottigliata verso la meccanica riproposizione di sé, ma è parimenti vero che si sentiva il bisogno di un uragano che rifacesse piazza pulita, spazzando via la tendenza ad appoggiarsi a un passato residuale, a cose già fatte, a sentieri già battuti e consolidati. Tsukamoto necessitava di una rinascita non per sfuggire da sé e dal proprio immaginario, ma per poterlo rilanciare con una rinnovata focosità e un’assenza di sconti che facesse nuovamente gridare al capolavoro e al miracolo rivelato.
Ecco allora che Kotoko sopraggiunge come la risposta più generosa a tutte queste bisognose speranze; un film unico e pregiato, che solo una mente come quella di Tsukamoto avrebbe potuto concepire facendo leva su una così estrema connivenza di atrocità e poesia. Nell’ultimo film del regista di A Snake of June e Tokyo Fist la macellazione della carne - intesa come autolesionismo, ferita accecante, negazione di sé attraverso un dolore inflitto e calcato - coincide infatti con una spiritualità di sorprendente grazia. I due elementi danzano sul baratro della contraddizione inseguendosi di continuo, con ognuna delle due parti che in maniera incessante rincorre il suo opposto e si riversa in esso. Una natura ossimorica che innesta nel film una profonda elegia del contrasto, un nuovo anno zero e un ritrovato cuore pulsante della propria arte e del proprio cinema. 
In più, Kotoko è un abbagliante racconto di sensibilità femminile: il malessere di una giovane madre affetta da un morbo straniante e inspiegato a causa del quale è costretta a vedere la gente dissociata in due parti, una buona e una cattiva, due unità scisse che si ricompongono soltanto quando la protagonista lenisce il dramma della sua percezione frammentata con l’esercizio del canto. Un atto che coincide anche con l’unico momento privo di paura per una mater dolorosissima che, accusata di maltrattamenti e sevizie ai danni del piccolo, viene separata dal figlio che ama alla follia, ma che rischia di essere messo in costante pericolo per via delle pulsioni dissociate e perfino infanticide che albergano nella donna.
Innovando con potenza disturbante il più vecchio degli spunti strappalacrime - quello di una madre forse non all’altezza del suo ruolo ma che non vuole vedersi strappata la sua adorata creatura - Tsukamoto si mette anche fisicamente in scena nei panni di un celebre scrittore del quale la protagonista Kotoko si innamora, sfociando peraltro in un vortice di percosse, a partire da un tentato suicidio di lei per arrivare a un reciproco perseguitarsi e rincorrersi, come in un tango della disperazione e della prostrazione, resa ancor più viva da un uso sensazionale del digitale.
I fremiti dei corpi traballanti vengono a coincidere con la paura del terremoto che nel 2012 ha disossato gli animi del popolo nipponico, facendo coincidere la depressione col corrispettivo e tellurico moto del corpo. Cocco, cantautrice giapponese molto nota in patria e anche autrice del soggetto di questo film e in passato della colonna sonora di Vital, si avvinghia al suo personaggio con un’adesione spaventosa e autobiografica (ha infatti lei stessa perso un figlio): un’interpretazione mirabile, con le braccia ora mutilate in ferite a cielo aperto ora tendenti verso l’alto, impegnate nell’analgesico rimedio canterino al timore ancestrale di una catastrofe incombente; una novella, straziata Pina Bausch con gli occhi a mandorla. 
Cocco è la testa contro il muro, la lingua che lecca la ferita insanguinata del suo amato con delle forti bracciate, la segmentazione polare dei rumori che vivono nella sua testa. Il personaggio di Tsukamoto provvede ad assecondare l’essenza (cronenberghiana) del doppio della sua protagonista e da lei si lascia seviziare nel corpo, mettendosi a nudo in prima persona in una sorta di impetuoso afflato militante e abbandonandosi così a un’immersione abnegata e affascinante dentro al suo stesso film. Le ferite, non a caso, si rimarginano man mano che l’amore si fa largo e i cuori si sciolgono per davvero, non sperperando più il sangue ma lasciandolo scorrere a fiotti nelle proprie vene.
La forza visiva e metaforica è proprio quella dei Gemini inseparabili del David regista canadese che di Tsukamoto è esso stesso anima gemella, ma gli scarti della macchina da presa sono qui ben più violenti e imprevedibili, fedelmente a un’idea di cinema abrasiva e priva di sconti, incentrata sulla perversione masochistica e simbiotica. Tra allucinazione e lampi piangenti, tra radicale impeto corporale e inserto onirico, Kotoko è un film indimenticabile, da brivido, da vivere con gli occhi spalancati sull’abisso dello spirito e della carne, pervasi e illuminati dallo strazio urlante di un concerto audiovisivo irripetibile e di mortale bellezza.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Kotoko
Anno: 2011
Regia: Shinya Tsukamoto
Sceneggiatura: Shinya Tsukamoto, Cocco (soggetto originale)
Fotografia: Satoshi Hayashi, Shinya Tsukamoto
Musiche: Cocco
Durata: 90’
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Cocco, Shinya Tsukamoto

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